mercoledì 16 febbraio 2022

Dieci zecchini d'oro

L'"idolo" di Pizzidimonte trovato nel 1780  
Una caratteristica dei monti della Calvana è il loro protendersi sulla piana di Prato come un bastione arcuato dalle cime arrotondate le cui pendici ripide, a tratti quasi precipiti, sovrastano la pianura separando i solchi vallivi del Bisenzio e della Marina per terminare all'improvviso con un declivio netto come la prora di una nave quasi nel punto della confluenza dei due corsi d'acqua.

Questa pendice che discende dal Poggio Castiglioni formando uno spigolo, peculiare nella forma e nell'inclinazione, fin dalla più remota antichità è sembrata ideale per controllare le vie di comunicazione sottostanti che necessariamente dovevano correre vicino alle pendici del monte. Era talmente adatta che anche il toponimo che la identifica non derivò dal nome di qualche veterano che aveva ricevuto terre in ricompensa per i suoi servigi, ma dal semplice fatto che stava proprio sull'orlo, "in pizzo" del monte: Pizzidimonte.

La piana rimase per molti secoli paludosa e impervia. Per superarla le strade dovevano  passare lungo i suoi margini, leggermente più alti della parte centrale e per questo liberi dalle acque che in gran parte la coprivano, ultimi resti di un vasto lago formatosi nel Quaternario, al termine delle glaciazioni che avevano coperto di ghiacciai anche le vette dell'Appennino.

Su questa costa montuosa fin da tempi remoti vennero costruite strutture per sorvegliare la strada che saliva verso la valle Padana, mentre più in basso nascevano edifici al servizio di chi questa strada la percorreva.

L'insediamento etrusco di Gonfienti 

La connotazione che rendeva attrattivo quest'angolo di territorio era data dalla confluenza del torrente Marina col fiume Bisenzio, che in antico avveniva con ogni probabilità nel punto dove adesso sorge la piccola frazione rurale di Gonfienti: toponimo che con ogni evidenza deriva dal latino confluentes, spesso usato per denominare i luoghi in cui due fiumi si univano. 

La "coppa di Douris" ritrovata a Gonfienti  

I recenti ritrovamenti di un insediamento etrusco di notevoli dimensioni proprio dove Marina e Bisenzio erano "confluentes" fanno capire l'importanza per gli antichi di un posto come questo, circondato dalla corrente di due corsi d'acqua, collocato perciò in uno spazio protetto dalla benevolenza della dea Nurthia, l'"azzurra signora" delle acque che scorrono e che portano vita e del destino che attraverso di esse irrompe nella vita degli uomini. 

Nella cosmogonia etrusca l'acqua rivestiva infatti un ruolo centrale, e tutte le sue manifestazioni avevano un valore terreno e celeste insieme. Le risorgenze d'acqua che emergevano nella pianura dal cuore dei poggi carsici della Calvana erano interpretate come segni della vitalità della Terra e della Natura e vissute come luoghi sacri in cui la divinità entrava in contatto con gli uomini. Probabilmente vi erano costruiti edifici destinati al culto delle acque di cui non abbiamo più traccia perché realizzati in materiali deperibili: legno, mattoni, terracotta. 

Antefissa di tempio da Gonfienti  

A queste fonti si andava per pregare gli dèi e richiederne i favori: le puerpere e le giovani chiedevano il dono della maternità, uomini e donne di ogni età cercavano la cura di patologie ossee, ai genitali o ancora per dermatosi, ferite e soprattutto per reumatismi e artrosi. Per ringraziare la divinità si offrivano doni: sacrifici di animali, olio, vino, e anche oggetti variamente preziosi - gioielli, ceramiche, bronzi - che testimoniassero concretamente la riconoscenza del beneficiato. 

Ricostruzione di tempio etrusco
Queste regalie restavano in dotazione al luogo sacro che le mostrava come testimonianza, né più né meno degli ex voto che troviamo in certe nostre chiese, e spesso venivano nascoste per scongiurare saccheggi di predoni o razzie di armati. Talvolta vennero celate così bene da sfidare i secoli per tornare alla luce millenni dopo, ed è il caso dei bronzi votivi della nostra storia.

Nel mese di agosto del 1780 Giuseppe Sanesi, parroco della chiesa di San Lorenzo a Pizzidimonte venne in possesso di un "idolo", venuto alla luce in uno scavo agricolo nei terreni di proprietà della chiesa, in un luogo "tutto pieno di sepolcri, e si vede che quello è il punto ove passava la via Cassia, che da Firenze portava a Pistoia e Modena, ma la roba che si trova parmi più antica di quello, che sia la via Cassia". 

L'Offerente di Pizzidimonte trovato nel 1735  
Così scriveva certo Francesco de Rossi il 4 settembre 1780 in una nota destinata a presentare l'oggetto alle Gallerie Granducali; il granduca Pietro Leopoldo aveva infatti appena promulgato un motu proprio - il 5 agosto 1780 - con cui stabiliva sia la libera circolazione dei ritrovamenti archeologici che il diritto di prelazione degli stessi a favore delle Gallerie, in modo da poter acquisire i reperti di maggiore importanza.

Giuseppe Pelli Bencivenni, 1800 circa

L'allora Direttore delle Gallerie Granducali, Giuseppe Pelli Bencivenni, ricevuto l'"idolo" scrisse una nota che ne caldeggiava l'acquisto, così concepita: 

"In uno scavo fatto ultimamente nelle vicinanze di Prato nei beni del Benefizio di S. Niccolò posto nella chiesa curata di Pinzirimonte goduto dal Prete Giuseppe Sanesi sono stati ritrovati diversi Idoletti di bronzo, uno dei quali [come il più stimabile] mi è stato consegnato dal d.o Sacerdote inerendo il §.3. della nuova legge sopra gli scavi del dì 5 agosto p.p. 
Questo Idolo con patina verde benissimo conservato è alto più di un terzo di braccio, e rappresenta un giovane nudo con lunga capigliatura senza simbolo veruno. Il pezzo è certamente Etrusco, e raro per la grandezza, onde par degno di stare in questo R. Gabinetto dei Bronzi quando a V.A.R. piacerà l'acquistarlo. 
Col parere dell'Ab. Lanzi feci intendere al Proprietario che il prezzo poteva essere cinque, ο sei zecchini al più, ma egli ne domanda zecchini dieci, e non sembra disposto a rilasciarlo a meno per ché gli è stata fatta concepire molta stima di esso."

Il motivo per cui don Sanesi non era disposto a cedere facilmente l'idolo appena venuto alla luce stava in un illustre precedente ritrovamento, avvenuto sempre nei pressi di Pizzidimonte quarantacinque anni prima, in cui da altri scavi era emerso un altro bronzetto di pregevolissima fattura, finito poi a Londra dopo varie vicissitudini, ancora oggi esposto in una vetrina del British Museum.

L'Offerente di Pizzidimonte, così era stata chiamata l'opera, era stato molto ben pagato ed era passato più volte di mano prima di finire esposto in un museo tra i bronzi antichi; proprio per questo il parroco di Pizzidimonte sperava che il nuovo ritrovamento, sebbene di fattura meno elegante, sarebbe stato comunque sufficiente a garantire un congruo introito al suo scopritore. E quindi restò fermo nei suoi propositi.

Uno zecchino d'oro toscano del 1787 

Dieci zecchini d'oro del 1780 erano davvero una somma rilevante, soprattutto considerando la diffusa povertà della società toscana che nel corso del Settecento aveva dovuto fronteggiare un continuo susseguirsi di carestie alimentari; un anno ogni tre i campi avevano dato raccolti insufficienti - spesso gravemente insufficienti - anche solo per nutrire la popolazione. Solo pochi anni prima del ritrovamento dell'Idolo, nel 1764, una carestia durata ben tre anni era sfociata in un'epidemia che aveva causato numerosissimi morti tra la popolazione più povera, indebolita dagli stenti.

Uno zecchino d'oro pesava 3,5 grammi e valeva 22 lire; uno staio toscano di grano (poco più di 24 litri di capienza) poteva costare in quegli anni circa 7 lire. L'Idolo agli occhi di don Sanesi rappresentava l'equivalente di 8 quintali di grano; quasi lo stesso quantitativo di farina se si parla della farina consumata dai meno abbienti, o di circa 6 quintali di farina maggiormente raffinata, consumata dai più facoltosi. Ci potevano vivere agevolmente per un anno almeno tre famiglie piuttosto numerose.

Pietro Leopoldo di Asburgo nel 1770 

La perseveranza di don Sanesi nella sua richiesta trovò infine un alleato inaspettato nella convinzione del Granduca Pietro Leopoldo che decise che

"vi può essere motivo di pagare un prezzo maggiore del vero per richiamare a questi principii a forma della divisata legge quelli che trovano generi preziosi per l'erudizione a presentargli a questa Galleria."

Così, il 22 novembre del 1780 le Gallerie Granducali pagarono a don Sanesi i dieci zecchini d'oro; e l'idoletto entrò a far parte dei bronzi delle Gallerie che poi sarebbero approdati al Museo Archeologico di Firenze, dove ancora si trova, con il numero di inventario 29, ex Gallerie 606.