sabato 23 marzo 2024

Tre bandiere e un viaggio a New York

Three Flags, Jasper Johns, 1958
Con le sue Three Flags, Johns ha trasformato l'emblema più politicamente carico in qualcosa di più formale, tanto che ha sempre raffigurato la bandiera americana con 48 stelle (...) Tuttavia, vale anche la pena considerare il contesto storico del dipinto, un'America della Guerra Fredda sotto la repressione maccartista, così come il fatto che Johns era solito riferirsi ai suoi dipinti come "fatti", lasciandoli quindi aperti a interpretazioni. In questa luce, Three Flags sfida la nostra percezione dei molteplici significati racchiusi nell’icona americana per eccellenza (...). (Benedetta Ricci, Artland Magazine)

Tre bandiere: tre sguardi sull'America. Un Paese che ci appare simile ma anche diverso dall'Italia. Difficile da conoscere appieno in un breve soggiorno, limitato a una specifica area geografica. E vissuto, peraltro, con l'idea che deriva dalle innumerevoli fonti di informazione. Che spesso creano una sensazione di déjà vu, che può essere fuorviante.

1) La diseguaglianza. Molto maggiore di quella che sperimentiamo qua: le infrastrutture (case, strade, servizi) vanno dallo stupefacente al pericolante nello spazio di poche centinaia di metri, massimamente nei quartieri periferici che in alcuni casi sembrano dei veri e propri ghetti, con l'effetto generale di mostrare una cura molto minore del "bene pubblico", tant'è che al ritorno la mia Prato - che pure ha tanti difetti - mi è sembrata stranamente ben tenuta. Detto in generale, esiste una forte segregazione spaziale, con quartieri opulenti adiacenti a isolati popolari o perfino totalmente degradati, che riflette le disparità economiche e sociali della società americana.

2) Lo spreco. Le confezioni e gli allestimenti dei prodotti in vendita nei supermercati sono ciclopici: montagne di frutta e verdura, cartoni da 24 uova, chili di carne e pesce, taniche di latte e di bibite, cisterne di birra. Eravamo in 3 in un quartiere ispanoamericano, cenavamo in casa e abbiamo avuto difficoltà a fare la spesa cercando di comprare quello che era necessario senza fare scarti. L'idea che una persona consumi quello che è necessario senza buttare via nulla qua viene vissuta come la prefigurazione di una carestia, come se solo la sovrabbondanza e il conseguente sciupio possa misurare la ricchezza di chi utilizza questi beni. Da questo atteggiamento discende una costante disattenzione verso il consumo improduttivo: aria condizionata ovunque - anche in autunno - impostata su temperature polari, centinaia di luci accese in pieno giorno anche in cantieri edili, automobili che sembrano carrarmati e che consumano il quadruplo di carburante di una delle nostre.

3) Il rumore. Costante, altissimo come quello di una fabbrica in perenne movimento (80 dB misurati a mezzogiorno di domenica, a Bryant Park), accompagnato da un brulichio perenne di persone che corrono incessantemente da un luogo all'altro, senza fermarsi e senza interagire con chi trovano sul proprio cammino, come tanti ingranaggi di un organismo meccanico che non si ferma mai. Dà l'idea di una corsa del criceto - di tutti noi criceti - su di una ruota di dimensioni immense. Il frastuono costante e il brulichio di persone creano un'atmosfera frenetica e spesso alienante, in una corsa incessante che impedisce la socializzazione e l'interazione umana.

In conclusione, l'America si rivela un paese di grandi contrasti, dove la ricchezza sfrenata coesiste con la povertà, l'opulenza si contrappone al degrado urbano e l'individualismo ostacola la socializzazione. Un Paese che, seppur affascinante e ricco di opportunità, lascia anche perplessi per la sua superficialità, il suo spreco e la sua frenesia. 

L'America è una sorta di specchio deformante dell'Italia, che mostra in maniera amplificata sia i nostri pregi che i nostri difetti. Da un lato, la maggior cura del "bene pubblico" e la socialità che caratterizzano il nostro paese appaiono come valori inestimabili di fronte all'individualismo e all'alienazione americani. Dall'altro, l'efficienza e la dinamicità che pervadono la società americana ci spingono a interrogarci sulla nostra staticità e sulla nostra resistenza al cambiamento facendoci riflettere sul significato di progresso, di benessere e di felicità.

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giovedì 21 marzo 2024

Caspar David Friedrich, il paesaggio come rivelazione

Viandante sul mare di nebbia, 1818
Caspar David Friedrich
(1774-1840) è considerato uno dei più importanti pittori del Romanticismo tedesco. La sua fama è legata a paesaggi di grande bellezza, spesso carichi di simbolismo e di una profonda spiritualità, che ho imparato ad apprezzare fin dalla prima volta che li ho visti.

Nelle opere di Friedrich, la natura non è solo una bella scenografia, ma diventa specchio dell'anima e mezzo per esplorare il rapporto tra uomo e infinito. I suoi paesaggi sono spesso silenziosi e immobili, privi di movimento o di eventi significativi. In questa assenza di azione, lo spettatore è invitato a proiettare i propri sentimenti e a meditare sulla vastità del creato e sul posto che l'uomo occupa in esso.
Mattino sul Riesengebirge, 1810
Friedrich era affascinato dal concetto del sublime, che definiva, citando il filosofo Kant come "il senso di sgomento che l’uomo prova di fronte alla grandezza della natura sia nell’aspetto pacifico, sia ancor più, nel momento della sua terribile rappresentazione, quando ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua estrema fragilità, la sua finitezza, ma, al tempo stesso, proprio perché cosciente di questo, intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima possiede una facoltà superiore alla misura dei sensi". 
La Terrazza del Giardino, 1812
Il sublime scaturisce infatti dal conflitto tra ragione ed irrazionalità, è quel sentimento che assale l’uomo di fronte all’incommensurabile o di fronte agli sconvolgimenti dei fenomeni naturali che gli ricordano la propria fragilità. Secondo le parole di Friedrich «Sublime è per me un principio immenso, un qualcosa che vola più in alto di un uccello, che corre più veloce di un ghepardo, che è più impetuoso della tempesta, che è più dolce di un bacio… Sublime è una sensazione indescrivibile che occupa il cielo ma che può essere racchiuso anche in un piccolo fiore».
Il mare di ghiaccio, 1823-24
I suoi quadri spesso raffigurano elementi come montagne innevate, cieli tempestosi o distese di mare che, nella loro grandiosità, evocano un senso di timore reverenziale di fronte alla potenza della natura. In questa visione, la natura non è solo una creazione divina, ma una manifestazione della stessa divinità, un'opera d'arte che ne rivela la sua potenza, la sua saggezza e la sua bontà.

Nelle sue opere, Friedrich utilizza simboli ricorrenti per trasmettere messaggi spirituali e filosofici. La croce, ad esempio, rappresenta la fede e la speranza; le rocce, la solidità e la resistenza; gli alberi, la vita e la crescita. La luce, che spesso proviene da una fonte invisibile, illumina i paesaggi e conferisce loro un'aura di mistero e di sacralità.
Le bianche scogliere di Rügen, 1818
L'opera di Friedrich ha avuto un'influenza enorme sull'arte successiva, non solo in Germania ma in tutta Europa. I suoi paesaggi silenziosi e meditativi hanno ispirato artisti come Gustave Courbet, William Turner e i simbolisti. Ancora oggi, le sue opere continuano ad affascinare e commuovere per la loro bellezza e profondità.
Le tre età dell'uomo, 1834
Caspar David Friedrich ha rivoluzionato il modo di dipingere il paesaggio, trasformandolo in un potente strumento di introspezione e di elevazione spirituale. I suoi paesaggi "in cui non accade nulla" sono in realtà un invito a riflettere sul senso della vita e sul nostro posto nel mondo.

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sabato 16 marzo 2024

Il PIL del Granduca Ferdinando I

Ferdinando I de' Medici in veste da cardinale, Alessandro Allori, 1587

"Tutta la gloria e la ricchezza che c'è, si trova in città, ed è nelle mani di pochi, ai quali son convogliati tutti i prodotti della campagna. Quanto agli artigiani, non possono fare molto di più che vivere, perché di loro appena uno in un'intera città si arricchisce mai; e la vita dei poveri contadini è tale che se non fossero di natura orgogliosi pur nella loro estrema miseria, uno straniero sarebbe mosso a compiangerli."(Robert Dallington, 1596)
All'alba del XVII secolo Prato faceva parte dei "Felicissimi Stati del Serenissimo Granduca" Ferdinando I de' Medici, passato alla Storia in primis per essere asceso al trono granducale dopo aver fatto avvelenare con l'arsenico suo fratello Francesco e la moglie di secondo letto Bianca Cappello nella villa di Poggio a Caiano, e in secundis per aver rafforzato il governo mediceo dopo la sua ascesa al trono, riorganizzando l'economia degli Stati toscani in senso più liberista sulla scorta delle esperienze politiche e diplomatiche che aveva acquisito nella sua lunga carriera di cardinale, fra le altre cose a lungo incaricato dell'amministrazione della città di Roma e della gestione delle finanze della Chiesa.

Detto in poche parole, l'atteggiamento di Ferdinando in economia fu meno paternalista del suo predecessore, il fratello Francesco: sotto il suo regno ci fu una maggiore apertura verso il mercato e una razionalizzazione dell'imposizione fiscale, nel tentativo di rispondere alle esigenze di una società che stava cambiando. Le imposte rappresentavano infatti una fonte primaria di entrate per la famiglia regnante, che le utilizzava per finanziare le spese di governo, l'esercito, le opere pubbliche e il mecenatismo. 
Cristo nella casa di Maria e Marta, Francesco Bassano 1577
Questo però non significava che venissero pagate di buon grado né che i sudditi si sentissero particolarmente ben governati dal loro signore. Lo stesso Dallington nel 1596 annota infatti che
"...appare che il granduca ha due rendite con le quali si arricchisce, cioè grandi imposte e grandi risparmi (perché il risparmio è una gran rendita). Resterebbero altre due cose per farlo assolutamente ricco: l'amore dei suoi sudditi, e la loro ricchezza privata; perché la ricchezza dei sudditi è ricchezza anche del re, e dove il popolo è ricco il principe non è povero. Ma di certo non c'è né l'una né l'altra."

Le tasse a cui era soggetto un suddito dei Felicissimi Stati si potevano suddividere allora come oggi in imposte dirette, ovvero:
  • Tassa sul catasto: gravava sui beni immobili, come terreni e case, sia per la compravendita che per l'affitto nonché per la successione ereditaria, e variava dall'8% al 10% dei valori in questione.
  • Tassa sul sale: un monopolio statale che garantiva un'entrata considerevole.
  • Tassa sulla testa o testatico: applicata a tutti i cittadini, indipendentemente dal loro reddito, e anche applicata ai capi di bestiame, sia sotto forma di quota forfettaria che di tassa su ciascun capo.
  • Tasse su specifiche attività: ad esempio sulla dote della moglie al momento del matrimonio, sull'esercizio del meretricio (ogni cortigiana doveva pagare una lira - ovvero un ottavo di scudo d'oro - al mese) e sugli Ebrei (2 scudi d'oro all'anno).
e imposte indirette:
  • Dazio doganale: prelevato sulle merci importate ed esportate.
  • Gabelle: tasse su specifici beni di consumo, come pane, vino, carne e tabacco e anche su attività come condanne e cause legali.
  • Tasse sull'esercizio di particolari attività, come ad esempio locande e alberghi, e una tantum - e detta matricola - sull'impianto di attività commerciali di vendita.

Il sistema fiscale mediceo era iniquo, in quanto gravava maggiormente sulle classi meno abbienti. La tassa sul catasto, ad esempio, era spesso viziata da disparità e favoritismi verso i ceti più elevati. Inoltre, le numerose gabelle rendevano i beni di prima necessità più costosi per le famiglie povere.

In effetti possiamo affermare con sicurezza che prima della Rivoluzione Industriale di "Felicissimi Stati" in Toscana e men che meno in Europa, non ce n'era nemmeno l'ombra. Al massimo si poteva parlare - in senso relativo - di "felicissimi gruppi sociali" la cui felicità era essenzialmente basata sull'infelicità degli altri; data infatti la bassa produttività delle società preindustriali la torta da spartire era misera, e solo una ristretta élite poteva vivere e prosperare a condizione di far tirare la cinghia a tutti gli altri.
Pianta di Prato di Odoardo Warren, 1740
Nell'insieme si valuta che le tasse riscosse dal granduca ammontassero tra il 30 e il 40% del reddito, e va sottolineato che gli obblighi del governo mediceo erano di gran lunga inferiori da quelli assunti dalle moderne amministrazioni, soprattutto in tema di istruzione, sanità e previdenza.

Anche nei confronti delle comunità come Prato, ovvero di quelle amministrazioni locali che mantenevano una quota di autonomia impositiva e le cui entrate andavano a formare un Ceppo da cui si attingeva per le esigenze locali, il granduca aveva stabilito di incamerare tutti gli avanzi di bilancio, togliendoli al tesoro comunitario che quindi veniva a mancare di autonomia di gestione e che si doveva rivolgere al governo centrale per tutte quelle spese che non fossero correnti.
Scudo d'oro di Ferdinando I
Un ulteriore elemento di criticità era quello della tassazione del clero, che godeva di esenzione fiscale per i beni ecclesiastici e per le rendite derivanti da attività spirituali. Tuttavia, erano previste per il clero alcune imposte specifiche, come la tassa del sussidio e la tassa decennale. Inoltre, il clero poteva essere soggetto a imposte straordinarie in caso di necessità finanziarie dello Stato, come ad esempio nel 1561, quando Cosimo I richiese un contributo per finanziare la guerra contro Siena. Nell'insieme, però, i beni della Chiesa nella Toscana medicea erano largamente improduttivi a fini erariali: i privilegi fiscali sarebbero stati infatti mantenuti fin quasi all'alba della Rivoluzione Francese.

Gli ecclesiastici, oltretutto, erano anche molto numerosi: in una città come Prato, che a fine Cinquecento contava complessivamente - tra città e contado - circa 16.000 abitanti, i religiosi erano 2.000, il 12,5%, che vivevano tutti a spese della comunità laica. Era come se nella Prato di oggi si contassero 25.000 tra preti, frati e monache.
Bilancino da cambiavalute del XVII secolo
In questa situazione non ci si meraviglia se la maggior parte della popolazione appariva povera oltre il sostenibile. Racconta sempre Dallington che alla Fiera di Prato dell'8 settembre 1596:
"Vennero quel giorno devotamente (a trovare me, non il Sacro Cingolo) due miei amici inglesi; osservammo (...) che eran venute nel luogo del mercato circa 18 o 20 mila persone per vedere la reliquia, di cui la metà portava cappelli di paglia, e un quarto era a gambe scoperte; per cui sappiamo che non è tutto oro in Italia, anche se molti viaggiatori che dànno solo un'occhiata alla bellezza delle città e alle facciate dipinte delle case, pensano che sia il solo paradiso in Europa."

Lo scenario generale dell'epoca, visto con gli occhi di oggi, era quello di una desolante miseria che imperversava tra la massa della popolazione e si traduceva in condizioni di vita allucinanti, con contrasti sociali violentissimi anche all'interno di una società relativamente evoluta e benestante quale quella della Toscana di fine Cinquecento.

D'altro canto l'atteggiamento e la sensibilità delle classi privilegiate nei confronti della massa non erano diversi da quelli che hanno molti italiani di oggi nei confronti degli odierni migranti economici. Scriveva infatti pochi anni dopo il medico bergamasco Marcantonio Benaglio:

"Dovendosi dalli presenti successi cavar quell'avvertimento per sapere come governarsi nell'avvenire, si fa memoria che bisognerebbe soccorrere i poveri dei villaggi mandando loro grosse e sufficienti elemosine, vietando poi loro rigorosamente l'ingresso nella città con metter guardie alle porte e facendoli uscire quando fossero entrati. Perché in questo modo facendo si guadagnerà la preservazione della patria dalli soprastanti mali contagiosi, maligni ed epidemici e si schiverà il tedio e cruccio insopportabile, l'orror e spavento che porta seco una turba rabbiosa di gente mezzo morta che assedia ognuno per le strade, per le piazze, per le chiese, e alle porte delle case. cosicché non si può vivere con un puzzore che ammorba, con continui spettacoli di moribondi e morti, e soprattutto tanto rabbiosi che non si ponno distaccar da dosso senza fargli elemosina."

Mi sono chiesto se fosse possibile valutare dai documenti in nostro possesso l'effettiva ricchezza dello Stato Toscano in quello scorcio di tempo tra Cinquecento e Seicento in cui ebbe luogo il governo di Ferdinando I, e in che termini potessero essere confrontati tra loro due Paesi così diversi come l'Inghilterra elisabettiana di Dallington e lo Stato mediceo. 

Attraverso diversi calcoli, ho stimato una sorta di PIL - Prodotto Interno Lordo - per i due Stati. Sebbene sia solo un'approssimazione, fornisce comunque alcuni utili elementi di confronto. Permette infatti di paragonare, sia pure a grandi linee, un'economia moderna con quella di due Stati preindustriali.

Partiamo dai dati odierni, che appaiono sideralmente lontani da quelli di fine Cinquecento: la Toscana nel 2023 ha avuto un PIL di 113,8 miliardi di Euro, la Gran Bretagna un PIL di 3.212 miliardi di Euro. Gli abitanti al 2023 sono 3.656.000 per la Toscana e 56.489.000 per la Gran Bretagna, il PIL pro capite è di 31.127 Euro per la Toscana e 56.861 Euro per la Gran Bretagna.

Monete di Ferdinando I de' Medici 
Alla fine del Cinquecento la Toscana aveva un PIL valutabile in circa 20-25 milioni di scudi d'oro; l'Inghilterra elisabettiana era sullo stesso ordine di grandezza della Toscana, con un PIL di 24-30  milioni di scudi d'oro. Per dare un'idea di queste grandezze in Euro, possiamo usare un coefficiente di conversione di 100, che porterebbe a un PIL di 2-2,5 miliardi di Euro per la Toscana e 2,4-3 miliardi per l'Inghilterra. 

Malgrado la differenza di estensione dei due Stati, la ricchezza del Granducato era quindi molto maggiore in quanto la popolazione toscana era di gran lunga inferiore a quella inglese: 880.000 abitanti in Toscana contro 4.500.000 in Inghilterra. Facendo la stessa operazione che abbiamo fatto sopra ne viene un PIL pro capite di 2.273/2.841 Euro per la Toscana a fronte di 533/666 Euro per l'Inghilterra.

Una notevole disparità che fa capire per quale motivo Sir Robert Dallington fosse stato mandato in avanscoperta dalla Corona inglese. Per quanto poverissima in termini moderni, la Toscana di fine Cinquecento era ricca in termini relativi, se paragonata a molte altre nazioni europee del tempo, e poteva essere presa ad esempio: ma questa ricchezza era molto mal distribuita, tra privilegi ecclesiastici e nobiliari e inefficienze di ogni genere. 

Della ricchezza prodotta dallo Stato una parte finiva nelle casse del granduca ed era da lui liberamente usata sia per le sue necessità personali che per quelle della sua politica. Partendo dagli assunti precedenti, ho calcolato che le entrate di Ferdinando I oscillassero annualmente tra un minimo di 1 milione di scudi e un massimo di 3 milioni, equivalenti a 100-300 milioni di euro attuali, corrispondenti ad oltre il 10% del bilancio statale. Grandi somme, che nel panorama piuttosto misero dell'Europa dell'epoca fecero guadagnare al sovrano toscano il titolo piuttosto evocativo di "Re di denari" testimoniando se non altro la sua abilità di amministratore.

E pur con le sue diseguaglianze e con la sua relativa povertà, cosa sarebbe potuta diventare l'Italia di fine Cinquecento se, invece di essere frammentata in tanti piccoli Stati come la Toscana, fosse stata unita, mettendo da parte rivalità ed egoismi? Probabilmente sarebbe stata ancora protagonista, in Europa e nel mondo, anche dopo il periodo d'oro del Rinascimento. 

L'antica massima "l'unione fa la forza" trova sempre nella storia una conferma puntuale. Le vicende dei secoli passati ci insegnano che solo attraverso la coesione e la collaborazione è possibile raggiungere grandi obiettivi e prosperare. Al contrario, la divisione e la discordia conducono inevitabilmente alla debolezza, alla disfatta e al decadimento, sia in ambito morale che economico.

Questo motto racchiude infatti una verità fondamentale, che assume una particolare importanza anche nel contesto dell'Europa odierna. In un mondo sempre più interconnesso e globalizzato, solo attraverso la coesione e la collaborazione tra le diverse nazioni sarà possibile affrontare le sfide comuni e costruire un futuro migliore per tutti.

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domenica 10 marzo 2024

Irene Bonamici, la santa libertina

Dal film L'Abbandono (2017) 
"Gli attuali conventi sono un nido di suddite disgraziate e scontente, che dopo aver condotta una vita infelice qui in terra vanno incontro ad un'eterna dannazione, e che sarà sempre un'opera grata a Dio, e degna della sua Religione e Clemenza, se accordando che un solo convento di monache sia in ogni Diocesi sopprimerà tutti gli altri e ridonerà la libertà a tante disgraziate che l'hanno violentemente o inconsideratamente perduta"¹
La domenica di Pentecoste del 1781 si presentava come una giornata di ordinaria serenità. Il sole splendeva; alto nel terso cielo di giugno, tingeva di luce calda il mondo e lasciava presagire l'estate ormai prossima. Nessuno poteva immaginare che a fine mattinata la terra avrebbe tremato: un lungo sussulto del suolo, accompagnato da un sordo boato e dal vibrare indistinto degli edifici, sconvolse la quiete domenicale.

Il vescovo Scipione de' Ricci, colto dal sisma nel Duomo di Pistoia proprio durante la predica della Messa, vide i fedeli fuggire disordinatamente dalla chiesa in preda al terrore e sebbene constatasse che non c'erano stati danni all'edificio interpretò l'evento come una diretta manifestazione della volontà divina.

Ripensò alla mattina e alla lettera che aveva sul tavolo e che aspettava di essere completata. Pochi giorni prima Francesco Maiocchi, il padre confessore che lui stesso aveva inviato al convento di Santa Caterina di Prato aveva negato l'assoluzione a due monache per motivi assolutamente gravi e inusitati.

Non si meravigliò del fatto che nel convento ci fossero disordini che richiedessero il suo intervento. Frati e suore erano stati fin dall'inizio del suo vescovato - appena un anno prima - una vera e propria spina nel fianco. Rifiutavano di riconoscere l'autorità del vescovo; pretendevano di gestire da soli i propri conventi, accettavano solo l'autorità della corte papale e cercavano costantemente di lavare in casa i propri panni sporchi, con la connivenza di Roma.

Sfruttando senza scrupoli le prerogative accumulate negli anni del principato mediceo gli Ordini monastici avevano costituito un vero e proprio Stato nello Stato; nei conventi non si applicavano le leggi del Granducato e tutto era demandato alle corti ecclesiastiche e in ultima analisi a Roma. Che nella maggior parte dei casi incassava le cospicue rendite e lasciava correre tutto il resto.

Peraltro la popolazione monastica era - per importanza economica e dimensione demografica - una realtà importante nel piccolo mondo toscano. Importante ma parassitaria: i conventi erano pieni di frati e suore che erano tali non per vocazione ma per convenienza loro o delle famiglie che spesso li avevano destinati a quella vita fin da bambini, per liberarsene e non dover dividere eredità destinate ai primogeniti o per non dover pagare doti onerose, oppure semplicemente come ricovero dall'indigenza, dalla vedovanza o dalla disoccupazione.

Non che Scipione non avesse saputo fin dal principio come stavano le cose: ma un conto è sapere, un altro è vivere qualcosa sulla propria pelle, per necessità o per dovere. Nel giugno del 1780 quando era arrivato a Pistoia - giovane vescovo appena nominato - aveva preso subito a cuore la questione dei conventi, che si trascinava da fin troppi anni: il vescovo Ippoliti e prima di lui il vescovo Alamanni avevano infatti già cercato di risolverla, invano.

I due conventi pistoiesi di Santa Lucia e Santa Caterina e quello omonimo di Prato erano chiacchierati da decenni. Voci di continue irregolarità turbavano la quiete delle loro mura. I frati domenicani, che avevano anche la cura delle monache del loro stesso Ordine, si macchiavano di atti indecenti, dormendo nelle stesse celle con le loro consorelle, chiamandole "spose", passando le serate a veglia con loro, trasformando le celle in bische per il gioco d'azzardo e non di rado dando veri e propri intrattenimenti che vedevano ospiti anche molti componenti della nobiltà cittadina, con balli e perfino recite teatrali.

Già: recite teatrali, oltretutto di autori profani: a Prato quest'inverno per il Carnevale avevano messo in scena addirittura La Vedova Scaltra di Carlo Goldoni. E proprio nel convento di San Clemente, che sarebbe dovuto essere di stretta clausura! 

Per l'occasione erano arrivati frati da Pistoia, da Firenze e perfino da Siena, insieme a un nutrito drappello di nobili pratesi; tutti ad applaudire Suor Caterina che, spogliata le veste monacale, impersonava la bella e volitiva vedova Rosaura e che sembrava una commediante fatta e finita. D'altro canto l'intero spettacolo era stato recitato da tutti gli attori con tanta bravura da dar l'impressione che il convento fosse diventato la sede di una compagnia d'istrioni.  

Alcune battute furono in seguito riportate dagli spettatori: in particolare restò impresso l'elogio di Don Alvaro, che sembrava così adatto al singolare fascino di suor Caterina:

"Voi non sembrate italiana. La scorsa notte mi sorprendeste. Vidi sfavillare dai vostri occhi un raggio di luminosa maestà, che tutto mi empiè di venerazione, di rispetto e di maraviglia. Voi mi sembraste per l’appunto una delle nostre dame, le quali, malgrado la soggezione in cui le teniamo, hanno la facoltà d’abbattere ed atterrare co’ loro sguardi."²

Al termine della commedia furono raccolte le offerte tra gli spettatori per destinarle all'impresario, che altri non era che il Padre confessore. Egli, anziché rifuggire un simile onore, incitò apertamente gli astanti a versare il loro obolo che - affermò - sarebbe stato usato per "prossime rappresentazioni". 

Scipione sorrise tra sé amaramente e concluse che la situazione era ormai davvero insostenibile e fuori di ogni controllo. Istintivamente riepilogò dentro di sé anche quanto gli era stato rivelato di Suor Caterina, e che rendeva le trasgressioni dei due conventi pistoiesi ben poca cosa di fronte a quanto stava accadendo in quello di Prato.

Suor Caterina, al secolo Irene Bonamici, era una monaca cinquantenne di nobile famiglia che all'interno del convento suscitava un misto di ammirazione e timore. Il suo viso, un tempo di delicata bellezza, conservava ancora un'aura di fascino, con rughe sottili che incorniciavano i suoi penetranti occhi verdi, che sembravano capaci di scrutare l'anima di chi le stava di fronte. Anche la sua voce, modulata ma decisa, tradiva una cultura non comune e una naturale predisposizione alla dialettica.

Scipione l'aveva incontrata in una delle prime visite che aveva fatto a Santa Caterina. Si era subito reso conto che si trattava di una donna particolare, ben diversa da tutte le altre monache con cui era entrato in contatto: dietro la sua apparenza impeccabile si celava, però, un'anima tormentata; e in qualche misura l'inquietudine di questa donna lo aveva colpito.

Irene era stata costretta a prendere i voti da adolescente contro la sua volontà, sacrificando le sue aspirazioni, rinunciando a una vita che avrebbe voluto ben diversa. Da ragazza aveva coltivato una passione per la letteratura e per l'arte; anche adesso scriveva poesie e continuava a pensare a quella vita libera e avventurosa che non avrebbe mai potuto conoscere.

Suo malgrado si era ritrovata reclusa con tutti i suoi sogni tra le mura del convento, costretta a seguire una routine rigida e monotona. La sua intelligenza vivace e il suo spirito ardente erano stati soffocati dalle regole claustrali e dalla rigida disciplina.

Nonostante la sofferenza interiore, Irene non si era arresa completamente. Aveva trovato conforto nella lettura e nello studio, approfondendo la teologia, la filosofia e la letteratura. Ma la sua ricerca intellettuale l'aveva portata ben presto molto lontano dall'ortodossia. 

Attratta dalle idee rivoluzionarie di Giordano Bruno e dalla spiritualità interiore di Miguel de Molinos, il mistico spagnolo che aveva teorizzato la possibilità di raggiungere l'unione con Dio attraverso l'annientamento della volontà e l'abbandono passivo all'amore divino, Irene aveva elaborato una sua personale versione della religione, molto più vicina all'eresia che al credo che avrebbe dovuto professare.

Al centro della sua fede aveva posto l'amore, inteso non solo come sentimento spirituale, ma anche come atto fisico e concreto. Secondo Irene, l'amore fisico era una manifestazione della divinità, un modo per entrare in contatto con l'essenza divina presente in ogni essere umano. 

Ispirata dalle idee di Giordano Bruno sull'anima del mondo, ella sosteneva che l'amore permeava l'intera realtà, animando ogni creatura. La Chiesa, con la sua rigida moralità e la sua condanna del piacere, negava agli esseri umani la possibilità di vivere questa esperienza sublime. Irene, invece, invitava ad abbracciare l'amore in tutte le sue forme, come espressione della loro natura divina.

Quando doveva parlare alle consorelle usava spesso parabole e metafore per alludere al suo credo. Parlava dell'amore come di una danza sacra, un'unione mistica tra l'anima e il corpo, tra l'uomo e Dio. La sua voce vibrava di passione quando descriveva la gioia e l'estasi che derivavano dall'esperienza dell'amore fisico: diceva che il paradiso è qui, dentro tutti noi, che aspetta soltanto di essere scoperto.

Irene non restò sola a lungo nella sua ricerca spirituale. All'interno del convento, creò in breve un folto gruppo di seguaci con cui condivise le sue idee e mise in pratica le sue teorie sull'amore come manifestazione della divinità.

Tra queste adepte spiccava una giovane conversa, Clodesinda Spighi, di dodici anni più giovane di Irene. Clodesinda era anche lei di famiglia aristocratica; una ragazza sensibile e intelligente, attratta dalla spiritualità non ortodossa della monaca. Ben presto divenne la sua discepola più fedele, l'unica con cui Irene osava condividere i segreti più profondi del suo credo.

Clodesinda era attratta dalla forza e dalla sicurezza di Irene, che la trattava con gentilezza e rispetto, incoraggiandola a coltivare la sua intelligenza e il suo spirito critico. L'ammirazione per la sua mentore si trasformò presto in qualcosa di più profondo. Clodesinda era incantata dalle sue idee rivoluzionarie sulla fede e sull'amore, che le aprivano nuovi orizzonti e la facevano uscire dalla gabbia delle convenzioni.

Nelle lunghe conversazioni con Irene Clodesinda si sentiva finalmente libera di esprimere i suoi dubbi e le sue aspirazioni, trovando un'anima affine con cui condividere la sua ricerca di autenticità. L'attrazione fisica era solo una componente di questo sentimento complesso. Clodesinda desiderava ardentemente Irene, non solo come amante, ma anche come guida e maestra di vita. In breve la sua divenne una devozione totalizzante, un amore che la spinse a sfidare le regole del convento e a mettere a rischio la sua stessa salvezza.

Irene e Clodesinda presero l'abitudine di riunirsi con le altre adepte per discutere di filosofia, teologia e mistica. Pregavano insieme, meditavano e si dedicavano a pratiche spirituali che includevano l'amore fisico, vissuto come un atto sacro e di profonda comunione. I frati Domenicani, a cui era demandata la cura delle monache, tolleravano questa deriva in cambio di qualche dimostrazione formale di ortodossia. Irene e Clodesinda infatti negli anni "abiurarono" per ben tre volte il loro credo per poi continuare a praticarlo come se nulla fosse.

Scipione pensò che era ben strano che proprio nello stesso convento in cui era vissuta quella Santa Caterina de' Ricci che era stata da poco elevata agli onori degli altari un'altra donna seguisse un cammino apparentemente simile, ma con risultati così diametralmente opposti. Irene, eretica e ribelle, condannata dalla Chiesa. Santa Caterina, mistica e devota, elevata agli altari. 

Rifletté che santità ed eresia sono due concetti che si contrappongono, ma che in fondo non sono poi così distanti. Entrambe le donne cercavano Dio, entrambe seguivano un cammino: e pensò - scavando tra le proprie reminiscenze scolastiche - che "eresia" deriva proprio dal greco αἵρεσις "hairesis", che significa "scelta". La scelta di Irene era stata diversa da quella di Caterina nella misura in cui sono diversi due lati di uno stesso specchio.

E non capitava forse a volte anche a lui quella sensazione di straniamento? Come un sussurro di una voce appena intelligibile, come un brivido che improvvisamente lo pervadeva tutto e per un attimo faceva comparire l'interrogativo più importante, il quesito ultimo: quale sarà la scelta più giusta? Quella di Caterina o quella di Irene? Oppure entrambe?

Anche Lazzero Palli, il vicario che aveva mandato più volte a interrogare Irene, trascrivendo domande e risposte, aveva riferito che malgrado avesse dato fondo a tutta la sua capacità oratoria e dialettica non solo non era riuscito ad ottenere da lei una conversione, ma in diverse occasioni si era trovato stranamente senza parole, come affascinato di fronte alle tesi che lei sosteneva così ardentemente. Un passaggio in particolare di quell'interrogatorio gli era rimasto impresso  e continuava a ronzargli in testa: 

"In tutte le religioni ci possiamo salvare, ed esercitando erroneamente quello che diciamo impurità, era la vera purità: quella Iddio ci comanda e vuole noi pratichiamo, e senza della quale non vi è maniera di trovare Iddio, che è verità."³

Irene affermava che la vera purità è ciò che Dio ci comanda e vuole che pratichiamo, implicando che la salvezza non dipende dalla conformità a un dogma religioso specifico, ma piuttosto da una sincera ricerca della verità e da una vita condotta secondo principi morali e spirituali; e senza la vera purità, che è la ricerca della verità, non è possibile trovare Dio.

Verità, moralità, spiritualità e salvezza. Scipione pensò che se avesse dovuto condensare il proprio ministero in quattro parole non avrebbe saputo trovarne di migliori.

Per quanto le altre monache di Santa Caterina gli avessero dichiarato di abiurare a tutto quello che Sua Signoria voleva pur di essere lasciate in pace, la sola compagna che era rimasta fedele a Irene, Clodesinda, affermava senza vergogna di volerla seguire ovunque, e che non le importava nulla se avesse meritato l'Inferno, perché anche all'Inferno sarebbe stata felice se fosse stata insieme a lei.

Scipione tornò a pensare a ciò che doveva fare: doveva firmare la lettera destinata al Cardinale Andrea Corsini, visto che il nuovo Arcivescovo di Firenze non era ancora stato nominato. Doveva redigere anche una relazione a sua Altezza il Granduca Leopoldo per metterlo al corrente delle proprie decisioni. Avrebbe imposto la chiusura dei tre conventi domenicani di Pistoia e Prato, il trasferimento delle monache ad altre sedi e l'attribuzione alla Diocesi della cura dei conventi che restavano, togliendola ai Padri domenicani: a mali estremi dovevano seguire estremi rimedi.

Quanto a Irene e Clodesinda avrebbe sondato la disponibilità dei parenti a riaccoglierle in casa: ma a questo punto, con lo scandalo portato in piena luce, le famiglie avrebbero quasi certamente rifiutato di ospitare due eretiche peccatrici: nemmeno l'amore che si dichiaravano sarebbe bastato a salvarle. 

Ripensò alla conversazione che aveva avuto pochi giorni prima con il Cardinale Corsini. Avevano entrambi convenuto che con tutta probabilità alla fine l'unica soluzione sarebbe stata quella di confinare le due sciagurate nello Spedale di San Bonifazio a Firenze: il ricovero dei matti, dove avrebbero espiato la loro colpa rinunciando alla libertà e all'amore.

Camminando veloce, immerso nei pensieri, era ormai arrivato al suo studio nel Palazzo Vescovile. Il terremoto, per fortuna, sembrava non aver fatto danni: il cielo sulla piazza era azzurro, rigato solo dalle traiettorie delle rondini. Una lama di luce brillante cadeva proprio sulla scrivania, dove i fogli della lettera aspettavano la sua firma e il sigillo; e il bianco della carta spandeva la luce tutto intorno, come una sorta di aureola che incorniciava il documento.

Si fermò un attimo sulla porta, come interdetto; poi si fece animo, andò alla scrivania, si mise a sedere, prese penna e calamaio. Guardò la luce abbagliante sul foglio, e il contrasto che creava con il resto della stanza: buio e luce, santità ed eresia. Così distanti, così vicine: non era forse anche la santità una forma di follia? Ma quella di Caterina era salita sugli altari, quella di Irene sarebbe finita tra i pazzi di San Bonifazio.

Prese la penna, controllò la punta, la immerse nel calamaio e firmò. Ma inavvertitamente una goccia di inchiostro sfuggì, e andò a creare quella che sembrava proprio una piccola stella. 

Nera, sul foglio candido, nitida nella luce.

¹Lettera di Scipione de' Ricci a Leopoldo I, 1786
²La Vedova Scaltra, 
Atto II Scena II
³
Vita di Scipione de' Ricci, vescovo di Pistoia e Prato - Luis De Potter, 1825 - p. 244

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