mercoledì 26 novembre 2025

Il Miserere di Gregorio Allegri, ovvero il canto delle tenebre

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Ci sono musiche che appartengono ai luoghi più di quanto appartengano ai loro compositori. 

Il Miserere di Gregorio Allegri, composto a Roma intorno al 1630, è una di queste: fragile, sospeso, costruito per vivere nell’ombra e per invitare chi lo ascolta a far parte della penombra. Non è una partitura “geniale” nel senso moderno del termine; è un organismo che respira con lo spazio che lo contiene. E lo spazio perfetto era – e resta – la Cappella Sistina durante l’Ufficio delle Tenebre del Mercoledì Santo.

Immaginare quella sera è sempre un piccolo viaggio: quindici candele sul candelabro triangolare, una che si spegne dopo l’altra, il chiaroscuro che avanza, i volti del Papa e dei Cardinali che emergono appena dalla penombra, gli affreschi di Michelangelo che sembrano galleggiare in un crepuscolo che non è naturale ma liturgico. In questo teatro sacro, il Miserere scivolava come un soffio: alternanza di canto piano e polifonia, un richiamo sottile che ancora oggi sembra arrivare da un punto preciso ma inafferrabile della cappella.

C’è un altro aspetto che oggi rischiamo di dimenticare: quanto questa musica dovesse apparire sovrannaturale a chi la ascoltava nel Seicento. Noi abbiamo orecchie allenate alla complessità: viviamo in un mondo in cui la musica è parte del panorama, dove anche le armonie più audaci passano ovunque, dalla radio dell’auto allo streaming del cellulare fino alla diffusione acustica dei centri commerciali. Ma un ascoltatore dell’epoca, seduto sotto gli affreschi della Sistina e immerso nella penombra del rito, percepiva il Miserere in un modo completamente diverso.

Era polifonia pura: voci che si rincorrevano, fioriture leggere come filigrana, linee che si intrecciavano e si separavano come se avessero un’intelligenza propria. E soprattutto, nessuno strumento. Nessun organo, nessuna viola da gamba, nessuna tiorba a fare da sostegno. Solo il fiato umano – addestrato per anni, disciplinato come un corpo unico – che riempiva lo spazio con note perfette, limpide, sospese.

Per molti, doveva sembrare di sentire gli angeli.

Perché non era una musica che “veniva eseguita”, era una musica che accadeva, che nasceva nell’aria, viveva per pochi minuti e poi si dissolveva nel buio come un’apparizione. Una cosa così raffinata, così matematica nel suo contrappunto e allo stesso tempo così emotiva nella resa, era un prodigio acustico: la prova tangibile che l’uomo, almeno per un istante, poteva sfiorare il divino.

E nel silenzio della Cappella Sistina, quando l’ultima cadenza si posava come un respiro trattenuto, la reazione doveva essere sempre la stessa: una frazione di secondo di incredulità, un istante in cui nessuno osava muoversi. Poi soltanto il buio, la candela che si spegneva e quella sensazione vertiginosa di aver ascoltato qualcosa che non apparteneva del tutto alla terra.

Gregorio Allegri 

Nel tardo Seicento, l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo – musicista competente e assai sensibile al prestigio – volle assolutamente il Miserere per la sua cappella imperiale di Vienna. Chiese a papa Innocenzo XI una copia. La ottenne. Tutto sembrava semplice… fino all’esecuzione viennese.

Quello che risuonò nel palazzo imperiale non era un capolavoro mistico: era un corale moscio. Un disastro. Un Miserere che sembrava uscito da una parrocchia annoiata della periferia boema.

Leopoldo, convinto di essere stato ingannato, perse le staffe: accusò il maestro di cappella della Sistina di avergli rifilato un altro Miserere, una specie di tarocco musicale ante litteram. E siccome ai sovrani piacciono i gesti teatrali, fece sapere al Papa di ritenersi truffato. Innocenzo XI, che non capiva molto di musica ma teneva moltissimo alla reputazione della sua cappella, si indignò al punto da cacciare il maestro senza ascoltare spiegazioni.

Il pover’uomo rimase per mesi nell’ombra, provando a dire che no, non aveva mandato alcun falso. A salvarlo fu un cardinale che si prese a cuore la sua causa e spiegò al Papa – con tatto e un pizzico di verità scomoda – che il Miserere non era replicabile fuori dalla Sistina. Non perché fosse “magico”, ma perché i cantori romani avevano una competenza tecnica fuori dal comune e, soprattutto, perché l’intero rito delle Tenebre era costruito per esaltare quel brano specifico. In altre parole: le stesse note, in un altro luogo e con altre voci, risultavano irriconoscibili.

Innocenzo XI, ancora scettico ma un po’ meno furente, si convinse e scrisse una lunga lettera di autodifesa a Leopoldo I, spiegando che non c’era stata alcuna truffa: era la natura stessa del brano a non sopportare il trasferimento.

L’imperatore allora tentò la via più pratica: “Se la partitura non basta, mandatemi almeno qualcuno dei vostri cantori.” Il Papa acconsentì, i musicisti prepararono le valigie… ma nel 1683 la guerra contro i turchi travolse ogni progetto. Leopoldo dovette abbandonare Vienna, e il Miserere restò dove aveva sempre voluto restare.

Un canto che rifiuta di essere posseduto. Un canto nato per le tenebre e custodito dalle tenebre. Forse il frammento più fragile – e più luminoso – di ciò che siamo, capace di emergere solo nel buio della Cappella Sistina, quando le candele si spengono e la musica sembra ricordarci che l’incanto, a volte, dura un soffio soltanto.

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