domenica 29 marzo 2020

Le "Spine" della Calvana

Biancospini sul Monte Maggiore
I monti della Calvana nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale hanno subìto una trasmutazione alchemica. Da luogo agricolo e silvopastorale, abitato da allevatori e contadini che risiedevano da generazioni su questa terra sassosa, carsica, piegata alle esigenze dell'uomo solo con un lavoro incessante di costruzione e modellazione di terrazze e recinti, punteggiata da case di dura pietra alberese sagomata da scalpellini itineranti che scavavano le rocce come se estraessero le ossa stesse dei monti per farne dimore adatte a questa gente dura, si è trasformata e ha improvvisamente cambiato volto. 

Un mondo è scomparso e un altro, incerto, si va facendo strada fagocitando i resti del passato. I contadini sono spariti, pochi sono gli allevatori rimasti: persino il bestiame, organizzato in branchi allo stato brado, ritorna a occupare liberamente i prati sommitali. Solo la Natura, trionfante, va lentamente rioccupando gli spazi che l'uomo le aveva tolto, invadendo le case diroccate, riempiendo di alberi e di verde selvatico i campi e gli gli antichi terrazzamenti, occupando i valloni e nascondendo le strade medievali, le torri le chiese e le sorgenti, cancellando le tracce di interi abitati che secolo dopo secolo avevano lasciato la loro impronta su questi monti.

Alla Spina Vagliucci
Paradossalmente tutto questo accade nel momento in cui la Calvana è a portata di mano, facile da raggiungere attraverso strade e sentieri ben tracciati, e la piana che la circonda è popolosa, ricca di vita e opulenta come non era mai stata in tutta la sua storia. Ma proprio la modernità della vita nella piana ha reso più distanti i monti che la sovrastano. Li attraversiamo per qualche escursione, a piedi, in bicicletta o con mezzi fuoristrada, sempre per poche ore e con la sensazione di essere come astronauti che esplorino un mondo alieno, legati a un cordone ombelicale invisibile che impone di tornare alla base prima che si esauriscano le riserve d'aria.

Il richiamo di questi monti è un canto che attira e respinge allo stesso tempo: ne percorriamo i sentieri e le antiche mulattiere perché sentiamo di essere ancora parte di un mondo che è trascorso, ma quando torniamo indietro avvertiamo che ci è diventato estraneo. Indice di questa estraneità è l'incapacità di riconoscere i segni del passato, che pure punteggiano ogni luogo della catena.

Uno di questi segni onnipresenti è dato dalle "Spine", ovvero dai biancospini monumentali a portamento arboreo che sono presenti quasi ovunque, con l'esemplare più conosciuto, la Spina Vagliucci, situata  nelle praterie a nord del monte Maggiore, che stupisce per le dimensioni davvero notevoli: circa quindici metri di altezza per una circonferenza al colletto di oltre due metri. 
Bacche di biancospino vicino al Passo della Croce
Probabilmente questa "Spina" ha un'età di quasi cinquecento anni. Segnava i pascoli di di Savignano, Casanera e Colombaia già ai tempi del Machiavelli. Fa parte di tutta una schiera di piante che venivano lasciate crescere da sole o in siepi per segnare i confini delle proprietà, e che si trovano a testimonianza di quanto un tempo il territorio della Calvana fosse popolato, minutamente diviso ed assegnato a coltivatori ed allevatori. 

L'abbandono della pratica di creare siepi e alberi di biancospino per indicare e suddividere le proprietà discende dalla meccanizzazione agricola, anch'essa figlia di quell'industria che ha portato allo spopolamento delle scabre terre della Calvana. Le siepi di biancospino, coperte di bianchi fiori profumati in primavera e di scenografiche bacche in autunno e in inverno, sono scomparse come il mondo di cui erano parte perché con le loro spine e i loro rami intrecciati e fittissimi creavano barriere impenetrabili che rendevano difficoltosa la circolazione dei mezzi meccanici. 

Figlie di un'epoca analogica di opere manuali, mute testimoni di un Appennino "prima del motore", parlano solo a chi sa vedere e raccontano di un tempo profondamente diverso da quello di oggi, del quale pur tuttavia noi siamo eredi. E ci ricordano che dovremmo diventare consapevoli di questa nostra eredità, perché solo chi ricorda da dove è venuto sa dove può andare.

sabato 21 marzo 2020

Gli Ariani di Ravenna

Battesimo di Cristo nel fiume Giordano, mosaico (sec. VI)
Gesù disse:
«Io sono la luce che è su ogni essere.
Io sono ogni essere. 
Ogni essere è venuto da me. 
E ogni essere viene a me. 
Tagliate il legno, là io sono. 
Sollevate la pietra, là mi trovate».
Vangelo di Tommaso, Logion 77

Noi moderni siamo abituati a pensare al cristianesimo come a qualcosa di definito e cristallizzato, con i suoi libri canonici, i suoi precetti, i comandamenti, le sue gerarchie e le sue professioni di fede. Il fatto che una religione sia refrattaria al cambiamento ha anche una sua logica: se la verità rivelata è unica e indiscutibile non ha bisogno di adattarsi al tempo, è il tempo che si deve adattare a lei.

E questo è anche uno dei punti di attrazione che offre un credo religioso. Sai che per raggiungere la salvezza devi rispettare delle regole, sai che devi seguire delle leggi ben precise, e questo a prescindere dal momento storico e dal luogo in cui ti trovi a vivere. L'immutabilità delle leggi è un riflesso di quell'eternità che la religione sottintende e si pone come una roccia di stabilità nel fiume dell'eterno cambiamento che la vita porta in sé.
Angeli e demoni, M.C. Escher
Non è sempre stato così. Sarebbe più corretto dire che questa apparente immobilità della religione in cui siamo cresciuti è solo un'illusione ottica dovuta alla grande estensione temporale nella quale è venuta a svilupparsi. In realtà la religione come la conosciamo oggi è solo il risultato di una serie interminabile di inclusioni ed esclusioni: fin dal principio ci furono momenti in cui doveva essere definita l'ortodossia. Ciò che non era ortodosso diventava eretico, e l'ortodossia emergeva dal mare dell'eresia come una statua da un blocco di marmo grazie al lavoro dello scultore.

È molto difficile anche solo intravedere quale sia stata la realtà concreta della figura di Gesù nel suo percorso storico. I racconti che ne narrano vita ed opere sono numerosi, scritti molti anni o anche secoli dopo la sua morte, in maggioranza da persone che non lo conobbero o che non ebbero con lui alcun contatto diretto, verosimilmente piegati alle necessità storiche del tempo in cui vennero compilati, contaminati nella loro stesura dalle credenze e dalle idee delle persone che li scrissero, sia che fossero eretici o difensori dell'ortodossia. E che in più di un'occasione si scambiarono di posto, come in un gioco di specchi o in un quadro di Escher.
Cattedra di Massimiano, avorio, V secolo
Uno di questi personaggi è un vescovo alessandrino di nome Ario. All'epoca Alessandria d'Egitto si poteva definire la New York o la Parigi dell'Impero Romano: ricca, colta, cosmopolita, erede di due culture - greca ed egizia - ben più antiche di quella dei conquistatori romani. Sede di una gigantesca Biblioteca che aveva fama di essere la maggiore dell'Impero, attraeva studiosi e intellettuali da ogni parte del mondo conosciuto.

Ario, di origine berbera, nato in Libia intorno al 250, era uno di questi studiosi, formatosi alla scuola di un Luciano di Antiochia che in altri secoli sarebbe stato un filosofo ma che in quella stagione storica era un "presbitero" (ovvero sacerdote) e un teologo, famoso per il suo rigore intellettuale. Come tanti in quell'epoca viveva un'esistenza sospesa a metà tra la vecchia e la nuova stagione religiosa, con gli antichi dei ancora vivi e presenti sottotraccia nei nuovi insegnamenti.
I Re Magi, Sant'Apollinare Nuovo, mosaico (sec. VI)
Da questo mescolarsi di culture Ario maturò una sua interpretazione della religione cristiana che ancora oggi affascina, e che vede una sorta di gerarchia tra le figure della Trinità in cui solo una - il Padre - ha natura totalmente divina in quanto Unico e indivisibile, mentre il Figlio e lo Spirito Santo sono "emanazioni", esseri sovrumani ma in qualche modo inferiori proprio perché venuti dopo l'Unico che li ha creati.

La diffusione delle sue tesi fu almeno inizialmente un successo, al punto che dopo una lunga serie di controversie, in seno al cristianesimo di allora si crearono due fazioni - oggi diremmo due partiti - tra loro contrapposte: gli "ariani" che negavano la divinità del Figlio e gli "ortodossi" che invece l'affermavano. L'imperatore Costantino allora regnante, preoccupato per la stabilità dello Stato fu convinto nel 325 a convocare a Nicea (l'attuale Iznik, in Turchia) un Concilio che dirimesse una volta per tutte la questione, e che vide la sconfitta delle idee di Ario.
Cristo Vincitore, mosaico, V secolo
La sconfitta al Concilio Niceno non fu però definitiva, perché l'arianesimo continuò per molti anni ancora a diffondersi grazie anche all'opera di discepoli come Ulfila, un convertito di origine gotica, che riuscì a propalare la sua versione del cristianesimo, forse più semplice, forse più conforme alla loro mentalità, a molte delle tribù barbariche del Nord, tra cui Goti, Vandali e Longobardi. 

E proprio grazie ai Goti - nella persona di Teodorico - possiamo ammirare una delle rare opere ariano-cristiane ancora esistenti: il mosaico del Battistero degli Ariani di Ravenna, costruito alla fine del V secolo, che mostra nella cupola il battesimo di Cristo nel fiume Giordano. La differenza con un'opera "cristiana ortodossa" è sottile, ma ben visibile: il Cristo battezzato mostra la sua natura pienamente umana e infatti è completamente nudo, senza veli a nascondere i genitali, e anche il fiume Giordano è rappresentato come una divinità fluviale classica, a rammentare che a quel tempo sotto la patina cristiana molte cose del paganesimo restavano ancora vive e vissute.