domenica 18 dicembre 2022

"Libertà" di Paul Éluard, una poesia per non dimenticare

Dune di Corralejo, Fuerteventura
Ottanta anni fa, in piena Seconda Guerra Mondiale, con il proprio Paese invaso e un destino cupo che si prospettava, Paul Éluard scrisse forse la poesia più significativa della sua vita. Voleva essere un inno a ciò che di bello è nella nostra esistenza: voleva raccontare per cosa è giusto vivere e a volte anche morire.

Noi, figli di un'epoca ovattata e ipocrita, abbiamo smarrito il senso del sacrificio: ci siamo illusi di poterci nascondere in un angolo, fuori vista, senza farci carico delle nostre responsabilità, sfuggendo agli eventi. Ma non si può scappare dalla realtà: l'unico modo per risolvere i problemi di quest'epoca incerta e burrascosa è affrontare apertamente le avversità per superarle con le armi della consapevolezza e dell'impegno.

Io so che torneremo ancora a credere in ciò che siamo e saremo, piuttosto che in ciò che abbiamo o che vorremmo avere. Torneremo a credere negli ideali: perché abbiamo bisogno di speranza, abbiamo bisogno di giustizia, abbiamo bisogno di libertà.

Libertà

Su i quaderni di scolaro
Su i miei banchi e gli alberi
Su la sabbia su la neve
Scrivo il tuo nome

Su ogni pagina che ho letto
Su ogni pagina che è bianca
Sasso sangue carta o cenere
Scrivo il tuo nome

Su le immagini dorate
Su le armi dei guerrieri
Su la corona dei re
Scrivo il tuo nome

Su la giungla ed il deserto
Su i nidi su le ginestre
Su la eco dell’infanzia
Scrivo il tuo nome

Su i miracoli notturni
Sul pan bianco dei miei giorni
Le stagioni fidanzate
Scrivo il tuo nome

Su tutti i miei lembi d’azzurro
Su lo stagno sole sfatto
E sul lago luna viva
Scrivo il tuo nome

Su le piane e l’orizzonte
Su le ali degli uccelli
E il mulino delle ombre
Scrivo il tuo nome

Su ogni alito di aurora
Su le onde su le barche
Su la montagna demente
Scrivo il tuo nome

Su la schiuma delle nuvole
Su i sudori d’uragano
Su la pioggia spessa e smorta
Scrivo il tuo nome

Su le forme scintillanti
Le campane dei colori
Su la verità fisica
Scrivo il tuo nome

Su i sentieri risvegliati
Su le strade dispiegate
Su le piazze che dilagano
Scrivo il tuo nome

Sopra il lume che s’accende
Sopra il lume che si spegne
Su le mie case raccolte
Scrivo il tuo nome

Sopra il frutto schiuso in due
Dello specchio e della stanza
Sul mio letto guscio vuoto
Scrivo il tuo nome

Sul mio cane ghiotto e tenero
Su le sue orecchie dritte
Su la sua zampa maldestra
Scrivo il tuo nome

Sul decollo della soglia
Su gli oggetti familiari
Su la santa onda del fuoco
Scrivo il tuo nome

Su ogni carne consentita
Su la fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Scrivo il tuo nome

Sopra i vetri di stupore
Su le labbra attente
Tanto più su del silenzio
Scrivo il tuo nome

Sopra i miei rifugi infranti
Sopra i miei fari crollati
Su le mura del mio tedio
Scrivo il tuo nome

Su l’assenza che non chiede
Su la nuda solitudine
Su i gradini della morte
Scrivo il tuo nome

Sul vigore ritornato
Sul pericolo svanito
Su l’immemore speranza
Scrivo il tuo nome

E in virtù d’una Parola
Ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti

Libertà.

Traduzione di Franco Fortini

martedì 6 dicembre 2022

Di spazi bianchi e di montagne

Terra Australis Incognita, Jodocus Hondt, 1618
Fin da ragazzino sono stato appassionato di geografia, una materia che oggi si insegna poco e si padroneggia ancor meno. Mi regalarono un mappamondo per la Prima Comunione e ricordo che senza sforzo mi imparai la morfologia della Terra e tutte le capitali del mondo di più di cinquant'anni fa, che recitavo volentieri a ogni occasione ad amici e parenti. 

Qualche anno dopo, ormai quasi adolescente, non ebbi pace finché non convinsi i miei genitori a regalarmi per Natale un grande atlante del mondo - l'Atlante Internazionale del Touring Club Italiano - pieno di carte ad alta risoluzione che compulsavo avidamente, cercando di intravedere la realtà delle terre che rappresentavano.

Ma ero affascinato anche dagli atlanti "muti", quelli con le cartine prive di riferimenti e nomi. Mi attraevano in particolare quegli spazi bianchi che facevano sembrare il nostro pianeta un luogo completamente da scoprire; infatti una delle mie passioni è sempre stata quella di andare in giro per scoprire nuovi posti, luoghi che io non avevo mai visto anche se stavano vicino a casa.

Per diversi anni abbiamo avuto in affitto una casa a Vagliano di Montemurlo, a due passi dalla villa del Barone; una grande colonica costruita ai primi del Settecento che faceva parte dei tenimenti della fattoria di Parugiano e che era stata abbandonata negli anni Sessanta del secolo scorso dalla famiglia contadina che ci viveva e ci lavorava, attratta come tante altre dalla comodità della vita nella piana e dai maggiori guadagni del lavoro in fabbrica.
Carta della parte settentrionale della Toscana, 1781
La mia famiglia, insieme ad altre tre - anche loro residenti in città ma come la mia nostalgiche della campagna dalla quale tutti i nostri vecchi provenivano - ai primi degli anni Settanta aveva fatto un percorso inverso, prendendo in affitto per pochi soldi la casa dalla fattoria di Parugiano. Ci passavamo il fine settimana e le vacanze estive e ci facevamo feste con gli amici; ricordo che in un'occasione fu utilizzata anche per un affollatissimo festeggiamento di nozze.

La casa era stata rimessa a posto da noi con vari lavori, alcuni anche di discreto impegno. In particolare ricordo la costruzione di un acquedotto con tanto di grande deposito per dotare la casa di acqua corrente e il rinforzo del pavimento del grande fienile al piano superiore - trasformato in salone delle feste - con l'uso di due longarine di acciaio. In breve la casa e il podere intorno diventarono il luogo delle mie scorribande di bambino e ragazzo, spesso insieme al mio babbo, gran cacciatore, pescatore e raccoglitore di tutto ciò che di utilizzabile o commestibile si poteva trovare nei boschi e nelle campagne. 
Monti Sagro e Grondilice, cartolina di fine Ottocento
Con lui andavo in giro nel circondario; queste nostre uscite le chiamavamo "esplorazioni" e sento ancora la passione che avevo nell'andare con lui in luoghi anche banali ma che avevano per me il gusto del mai visto, della Terra Incognita. Perché se c'è una cosa che fin da piccolo ho sempre saputo, anche senza poterlo spiegare a parole, è che tutti noi, volenti o nolenti, siamo degli esploratori destinati ad avventurarsi in terre sconosciute.

Una famosa massima di Lao Tzu afferma che ogni lungo viaggio comincia da un singolo passo; e in questa luce ho sempre visto la nostra esistenza. Noi attraversiamo gli spazi bianchi delle mappe del mondo che ci circonda e le riempiamo con l'esperienza del nostro passaggio. L'atlante "muto" è anche quello della strada dove non sono stato, della città dove non sono passato, dell'esperienza che non ho ancora vissuto.

Gli spazi bianchi rappresentano per me il mistero e il tesoro dell'esistenza, l'emozione e la meraviglia di scoprire, sperimentare, vivere. Mi sono sempre sentito un Magellano inviato ad attraversare le vaste regioni del mondo che mi circonda, per colorare il bianco delle mappe mute con le tinte della conoscenza. Questo atteggiamento non mi ha mai abbandonato, e ancora mi ricorda quel bambino che esplorava il mondo per emozionarsi davanti a un posto nuovo, fantasticando sempre di partire verso altre destinazioni. 
Il Monte Rosa a Macugnaga, A. Calame, 1860 circa
C'è da sempre un luogo che per me riassume il senso di questa esperienza, un luogo che dà la migliore illusione della conoscenza: la vetta di una montagna. Raggiungerne la cima per abbracciare con lo sguardo l'orizzonte, condensando intere regioni nello spazio di un'occhiata è la quintessenza dell'esplorazione. 

Nel momento in cui per la prima volta raggiunsi insieme al mio babbo la croce metallica della Retaia mi resi conto sia della vastità del mondo che mi circondava sia della bellezza che questa vastità comunicava ai miei occhi. E l'emozione che nasceva in quel momento dalla consapevolezza di accedere a un universo immensamente più grande delle poche strade in cui fino a quel momento ero vissuto generò una sensazione duplice: l'orgoglio di essere giunto fin lì e la necessità di andare oltre.

Fino a comprendere molti anni dopo, come nella poesia di Kavafis, che il senso del nostro viaggio non sta nella meta - o nelle mete - che ci troviamo a voler raggiungere, ma nel percorso che facciamo per arrivarci...

"Να εύχεσαι νάναι μακρύς ο δρόμος..."