mercoledì 25 febbraio 2015

Del Paesaggio, Rainer Maria Rilke

Viandante sul mare di nebbia, Caspar David Friedrich, 1818
Molti anni fa, su di un numero di quella reincarnazione dell'Illustrazione Italiana che fu edita da Guanda nei primi anni Ottanta del Novecento, uscì la traduzione di un saggio di Rainer Maria Rilke che porta il titolo Del Paesaggio. Ne restai molto colpito: il tema mi interessava già allora, ma quello che mi piacque particolarmente fu la prosa, così scintillante e ben congegnata, una sinfonia di parole che mi lasciò ammaliato e mi convinse a leggere altri libri di questo autore.

In quella circostanza feci anche qualche ricerca: scoprii che quello che avevo letto era considerato un lavoro minore, poco pubblicato in Italia, scritto probabilmente nel 1902 e destinato a un volume su Worpswede, il luogo della Bassa Sassonia dove Rilke conobbe la futura moglie Clara Westhoff. A Worpswede, paese isolato e rurale al centro di una vasta torbiera chiamata Teufelmoor (palude del Diavolo), negli ultimi anni dell'Ottocento si era insediata una piccola colonia di artisti - la Künstlerkolonie Worpswede - che rivendicavano la loro indipendenza dalle grandi accademie e cercavano un'espressione artistica "incorrotta dal contatto con la civiltà moderna". Rilke ne fece parte, frequentando per diversi anni questo cenacolo e progettando un libro che ne raccontasse le vicissitudini.

Il libro non è mai stato completato: ne restano però diversi frammenti, il più significativo dei quali resta quello che lessi tanti anni fa e che vi propongo qui di seguito, che racconta nello stile inimitabile di Rilke l'evoluzione del concetto di paesaggio dall'età antica a quella moderna. Il testo è tratto dall'edizione Cederna del 1949 di cui ho reperito fortunosamente un esemplare; la traduzione - molto bella - è di Giorgio Zampa.

Del Paesaggio

Leonardo da Vinci, Monna Lisa (dettaglio)
Sappiamo tanto poco della pittura degli antichi; ma forse non è troppo azzardato supporre che essi vedevano gli uomini come più tardi i pittori hanno visto il paesaggio. Nelle figure dei vasi (questi ricordi indimenticabili di una grande arte del disegno) l’ambiente — casa o strada — è solo nominato, abbreviato quasi, dichiarato solo con l'iniziale; e invece sono tutto gli uomini nudi, sono come alberi che rechino frutta e ghirlande di frutta, come siepi in fiore, come primavere in cui cantino gli uccelli. 

Allora era il corpo — lo coltivavano come una terra, si adoperavano intorno ad esso come intorno a un raccolto, lo possedevano, come si possiede un buon podere — la bellezza da contemplare, l’immagine attraverso la quale passavano in ordine ritmico tutte le significazioni: dèi e animali e tutti i sensi della vita. 

L’uomo, sebbene al mondo da secoli, era ancora troppo nuovo a se stesso, troppo entusiasta di sé per guardare oltre il suo corpo o distoglierne lo sguardo. Il paesaggio era il cammino su cui egli procedeva, la pista su cui correva, tutti i luoghi di gioco e di danza nei quali si svolgeva la giornata dei greci; le valli in cui si raccoglieva l’esercito, i porti dai quali si salpava verso le avventure e nei quali si rientrava invecchiati e pieni di ricordi inauditi; i giorni di festa e le notti fastose che li seguivano, con un suono d’argento, le processioni in onore degli dèi e le cerimonie intorno all’altare..., questo era il paesaggio in cui si viveva.

Ma il mondo, deserto di dèi dalle umane sembianze, era estraneo, i contrafforti su cui non si levava alcuna visibile statua, le pendici sconosciute al pastore non erano neppure degni di menzione. Tutto era come un palcoscenico vuoto fino a quando l’uomo non sopravvenne, animando la scena con l’atteggiamento sereno o tragico del suo corpo. Tutto era in attesa di lui, e dove egli giungeva tutto si traeva indietro e gli cedeva spazio.

L’arte cristiana perdette questo rapporto con il corpo senza accostarsi veramente al paesaggio; uomini e cose erano in essa come lettere, ed essa formava lunghe frasi dipinte con un alfabeto di iniziali. Gli uomini erano spoglie, e corpi soltanto nell’inferno; il paesaggio poteva raramente essere la terra. Quasi sempre esso doveva, quando fosse ameno, significare il cielo; ove incutesse spavento e fosse inospitale e selvaggio, appariva come il luogo degli esiliati e dei perduti in eterno. 

Certo, era visibile - gli uomini si erano fatti esili e trasparenti - ma era proprio di quell’arte sentire il paesaggio come una cosa effimera, come una fila di tombe rivestite di verde sotto le quali è l’inferno, mentre sopra il cielo si apre nella sua immensità come l’unica, profonda realtà voluta da ogni essere. Ma poiché si dettero, a un tratto, tre luoghi, tre dimore di cui tanto si parlava - Cielo, Terra e Inferno -, era urgentemente necessario situarli, si dovevano vedere e rappresentare. Nei primi maestri italiani codesta rappresentazione, superato il suo scopo, raggiunse una grande efficacia — e basta ricordare le pitture del Camposanto di Pisa per sentire che la concezione del paesaggio era già diventata cosa fine a se stessa. 

Si pensava ancora di far conoscere un luogo, e nulla più; ma in quest’opera si misero tanta cordialità e abbandono, con tanta e così incantevole eloquenza d’innamorati si raccontò delle cose che gremivano la terra, la terra rinnegata e calunniata dagli uomini, che quella pittura ci appare oggi come un inno al creato, al quale i santi uniscono la loro voce. E tutte le cose che si vedevano erano nuove: vedere era continuo stupore, gioia d’infinite scoperte. Avvenne così che la lode della terra fu anche la lode del cielo, e che nel desiderio di ravvisare questo, si imparò a conoscere quella: perché la profonda pietà è come una pioggia: ricade sempre sulla terra da cui si è levata, ed è una benedizione sui campi.

Così, senza volerlo, si erano provati il calore, la felicità, lo splendore che possono emanare da un prato, da un ruscello, da un pendio fiorito, dagli alberi carichi di frutta posti gli uni accanto agli altri; e quando si dipingevano Madonne, si avvolgevano di questa ricchezza come di un mantello e si cingevano di essa come di una corona, in loro lode si spiegavano paesaggi come bandiere: perché non si sapeva allestire per esse nessuna festa che fosse più splendida, nessuna devozione si conosceva che somigliasse a questa: portare tutta la bellezza appena trovata e fonderla con esse. Così non fu più questione di un luogo, ormai, neppure del cielo: il paesaggio fu cantato come un inno a Maria che risuonasse con colori chiari e squillanti.

Il progresso era stato notevole: si dipingeva il paesaggio, e tuttavia non si guardava ad esso, ma a se stessi: il paesaggio era diventato pretesto per un sentimento umano, immagine di gioia, semplicità e devozione umane: era diventato arte. E già Leonardo lo ricevette come tale. Nei suoi quadri, i paesaggi sono espressioni dell’esperienza e saggezza più profonde, specchi azzurri in cui arcane leggi si contemplano assorte, lontananze immense come il futuro e come questo imperscrutabili. Non è per nulla un caso che Leonardo, il quale aveva prima dipinto figure umane come esperienze, come destini traverso i quali egli era passato solitario, sentisse anche il paesaggio come un mezzo per esprimere un’esperienza, una profondità e una tristezza indicibili. Quest’uomo, superiore a tanti ancora di là da venire, poté usare di tutte le arti senza limite: come in varie lingue, egli raccontò in esse la sua vita, i progressi e le lontananze della sua vita.

Nessuno ancora ha dipinto un paesaggio che, pure essendo un vero paesaggio, sia insieme voce e confessione come quello, profondo, che s’apre dietro Madonna Lisa. Come se tutto l’umano sia contenuto nella figura della donna infinitamente tranquilla, e tutto il resto, ciò che precede l’uomo e l’oltrepassa, sia in quell’enigmatico insieme di monti, alberi, ponti, cieli ed acque. Questo paesaggio non è un’immagine dei sensi, il pensiero di un uomo su un mondo immobile: è natura che nacque, mondo che divenne, estraneo all’uomo come la foresta inviolata di un’isola ancora da scoprire. 

Guardare al paesaggio come a qualche cosa di lontano e di estraneo, di remoto e di astratto che trova in sé la sua compiutezza — questo era necessario se esso, il paesaggio, voleva diventare mezzo e occasione per un’arte autonoma: doveva essere lontano e molto diverso da noi, per diventare nei confronti del nostro destino un paragone liberatore. Doveva essere quasi ostile nella sua sublime indifferenza per dare con i suoi oggetti un nuovo significato alla nostra vita.

E in tal senso procedette la formazione di quell’arte del paesaggio che Leonardo da Vinci, precorrendo i tempi, aveva già posseduto. Essa si elaborò lentamente, attraverso i secoli, nelle mani di solitari. Lunghissimo era il cammino da percorrere, perché difficile era disabituarsi tanto dal mondo da non guardarlo più con l’occhio prevenuto di chi vi è nato, attento a riferire tutto a sé e ai propri bisogni. Si sa quanto sia imperfetta la conoscenza delle cose tra cui viviamo, e come, spesso, debba venire qualcuno da lontano a dirci quello che ci circonda. 

Così, fu necessario allontanare le cose da sé per essere poi capaci di accostarle con modi più giusti e pacati, a rispettosa distanza e con minore confidenza. Si cominciò infatti a capire la natura quando non la si capì più: quando si capì che essa era l’altra parte, indifferente, incapace di accoglierci, — si era già fuori di essa, solitari, usciti da un mondo solitario. Questo era necessario, per essere artisti nei suoi confronti: non si doveva più sentirla contenutisticamente, poggiando sul senso che essa poteva avere per noi, ma oggettivamente, come una grande realtà esistente.

Un’identica forma di sensibilità era stata portata nei confronti della creatura umana, quando la si dipingeva in tutta la sua grandezza. Poi l'uomo era diventato vacillante e incerto, la sua immagine si dissolse in un seguito di metamorfosi e fu appena possibile coglierla. La natura era più grande e più costante: in essa ogni moto era più ampio, ogni riposo più semplice e solitario. Nacque nell'uomo il desiderio di parlare di sé impiegando i mezzi sublimi della natura come di qualcosa di altrettanto reale; così nacquero quelle pitture di paesaggio in cui non accade nulla.

Si dipinsero mari deserti, case bianche in giorni di pioggia, strade sulle quali nessuno cammina, acque indicibilmente solitarie. Sempre più scomparve il pathos; e tanto meglio si comprese questo linguaggio quanto più semplice fu il modo con cui lo si usò. Ci si sprofondò nella grande quiete delle cose, si sentì come la loro esistenza si svolgesse nella legge, senza attese e senza impazienze. Gli animali vi si aggiravano tranquilli, sopportando come quelle il giorno e la notte, ed erano pieni di leggi. E quando l’uomo vi fece la sua comparsa come pastore, come contadino o semplicemente come una figura rilevata contro il fondo del quadro, ogni superbia era da lui caduta, con la volontà di essere una cosa.

In questa evoluzione dell’arte del paesaggio verso una graduale trasformazione in paesaggio del mondo stesso è da vedere una lunga fase del progresso umano. Il contenuto di questi quadri, che scaturiva così naturalmente dalla contemplazione e dal lavoro, ci dice che un futuro ha avuto inizio nel nostro presente: l’uomo non è più il compagno che cammina in equilibrio tra i suoi simili, e neppure quello per cui esistono e sera e mattina e vicino e lontano; posto come una cosa tra le cose, è immensamente solo: tutto quanto vi ha di comune tra uomini e cose si è ritirato nella profondità comune donde traggono nutrimento le radici di ogni divenire.

Rainer Maria Rilke

martedì 17 febbraio 2015

La Mano Sinistra delle Tenebre - Ursula K. LeGuin

La luce è la mano sinistra delle tenebre,
E le tenebre la mano destra della luce.
Due sono uno, vita e morte, e giacciono
Insieme come amanti in kemmer,
Come mani giunte,
Come la meta e la via
.
Si dice che i romanzi di fantascienza invecchino con il passare degli anni e con l'avanzare della tecnologia. Questo libro di Ursula LeGuin, invece, affascina ancora per la sua capacità di descrivere e farci vivere un mondo così simile al nostro ma nello stesso tempo profondamente diverso.

La science fiction ambisce di mettere in scena l'uomo spostando la sua azione in contesti "alieni" sia per motivi di semplice intrattenimento letterario che per mettere in discussione aspetti del nostro essere e della nostra società che diamo per scontati. Il contesto in cui avviene l'azione può essere scientifico o tecnologico, l'ambiente può essere anche del tutto diverso dal mondo che ci circonda, ma spesso quello che accade è una semplice trasposizione di una vicenda letteraria - un giallo, una storia d'amore, un romanzo d'avventura - su di un fondale più o meno esotico che influenza ben poco la vicenda in sé.

Questo libro invece si basa su di un assunto semplice e al tempo stesso conturbante, e non mette in scena astronavi o tecnologie mirabolanti, non presenta teorie sconvolgenti sulla Vita, l'Universo e Tutto Quanto. Si limita ad osservare - e farci osservare - quanto potrebbe essere diversa una società in cui gli uomini, intesi come specie senziente, non avessero una sessualità ben definita ma fossero degli androgini che assumono un ruolo sessuale esplicito solo pochi giorni al mese.

La vicenda si svolge su di un pianeta stretto nella gelida morsa di una glaciazione perenne con pochi giorni all'anno di temperature sopportabili, come se anche il clima rispecchiasse la sessualità dei suoi abitanti. Pur avendo una grande capacità immaginativa l'autrice usa molti topoi della narrativa di avventura: la caduta in disgrazia del protagonista, il suo imprigionamento, la lunga fuga - descritta magistralmente - attraverso la calotta polare del pianeta.

Ma quello che rende questa storia davvero indimenticabile è la sensibilità della LeGuin, la sua capacità di farci immedesimare nel rapporto tra i due protagonisti, alieni l'uno all'altro nella sostanza dei loro sentimenti ma - ciò nonostante - capaci di superare le loro differenze, per ritrovarsi uniti da quel nocciolo di umanità che ci accomuna tutti.

Ursula K. LeGuin
LA MANO SINISTRA DELLE TENEBRE
Edizioni TEA
269 pagine, copertina paperback

martedì 3 febbraio 2015

Del gelso di casa Sasso Nero a Iavello

Il grande gelso di Casa Sasso Nero
Salendo per la strada che dall'abitato di Bagnolo si dipana tortuosamente attraverso i boschi fino a raggiungere la villa-fattoria di Iavello si incontrano diverse case coloniche, un tempo appartenenti alla villa in questione, adesso quasi tutte restaurate e trasformate in residenze di campagna per cittadini.

L'ambiente collinare ai piedi degli oltre novecento metri dei Faggi di Iavello, compreso tra i due torrenti Agna e Bagnolo, era infatti nei secoli passati assai più coltivato e popoloso di adesso. 

Giovanni Villani, mercante, storico e cronista fiorentino contemporaneo di Dante Alighieri, racconta con un tocco di involontario umorismo topografico che nel luogo ove oggi si trova la Fattoria di Iavello esistevano negli anni intorno al Mille la chiesa e il villaggio di San Tommaso sul Poggio di  Giove, i cui abitanti dovettero però emigrare nella piana a seguito di ripetuti saccheggi, dando origine a quel villaggio di Pratum che ha dato nome alla nostra città. 

Ma lo spopolamento fu solo temporaneo, i luoghi erano fertili e solatii: a "Giavello" toponimo  derivante dal tardo latino che significa "manipolo, fascio di spighe" fu dapprima edificato intorno al 1100 un fortilizio - sicuramente in legno - da parte dei conti Guidi: che lo cedettero ai primi del Trecento agli Strozzi, e poi ai Venturi, ai Martini Bonajuti, ai Da Filicaja, ai Pandolfini Covoni che ne fecero infine eredi per matrimonio - a metà Ottocento - gli attuali proprietari, un ramo dei principi Borghese di Roma. 

Il 28 novembre del 1325 la fortezza fu presa e distrutta dalle truppe di Castruccio Castracani, che assediavano anche il castello di Montemurlo, e poi ricostruita e trasformata più volte fino ad assumere l'aspetto attuale di villa signorile con fattoria, più isolata per posizione ma non diversa da tante altre del territorio.

Nel 1940 i Borghese arrivarono a attribuire alla tenuta di Iavello 20 poderi nei comuni di Montemurlo, Montale e Cantagallo, e l'estensione dei boschi appenninici gestiti dall'azienda raggiunse in quelle date quasi i 1000 ettari, per poi ridimensionarsi nel secondo dopoguerra con la crisi dell'agricoltura tradizionale. Negli anni Sessanta del Novecento 600 ettari della tenuta vennero ceduti al demanio, che li incluse nell'area protetta della foresta dell'Acquerino: molte altre case e terreni furono venduti a privati, e nell'insieme i campi e le coltivazioni si ritirarono per lasciare spazio a quella rinaturalizzazione che contraddistingue tutto il nostro Appennino.

Non diversamente da quelli di altre zone che conosciamo anche gli antichi poderi di Iavello sono rimasti vittime dell'inesorabile smembramento che è seguito alla perdita della loro funzione produttiva, col risultato che solo i terreni più prossimi agli edifici sono rimasti ad essi collegati, mentre il resto delle loro antiche pertinenze - uliveti, boschi, vigneti - sono diventati solo uno sfondo per allietare lo sguardo degli attuali residenti, che frequentano questi luoghi per lo più nei fine settimana o durante le ferie estive.

Ciò che resta dell'antico paesaggio agrario, massimamente oliveti e vigne, spesso coltivati in quei campi terrazzati che testimoniano silenziosamente il lavoro di generazioni di contadini, sono stati riadattati alle esigenze del cittadino che "gioca" a fare il coltivatore diretto, abbandonando le attività che richiedono una presenza costante e un forte impegno di manodopera a favore di quelle che possono - o si pensa che possano - essere praticate nel così detto "tempo libero".
Il gelso e la casa
In questo contesto la coltivazione del gelso è una delle attività che abbiamo perduto e che non fa parte di quelle "giocate" nel fine settimana dai cittadini in libera uscita. Collegata all'allevamento del baco da seta, la coltivazione di questa pianta originaria dell'Asia era diffusa in tutta la Toscana in forma più o meno dispersa, di solito come attività sussidiaria portata avanti dai contadini con quel sistema produttivo "misto" tipico del podere mezzadrile, che tendeva ad ottimizzare anche così l'impiego della numerosa manodopera familiare nel corso delle stagioni.

Dal gelso, oltre alle foglie - indispensabili per l'allevamento dei bachi da seta che se ne nutrono - si utilizzano i frutti dette "more". Maturano nel mese di giugno e vantano svariate proprietà curative nei confronti di febbre e affezioni dell'apparato respiratorio. Non ultima cosa, sono anche buone da mangiare e per aromatizzare liquori.

Il gelso della casa Sasso Nero è un esemplare imponente di questa specie. Penso che sia stato messo in loco al momento della costruzione della casa colonica nelle forme attuali, più o meno tra il XVII e il XVIII secolo, nel periodo in cui la proprietà della terra era della famiglia Martini Bonajuti. La sua età è quindi di circa 400 anni, e ciò lo pone di diritto tra i "monumenti verdi" della nostra zona: da conservare, tutelare e visitare, naturalmente con la dovuta reverenza di fronte a un essere vivente che ha attraversato indenne oceani di tempo per giungere fino a noi. E con un plus, se vogliamo: quello di rappresentare, per chi sappia vedere oltre l'apparenza, quella trasformazione che tutti noi stiamo vivendo.
Carta IGM al 25:000 della zona di Javello