sabato 20 aprile 2024

Sapore, sapere

Coltivazione del mais e preparazione di tortillas, Diego Rivera 1950

"Il vero viaggio, in quanto introiezione d’un «fuori» diverso dal nostro abituale, implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura (non solo le diverse pratiche della cucina e del condimento ma l’uso dei diversi strumenti con cui si schiaccia la farina o si rimesta il paiolo), facendolo passare per le labbra e l’esofago. Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona."

Nel giugno del 1982 avevo vent'anni, e mi ero abbonato dai primi di quell'anno alla rivista FMR di Franco Maria Ricci: rivista d'arte bellissima, dalla copertina nera lucida e dai caratteri bodoniani che al me di allora apparivano un po' retrò, con immagini curate e testi rigorosi, che proponevano argomenti insoliti e stimolavano molto la mia insaziabile curiosità. 

Uno degli articoli di quel mese riguardava una mostra che si teneva alla Biblioteca Laurenziana di Firenze incentrata sul Codice Fiorentino di fra Bernardino de Sahagùn, concepito dopo la Conquista spagnola e redatto nel convento di Santa Cruz di Tlatelolco con lo scopo di raccogliere - come in un'enciclopedia ante litteram - tutte le conoscenze, i riti, la vita quotidiana e la lingua delle popolazioni conquistate, in una sorta di commemorazione di quel Messico azteco che i conquistadores avrebbero voluto cancellare dalla memoria del mondo. Tuttavia il libro fu prontamente sequestrato al frate dalla Corte spagnola, che ne proibì la ristampa e la lettura, perché sebbene non criticasse mai apertamente l'amministrazione spagnola evidenziava il disordine sociale e lo sfruttamento che erano seguiti alla Conquista.

Il Codice, certamente salvato per il suo evidente valore artistico, sfuggì alla distruzione definitiva e giunse a Firenze nel 1579, dono di Filippo II di Spagna al Granduca Francesco I de' Medici, in occasione delle sue seconde nozze con Bianca Cappello; restò a lungo dimenticato sugli scaffali della Laurenziana fino alla sua riscoperta a metà Ottocento, epoca in cui la sua esistenza si rivelò al grande pubblico attraverso varie ristampe.

Nell'articolo di FMR, Pietro Corsi abbinava bellissime illustrazioni tratte dal Codice con un racconto inedito di Italo Calvino,  Sapore, sapere, che in seguito sarebbe stato rinominato Sotto il sole giaguaro. Il testo racconta la scoperta di sé e del rapporto con l'altro attraverso l'esperienza di una cucina completamente diversa da quella dei due protagonisti: il cibo, in questo racconto, assume infatti un valore fortemente simbolico. I sapori piccanti e intensi rappresentano la passione e la sensualità, mentre i piatti esotici e sconosciuti simboleggiano la scoperta di nuovi orizzonti e la voglia di avventura.

Prima di leggere questo racconto, non avevo mai considerato il cibo come un'esperienza culturale. Lo vedevo semplicemente come qualcosa da consumare. Non avrei mai immaginato che, qualche anno dopo, avrei avuto la possibilità di assaporare la cucina messicana nel suo paese d'origine. Un'esperienza che ha rivoluzionato il mio modo di percepire la cucina "straniera". Le riflessioni suscitate da questo racconto di Italo Calvino sono state il punto di partenza di un viaggio di approfondimento che dura tuttora. Ancora oggi, a più di quarant'anni di distanza, trovo che sia un'opera poetica e sensuale, capace di trasmettere emozioni attraverso le parole. Proprio per questo spero che lo leggerete con lo stesso gusto che ho provato io.

Codice Fiorentino, Libro I foglio 11r

 Sapore, Sapere

Gustare,  in genere, esercitare il senso del gusto, riceverne l’impressione, anco senza deliberato volere o senza riflessione poi. L’assaggio si fa più determinante a fin di gustare e di sapere quel che si gusta; o almeno denota che dell’impressione provata abbiamo un sentimento riflesso, un’idea, un principio d’esperienza. Quindi è che sapio,  ai Latini, valeva in traslato sentir rettamente; e quindi il senso dell’italiano sapere,  che da sé vale dottrina retta, e il prevalere della sapienza sopra la scienza." (Niccolò Tommaseo, Dizionario dei sinonimi)

Oaxaca si pronuncia Uahàca. L’albergo a cui eravamo scesi era stato, in origine, il convento di Santa Catalina. La prima cosa che avevamo notato era un quadro, in una saletta che portava al bar. Il bar si chiamava «Las Novicias». Il quadro era una grande tela oscura che rappresentava una giovane monaca e un vecchio prete, in piedi, affiancati, le mani leggermente staccate dal corpo, quasi sfiorandosi. Figure piuttosto rigide, per essere un quadro del Settecento: una pittura dalla grazia un po’ rozza propria dell’arte coloniale, ma che trasmetteva una sensazione conturbante, come uno spasimo di sofferenza contenuta. La parte inferiore del quadro era occupata da una lunga didascalia, in fitte righe d’una angolosa scrittura corsiva, bianco su nero. Vi si celebravano devotamente vita e morte dei due personaggi, che erano stati lui il cappellano e lei la badessa del convento (lei, di nobile famiglia, v’era entrata novizia a diciott’anni). La ragione per cui venivano ritratti insieme era lo straordinario amore (la parola nella pia prosa spagnola si presentava carica del suo anelito ultraterreno) che aveva legato per trent’anni la badessa e il suo confessore, un così grande amore (la parola nella sua accezione spirituale sublimava ma non cancellava l’emozione corporea) che quando il prete era venuto a morte, la badessa, di vent’anni più giovane, nello spazio di un giorno, s’era ammalata ed era spirata letteralmente d’amore (la parola bruciava d’una verità in cui tutti i significati convergono) per raggiungerlo in cielo. 

Olivia, che sapeva lo spagnolo meglio di me, m’aiutò a decifrare la storia suggerendomi la traduzione di qualche espressione oscura; e furono queste le sole parole che ci venne da scambiare durante e dopo la lettura, come ci trovassimo in presenza d’un dramma, o d’una felicità, che rendeva ogni commento fuori luogo; qualcosa che ci intimidiva, anzi, intimoriva, o meglio, ci comunicava una specie di malessere. Così cerco di descrivere quel che provavo io: il senso d’una mancanza, d’un vuoto divorante; cosa stesse pensando Olivia, dato che taceva, non posso indovinarlo. Poi Olivia parlò. Disse: «Vorrei mangiare chiles en nogada».  E a passi da sonnambuli, come non ben sicuri di toccar terra, ci dirigemmo verso il ristorante. Come accade nei momenti migliori della vita d’una coppia, avevo istantaneamente ricostruito il percorso dei pensieri d’Olivia, senza che ci fosse bisogno di dire di più: e questo perché la stessa catena d’associazioni s’era srotolata anche nella mia mente, se pure in modo più torpido e nebbioso, tale che senza di lei non avrei potuto acquistarne coscienza. 

Il nostro viaggio attraverso il Messico durava già da più d’una settimana. Pochi giorni prima, a Tepotzotlàn, in un ristorante che allineava i suoi tavoli tra gli alberi d’arancio d’un altro chiostro di convento, avevamo gustato vivande preparate (così almeno ci era stato detto) seguendo le antiche ricette delle monache. Avevamo mangiato un tamàl de elote,  cioè una sottile semola di mais dolce con carne di maiale tritata e piccantissimo peperoncino, il tutto cotto al vapore con una foglia anch’essa di mais; poi chiles en nogada,  che erano peperoncini rossobruni, un po’ rugosi, nuotanti in una salsa di noci la cui asprezza pungente e il fondo amaro si perdevano in un’arrendevolezza cremosa e dolcigna. Da quel momento l’idea delle monache evocava in noi i sapori di una cucina elaborata e audace, come tesa a far vibrare le note estreme dei sapori e ad accostarle in modulazioni, accordi e soprattutto dissonanze che s’imponessero come un’esperienza senza confronti, un punto di non ritorno, una possessione assoluta esercitata sulla ricettività di tutti i sensi. 

L’amico messicano che ci aveva accompagnato in quella gita, di nome Salustiano Velazco, nel rispondere a Olivia che s’informava su queste ricette della gastronomia monacale, abbassava la voce come confidandoci segreti indelicati. Era il suo modo di parlare, questo; o meglio, uno dei due suoi modi: le informazioni di cui Salustiano era prodigo (sulla storia e i costumi e la natura del suo paese era d’una erudizione inesauribile) venivano o enunciate con enfasi come proclami di guerra o insinuate con malizia come fossero cariche di chissà quali sottintesi. Olivia aveva osservato che piatti come questi presupponevano ore e ore di lavoro, e prim’ancora una lunga serie d’esperimenti e perfezionamenti. «Ma passavano le giornate in cucina, queste monache?» aveva chiesto, immaginandosi vite intere dedicate alla ricerca di nuove mescolanze d’ingredienti e variazioni nei dosaggi, all’attenta pazienza combinatoria, alla trasmissione d’un sapere minuzioso e puntuale. «Tenìan sus criadas,  avevano con sé le loro domestiche», aveva risposto Salustiano e ci aveva spiegato come le figlie di famiglie nobili entrassero in convento portando con sé le proprie donne di servizio; cosicché per soddisfare i veniali capricci della gola, i soli a esser loro concessi, le monache potevano contare su uno stuolo alacre e infaticabile d’esecutrici. 

E quanto a loro non avevano che da ideare e predisporre e confrontare e correggere ricette che esprimessero le loro fantasie costrette tra quelle mura: fantasie anche di donne raffinate, e accese, e introverse, e complicate, donne con bisogni d’assoluto, con letture che parlavano d’estasi e trasfigurazioni e martìri e supplizi, donne con contrastanti richiami nel sangue, genealogie in cui la discendenza dei Conquistadores si mescolava con quella delle principesse indie, o delle schiave, donne con ricordi infantili di frutti e aromi d’una vegetazione succulenta e densa di fermenti, benché cresciuta da quegli assolati altopiani. Né si poteva dimenticare l’architettura sacra che faceva da sfondo alle vite di quelle religiose, mossa dalla stessa spinta verso l’estremo che portava all’esasperazione dei sapori amplificata dalla vampa dei chiles più piccanti. Così come il barocco coloniale non poneva limite alla profusione degli ornamenti e allo sfarzo, per cui la presenza di Dio era identificata in un delirio minuziosamente calcolato di sensazioni eccessive e traboccanti, così il bruciore delle quarantadue varietà indigene di peperoncini sapientemente scelti per ogni vivanda apriva le prospettive d’un’estasi fiammeggiante. 

Avevamo, a Tepotzotlàn, visitato la chiesa che i Gesuiti avevano costruito per il loro seminario nel Settecento (e appena inaugurata avevano dovuto abbandonarla, cacciati per sempre dal Messico): una chiesa-teatro tutta in oro e colori vivi, in un barocco danzante e acrobatico, folta d’angeli volteggiami, ghirlande, trofei di fiori, conchiglie. Certo i Gesuiti s’erano proposti di gareggiare con lo splendore degli Aztechi, le rovine dei cui templi e palazzi - la reggia di Quetzacoatl! - erano sempre presenti a ricordare un dominio esercitato con gli effetti suggestivi d’un’arte trasfiguratrice e grandiosa. C’era una sfida nell’aria, in quest’aria secca e fine dei duemila metri: l’antica sfida tra le civiltà d’America e di Spagna nell’arte d’incantare i sensi con seduzioni allucinanti, e dall’architettura questa sfida s’estendeva alla cucina, dove le due civiltà s’erano fuse, o forse dove quella dei vinti aveva trionfato, forte dei condimenti nati dal suo suolo. Attraverso bianche mani di novizie e mani brune di converse, la cucina della nuova civiltà ispano-india s’era fatta anch’essa campo di battaglia tra la ferinità aggressiva degli antichi dèi dell’altopiano e la sovrabbondanza sinuosa della religione barocca… 

Nel menu della cena non trovammo chiles en nogada (da una località a un’altra il lessico gastronomico variava proponendo sempre nuovi termini da registrare e nuove sensazioni da distinguere), bensì guacamole (cioè una purée di avocado e cipolla da tirar su con le tortillas croccanti che si spezzano in tante schegge e s’intingono come cucchiai nella crema densa: la pingue morbidezza dell’aguacate - il frutto nazionale messicano diffuso per il mondo sotto il nome storpiato di avocado - accompagnata e sottolineata dall’asciuttezza angolosa della tortilla,  che può avere a sua volta tanti sapori facendo finta di non averne nessuno), poi guajolote con mole poblano (cioè tacchino con salsa di Puebla, tra i tanti moles uno dei più nobili - era servito alla tavola di Moctezuma -, più laboriosi - a prepararlo non ci si mette mai meno di tre giorni - e più complicati - perché richiede quattro varietà diverse di chiles,  aglio, cipolla, cannella, chiodi di garofano, pepe, semi di cumino, di coriandolo e di sesamo, mandorle, uva passa, arachidi e un po’ di cioccolato) e infine quesadillas (che sarebbero un altro tipo di tortilla,  in cui il formaggio è incorporato alla pasta e guarnito di carne tritata e di fagioli fritti). 

Le labbra d’Olivia nel bel mezzo della masticazione indugiavano fin quasi a fermarsi, ma senza interrompere del tutto la continuità del movimento, che rallentava come non volendo lasciar allontanare un’eco interiore, mentre il suo sguardo si fissava in un’attenzione senza oggetto apparente, quasi come in allarme. Era una speciale concentrazione del viso che avevo osservato in lei durante i pasti, da quando avevamo cominciato il nostro viaggio in Messico: una tensione che seguivo nel suo propagarsi dalle labbra alle narici, ora dilatate ora contratte. (Il naso ha una plasticità molto ridotta - soprattutto un naso armonioso e gentile come quello d’Olivia - e ogni impercettibile movimento inteso a espandere la capienza delle narici nel senso longitudinale le rende in effetti più sottili, mentre il corrispettivo movimento riflesso che ne accentua l’ampiezza risulta poi invece come un ritrarsi di tutto il naso verso la superficie del viso). Da quanto ho detto si potrebbe credere che Olivia mangiando si chiudesse in se stessa immedesimandosi nel percorso interiore delle sue sensazioni; in realtà invece il desiderio che tutta la sua persona esprimeva era quello di comunicarmi ciò che sentiva: di comunicare con me attraverso i sapori, o di comunicare coi sapori attraverso un doppio corredo di papille, il suo e il mio. 

«Senti? Hai sentito?» mi diceva con una specie d’ansia, come se in quel preciso momento i nostri incisivi avessero triturato un boccone di composizione identica e la stessa stilla d’aroma fosse stata captata dai recettori della mia lingua e della sua. «È lo xilantro Non senti lo xilantro?» aggiungeva, menzionando un’erba che dal nome locale non eravamo ancora riusciti a identificare con sicurezza (forse l’aneto?) e di cui bastava un filo sottile nel boccone che stavamo masticando per trasmettere alle narici una commozione dolcemente pungente, come un’impalpabile ebbrezza. Questo bisogno che Olivia aveva di coinvolgermi nelle sue emozioni m’era molto gradito, perché mi dimostrava quanto le fossi indispensabile e come per lei i piaceri dell’esistenza fossero apprezzabili solo se condivisi tra noi. È solo nell’unità della coppia - pensavo - che le nostre soggettività individuali trovano amplificazione e completezza. Di confermarmi in questa convinzione avevo tanto più bisogno in quanto dall’inizio del nostro viaggio messicano l’intesa fisica tra me e Olivia stava attraversando una fase di rarefazione se non d’eclisse: fenomeno certamente momentaneo e non preoccupante in sé, anzi tale da rientrare nei normali alti e bassi cui va soggetta, nei tempi lunghi, la vita d’ogni coppia. E non potevo fare a meno di notare che certe manifestazioni della carica vitale d’Olivia, certi suoi scatti o indugi o struggimenti o palpiti, continuassero a dispiegarsi sotto i miei occhi senz’aver perso nulla della loro intensità, con una sola variante di rilievo: l’aver per teatro non più il letto dei nostri abbracci ma una tavola apparecchiata. 

M’aspettavo, nei primi giorni, che la crescente accensione del palato non tardasse a comunicarsi a tutti i nostri sensi. Sbagliavo: afrodisiaca questa cucina lo era certamente, ma in sé e per sé (questo credetti di capire e ciò che dico vale per noi in quel momento; non so per altri, o per noi stessi se ci fossimo trovati in un altro stato d’animo), ossia stimolava desideri che cercavano soddisfazione solo nella stessa sfera di sensazioni che li aveva fatti nascere, dunque mangiando sempre nuovi piatti che rilanciassero e ampliassero quegli stessi desideri. Eravamo dunque nella situazione migliore per immaginare come poteva essersi svolto l’amore tra la badessa e il cappellano: un amore che poteva pur essere stato, agli occhi del mondo e di loro stessi, perfettamente casto, e nello stesso tempo d’una carnalità senza limiti in quell’esperienza dei sapori raggiunta per mezzo d’una complicità segreta e sottile. Complicità: la parola, appena la pensai, riferendola non solo alla monaca e al prete ma a Olivia e a me, mi rinfrancò. Perché se era complicità quella che Olivia cercava per la passione quasi ossessiva per il cibo che l’aveva presa, ebbene, allora questa complicità implicava che non si perdesse, come sempre più temevo, una parità tra noi. Infatti mi sembrava che negli ultimi giorni Olivia, nella sua esplorazione gustativa, volesse tenermi in una posizione subalterna, come d’una presenza necessaria sì ma sottomessa, obbligandomi a far da testimone al suo rapporto col cibo, o da confidente, o da compiacente mezzano. 

Scacciai questo pensiero importuno, che chissà come mi s’era affacciato alla mente: in realtà la nostra complicità non poteva essere più piena, proprio perché era diverso il modo in cui vivevamo la stessa passione in armonia coi nostri temperamenti: Olivia più sensibile alle sfumature percettive e dotata d’una memoria più analitica dove ogni ricordo restava distinto e inconfondibile; io più portato a definire verbalmente e concettualmente le esperienze, a tracciare la linea ideale del viaggio compiuto dentro di noi contemporaneamente al viaggio geografico. Questa era appunto una conclusione a cui ero giunto e che Olivia aveva prontamente fatto sua (o forse l’idea era stata Olivia a suggerirmela e io non avevo fatto che riproporgliela con parole mie): il vero viaggio, in quanto introiezione d’un «fuori» diverso dal nostro abituale, implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura (non solo le diverse pratiche della cucina e del condimento ma l’uso dei diversi strumenti con cui si schiaccia la farina o si rimesta il paiolo), facendolo passare per le labbra e l’esofago. Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona. (E non si obietti che lo stesso risultato si ha a frequentare i ristoranti esotici delle nostre metropoli: essi falsano talmente la realtà della cucina cui pretendono di richiamarsi che, dal punto di vista dell’esperienza conoscitiva che se ne può trarre, equivalgono non a un documentario ma a una ricostruzione ambientale filmata in uno studio cinematografico). 

Ciò non toglie che nel nostro viaggio Olivia e io vedessimo tutto quello che va visto (certo non poco, come quantità e qualità). Per l’indomani era fissata la visita agli scavi di Monte Albàn; la guida venne puntualmente a prenderci all’albergo con il pulmino. Nell’assolata arida campagna crescono le agavi per il mezcal e la tequila,  i nopales (da noi detti fichi d’India), i cereus tutti spine, gli jacaranda dai fiori azzurri. La strada sale tra le montagne. Monte Albàn, tra le alture che circondano una vallata, è un complesso di rovine di templi, bassorilievi, grandiose scalinate, piattaforme per i sacrifici umani. L’orrore, il sacro e il mistero vengono inglobati dal turismo, che ci detta comportamenti preordinati, modesti succedanei di quei riti. Contemplando questi gradini cerchiamo d’immaginarci il sangue caldo zampillante dai petti squarciati dalle lame di pietra dei sacerdoti… 

Tre civiltà si sono succedute a Monte Albàn spostando sempre le stesse pietre: gli Zapotechi distruggendo e rifacendo le opere olmeche e i Mixtechi le zapoteche. I calendari delle antiche civiltà messicane, scolpiti nei bassorilievi, rispondono a una concezione del tempo ciclica e tragica: ogni cinquantadue anni l’universo finiva, morivano gli dèi, i templi venivano distrutti, ogni cosa celeste o terrena cambiava nome. Forse i popoli che la storia distingue come occupanti successivi di questi territori non erano che un unico popolo, la cui continuità non si è mai spezzata, pur attraverso una storia di massacri quale i bassorilievi rappresentano. Ecco i villaggi conquistati, col nome scritto in geroglifici, e il dio del villaggio a testa in giù; ecco i prigionieri di guerra in catene, le teste staccate delle vittime… 

La guida a cui ci ha affidato l’agenzia turistica, un omaccione a nome Alonso, dai lineamenti appiattiti come le figure olmeche (o mixteche? o zapoteche?), ci illustra, con grande esuberanza mimica, i famosi bassorilievi detti «Los Danzantes». Delle figure scolpite solo alcune rappresenterebbero effettivamente danzatori con le gambe in movimento (Alonso esegue alcuni passi di danza); altri potrebbero essere astronomi che alzano una mano a visiera per scrutare le stelle (Alonso si mette in posa di astronomo); ma per la più parte rappresentano donne in atto di partorire (Alonso esegue). Comprendiamo che questo tempio era destinato a scongiurare i parti difficili; i bassorilievi erano forse immagini votive. Anche la danza, del resto, serviva a facilitare i parti per mimesi magica, specialmente quando il bambino si presentava di piedi. (Alonso mima la mimesi magica). Un bassorilievo rappresenta un taglio cesareo con tanto d’utero e di trombe di Falloppio. (Alonso, più brutale che mai, mima l’intera anatomia femminile, a provare che un identico strazio chirurgico accomunava le nascite e le morti). Tutto nella gesticolazione della nostra guida prendeva un senso truculento, come se i templi dei sacrifici proiettassero la loro ombra su ogni atto e ogni pensiero. Ogni figura dei bassorilievi appariva legata a quei riti sanguinosi: fissata la data più propizia contemplando le stelle, il sacrificio era accompagnato dal tripudio delle danze; e perfino le nascite sembravano non aver altro fine che di rifornire di nuovi soldati le guerre per la cattura delle vittime. Anche dove sono rappresentate figure che corrono o lottano o giocano a palla non si tratta di pacifiche gare d’atleti ma di prigionieri di guerra obbligati a gareggiare per decidere a chi di loro tocca per primo di salire sull’altare. «Chi perdeva nelle gare era destinato al sacrificio?» domando. «No, chi vinceva!» e il viso d’Alonso s’illumina. «Avere il petto squarciato dal coltello d’ossidiana era un onore!» e in un crescendo di patriottismo ancestrale, come ha vantato l’eccellenza del sapere scientifico degli antichi popoli, così ora il buon discendente degli Olmechi si sentiva in dovere di esaltare l’offerta al sole d’un cuore umano palpitante, perché l’aurora ritorni a illuminare il mondo ogni mattino. 

Fu allora che Olivia domandò: «Ma del corpo delle vittime, dopo, cosa ne facevano?» Alonso si fermò. «Sì, queste membra, queste viscere», insistette Olivia, «offerte agli dèi, va bene, ma praticamente, dove andavano a finire? Le bruciavano?» No, non venivano bruciati. «E allora? un dono agli dèi non poteva certo venir sotterrato, lasciato marcire…» «Los zopilotes»,  disse Alonso, «gli avvoltoi». Erano loro a sgomberare gli altari e a portare al cielo le offerte. Gli avvoltoi… «Sempre?» chiede ancora Olivia, con un’insistenza che non riesco a spiegarmi. Alonso scantona, cerca di cambiar discorso, ha fretta di mostrarci i camminamenti che collegavano le case dei sacerdoti ai templi, dove essi facevano la loro apparizione col volto ricoperto da maschere terrificanti. La foga pedagogica del cicerone aveva qualcosa d’irritante perché dava l’impressione che egli stesse impartendoci una lezione semplificata per farla entrare nelle nostre povere teste di profani, mentre lui ne sapeva certo di più, cose che teneva per sé e si guardava bene dal dirci. Forse era questo che Olivia aveva avvertito e che da un certo momento in poi la fece chiudersi in un silenzio contrariato, che durò per tutto il resto della visita agli scavi, e poi sulla jeep sobbalzante che ci riportava a Oaxaca. Cercavo, durante il percorso tutto curve, d’intercettare lo sguardo d’Olivia che sedeva di fronte a me; ma, fossero i sobbalzi della jeep o il dislivello dei nostri sedili, m’accorsi che il mio sguardo si fermava non sui suoi occhi ma sui suoi denti (teneva le labbra dischiuse in un’espressione assorta), denti che per la prima volta m’accadeva di vedere non come il lampo luminoso del sorriso ma come gli strumenti più adatti alla propria funzione: l’affondare nella carne, lo sbranare, il recidere. E come si cerca di leggere il pensiero d’una persona nell’espressione degli occhi, ecco ora io guardavo questi denti taglienti e forti e vi sentivo un desiderio trattenuto, un’attesa. 

Rientrando all’albergo e avviandoci verso la grande sala (l’ex cappella del convento) che dovevamo attraversare per raggiungere l’ala dov’era la nostra stanza, ci colpì un rumore come d’una cascata d’acqua che scroscia e rimbalza e gorgoglia attraverso mille rivoli e vortici e zampilli. Più ci avvicinavamo più questo omogeneo fragore s’andava frantumando in un insieme di cinguettii gorgheggi pigolii chioccolii come d’uno stormo d’uccelli che sbattesse le ali in una voliera. Dalla soglia (la sala era più bassa di alcuni gradini rispetto al corridoio) ci apparve una distesa di cappellini primaverili sulle teste di signore sedute intorno a tavole imbandite. Si stava svolgendo in tutto il paese la campagna per l’elezione del nuovo presidente della repubblica: la moglie del candidato ufficiale aveva offerto un tè d’imponenti proporzioni alle mogli dei notabili di Oaxaca. Sotto l’ampia volta vuota, trecento signore messicane conversavano tutte insieme: il grandioso evento acustico che ci aveva subito soggiogato era prodotto dalle loro voci mescolate al tintinnio di tazze e cucchiaini e coltelli che trinciavano fette di torta. Un gigantesco ritratto a colori di signora dal viso rotondo, i capelli neri e lisci tirati, un vestito azzurro di cui si vedeva solo il colletto abbottonato, non dissimile insomma dall’effige ufficiale del Presidente Mao Tse Tung, sovrastava l’assemblea. Per raggiungere il patio e di lì la nostra scala dovevamo farci largo tra i tavolini del ricevimento; già eravamo vicini all’uscita quando da uno dei deschi in fondo alla sala una delle poche figure maschili presenti s’alzò e ci venne incontro a braccia levate. Era il nostro amico Salustiano Velazco, personalità rappresentativa del nuovo staff presidenziale e in tale veste partecipante alle fasi più delicate della campagna elettorale. 

Non lo vedevamo da quando avevamo lasciato la capitale, e per manifestarci con tutta la sua esuberanza la gioia d’averci rincontrato e informarsi delle ultime tappe del nostro viaggio (e forse anche per sottrarsi un momento a quell’atmosfera in cui il predominio trionfale delle donne metteva in crisi la sua cavalleresca certezza nella supremazia maschile) lasciò il suo posto d’onore al convito per accompagnarci nel patio. Cominciò, più che a informarsi di quanto avevamo visto, a segnalarci quello che certamente avevamo mancato di vedere nei posti dove eravamo stati, e che avremmo potuto vedere solamente se ci fossimo stati con lui: uno schema di conversazione che gli appassionati conoscitori d’un paese si sentono obbligati ad applicare con gli amici in visita, sempre con le migliori intenzioni, ma che comunque riesce a guastare il piacere di chi è reduce da un viaggio e tutto fiero delle sue piccole o grandi esperienze. Il fragore conviviale dell’autorevole gineceo ci raggiungeva anche nel patio e copriva almeno metà delle parole dette da noi e da lui, cosicché non ero mai sicuro che egli non ci stesse rimproverando di non aver visto cose che gli avevamo appena detto d’aver visto. 

«E oggi siamo stati a Monte Albàn…» mi affrettai a comunicargli alzando la voce, «… le gradinate, i bassorilievi, gli altari dei 99 sacrifici…» Salustiano portò una mano alla bocca per poi sollevarla a mezz’aria, gesto che in lui testimoniava d’un’emozione troppo grande per essere espressa a parole. Cominciò a darci dettagli archeologici ed etnografici che mi sarebbe piaciuto molto poter seguire frase per frase, ma che si perdevano nel rimbombo dell’agape. Dai gesti e da parole sparse che riuscivo a cogliere, «sangre… obsidiana… divinidad solar…» capivo che stava parlando dei sacrifici umani, e lo faceva con un misto di partecipazione ammirata e di sacro orrore, atteggiamento che si distaccava da quello del rozzo cicerone della nostra gita per una maggiore consapevolezza delle implicazioni culturali che vi erano coinvolte. Fu allora che Olivia, che più pronta di me riusciva a seguire meglio la loquela di Salustiano, interloquì domandandogli qualcosa; compresi che gli ripeteva la stessa domanda che aveva fatto quel pomeriggio ad Alonso, «quello che gli avvoltoi non si portavano via… come finiva?» Gli occhi di Salustiano rivolsero a Olivia scintillii d’intesa e anch’io compresi allora l’intenzione che c’era dietro alla sua domanda, tanto più che Salustiano assunse il suo tono confidenziale, complice, ma sembrava che proprio perché più sommesse le sue parole superassero più facilmente la siepe di rumore che ci divideva. «Chissà… I sacerdoti… Anche questo faceva parte del rito… Per la verità se ne sa poco… Erano cerimonie segrete… Sì, il pasto rituale… Il sacerdote assumeva le funzioni del dio… quindi la vittima, cibo divino…» Era dunque a fargli ammettere questo che voleva arrivare, Olivia? Insisteva ancora: «Ma come avveniva, il pasto…?» «Ripeto, sono solo supposizioni… Pare che anche i principi, i guerrieri, partecipassero… La vittima era già parte del dio, trasmetteva la forza divina…» 

A questo punto Salustiano cambiava tono, diventava fiero, drammatico, s’esaltava: «Solo il guerriero che aveva catturato il prigioniero sacrificato non poteva toccare la sua carne… Stava in disparte, piangendo…» Olivia non sembrava ancora soddisfatta: «Ma questa carne, per mangiarla, la cucina, la cucina sacra, il modo di prepararla, i sapori, se ne sa qualcosa?» Salustiano s’era fatto pensieroso. Le banchettanti avevano raddoppiato i clamori e Salustiano adesso sembrava diventato ipersensibile al rumore: si batteva le orecchie col dito, faceva segno che con quel chiasso non poteva continuare. «Sì, dovevano esserci delle regole… Certo era un cibo che non poteva essere ingerito senza uno speciale cerimoniale… gli onori che merita… per rispetto dei sacrificati che erano giovani valorosi… per rispetto degli dèi… carne che non si può mangiare tanto per mangiare, come un’altra vivanda qualsiasi… E il sapore…» «Dicono che non sia buona da mangiare…?» «Un sapore strano, dicono…» «Ci saranno voluti dei condimenti… roba forte…» «Forse quel sapore doveva essere nascosto… Tutti i sapori dovevano essere chiamati a raccolta per coprire quel sapore…» E Olivia: «Ma i sacerdoti… sulla cucina… non hanno lasciato scritto… tramandato…?» Salustiano scuoteva il capo: «Mistero… la loro vita era circondata dal mistero…» E Olivia, Olivia sembrava fosse lei adesso a suggerire a lui: «Forse quel sapore veniva fuori comunque… anche in mezzo ad altri sapori…» Salustiano parlava con le dita posate sulle labbra come a filtrare quello che stava dicendo: «Era una cucina sacra… doveva celebrare l’armonia degli elementi raggiunta attraverso il sacrifìcio, un’armonia terribile, fiammeggiante, incandescente…» Ammutolì improvvisamente, quasi sentendo d’esser andato troppo in là e, come se il pensiero del banchetto l’avesse richiamato al dovere, s’affrettò a scusarsi di non poter restare di più con noi, perché doveva riprendere posto al suo tavolo. 

Aspettando che venisse giù la sera ci sedemmo a uno dei caffè sotto i portici dello zócalo,  la piazzetta quadrata che è il cuore d’ogni vecchia città della colonia, verde di bassi alberi ben potati chiamati almendros  ma che non somigliano affatto ai mandorli. Le bandierine di carta e gli striscioni che salutavano il candidato ufficiale facevano del loro meglio per comunicare allo zócalo un’aria di festa. Le buone famiglie di Oaxaca passeggiavano sotto i portici. Gli hippies americani aspettavano la vecchia che forniva il mezcal.  Venditori ambulanti cenciosi dispiegavano al suolo tessuti colorati. Da una piazza vicina giungeva l’eco dei megafoni d’uno sparuto comizio d’opposizione. Accoccolate per terra, grosse donne friggevano tortillas ed erbe. Nel chiosco in mezzo alla piazza suonava l’orchestra riportandomi ricordi rassicuranti delle sere in un’Europa provinciale e familiare che avevo fatto in tempo a vivere e a dimenticare. Ma il ricordo era come un «trompe l’oeil» e per poco che osservassi meglio mi dava un senso di distanza moltiplicata, nello spazio e nel tempo. Gli orchestrali, nerovestiti e incravattati, con le scure facce indie impassibili, suonavano per i turisti multicolori e sbracati, come abitanti d’una perpetua estate, comitive di vecchi e vecchie finti giovani in tutto lo splendore delle loro dentiere, e per gruppi di giovani ricurvi e meditabondi, come in attesa che la canizie venisse a imbiancare le loro barbe bionde e i capelli fluenti, infagottati in ruvidi panni, affardellati di bisacce come negli antichi calendari apparivano le figure allegoriche dell’inverno.  

«Forse i tempi sono giunti alla fine, il sole s’è stancato di sorgere, Cronos senza vittime da divorare muore d’estenuazione, le età e le stagioni sono sconvolte». «Forse la morte del tempo riguarda solo noi», rispose Olivia, «noi che ci sbraniamo facendo finta di non saperlo, facendo finta di non sentire più i sapori…» «Vuoi dire che i sapori… che qui hanno bisogno di sapori più forti perché sanno… perché qui mangiavano…» «Tal quale da noi anche ora… Solo che noi non lo sappiamo più, non osiamo guardare, come facevano loro… per loro non c’erano mistificazioni, l’orrore era lì, sotto i loro occhi, mangiavano fino a che restava un osso da spolpare, e per questo i sapori…» «Per nascondere quel sapore?» dissi, riprendendo la catena delle ipotesi di Salustiano. «Forse non si poteva, non si doveva nasconderlo… Altrimenti era come non mangiare quel che si mangiava… Forse gli altri sapori avevano la funzione d’esaltare quel sapore, di dargli uno sfondo degno, di fargli onore…» A tali parole sentii di nuovo il bisogno di guardarla nei denti, come già m’era avvenuto durante la discesa in jeep. Ma in quel momento dalle sue labbra s’affacciò la lingua umida di saliva, e subito si ritrasse, come se lei stesse assaporando qualcosa mentalmente. 

Compresi che Olivia stava già immaginando il menu della cena. S’apriva, questo menu, - quale ci fu offerto da un ristorante che trovammo tra basse case dalle inferriate flessuose - con una bevanda rosa in un bicchiere di vetro soffiato a mano: sopa de camarones ossia zuppa di gamberi, piccante oltremisura per una qualità di chiles  che finora non avevamo sperimentato, forse i famosi chiles jalapeños.  Poi cabrito,  capretto arrosto, di cui ogni boccone provocava sorpresa perché i denti ora incontravano un frammento croccante ora uno che si scioglieva in bocca. «Non mangi?» mi chiese Olivia che sembrava concentrata solo nel gustare il suo piatto ed era invece come al solito attentissima, mentre io ero rimasto assorto guardandola. Era la sensazione dei suoi denti nella mia carne che stavo immaginando, e sentivo la sua lingua sollevarmi contro la volta del palato, avvolgermi di saliva, poi spingermi sotto la punta dei canini. Ero seduto lì davanti a lei ma nello stesso tempo mi pareva che una parte di me, o tutto me stesso, fossi contenuto nella sua bocca, stritolato, dilaniato fibra a fibra. Situazione non completamente passiva in quanto mentre venivo masticato da lei sentivo anche che agivo su di lei, le trasmettevo sensazioni che si propagavano dalle papille della bocca per tutto il suo corpo, che ogni sua vibrazione ero io a provocarla: era un rapporto reciproco e completo che ci coinvolgeva e travolgeva. 

Mi ricomposi; ci ricomponemmo. Gustammo con attenzione l’insalata di tenere foglie di fico d’India bollite (ensalada de nopalitos) condita con aglio, coriandolo, peperoncino, olio e aceto; poi il roseo e cremoso dolce di maguey (varietà d’agave), il tutto accompagnato da una caraffa di tequila con sangrita  e seguito da caffè con cannella. Ma questo rapporto tra noi stabilito esclusivamente attraverso il cibo, tanto da non identificarsi in altra immagine che in quella di un pasto, questo rapporto che nelle mie fantasticherie facevo corrispondere ai più profondi desideri d’Olivia, in realtà non le garbava affatto, e il suo fastidio doveva trovar sfogo durante quella stessa cena. «Come sei noioso, monotono», cominciò a dire, riprendendo una sua polemica contro il mio temperamento poco comunicativo e la mia abitudine d’affidare interamente a lei il compito di tener viva la conversazione, polemica che si riaccendeva soprattutto quando ci trovavamo a quattr’occhi a un tavolo di ristorante, con requisitorie articolate in capi d’accusa dei quali non potevo non riconoscere i fondamenti di verità ma in cui pure individuavo le ragioni basilari della nostra coesione di coppia: cioè che Olivia vedeva e sapeva cogliere e isolare e definire rapidamente molte più cose di me e perciò il mio rapporto col mondo passava essenzialmente attraverso di lei. «Sei sempre sprofondato in te stesso, incapace di partecipare a ciò che ti circonda, a spenderti per il prossimo, senza mai un guizzo d’entusiasmo di tuo e pronto sempre a raffreddare quello degli altri, scoraggiante, indifferente», e nell’inventario dei miei difetti stavolta aggiunse un aggettivo nuovo, o tale da caricarsi ai miei orecchi d’un nuovo significato: «insipido!» Ecco, ero insipido, pensai, e la cucina messicana con tutta la sua audacia e fantasia era necessaria perché Olivia potesse cibarsi di me con soddisfazione; i sapori più accesi erano il complemento, anzi il mezzo di comunicazione indispensabile come un altoparlante che amplifica i suoni perché Olivia potesse nutrirsi della mia sostanza. 

«Può darsi che io ti sembri insipido», protestai, «ma ci sono gamme di sapori più discrete e contenute di quella dei peperoncini, ci sono aromi sottili che bisogna saper cogliere!» «La cucina è l’arte di dar rilievo ai sapori con altri sapori», replicò Olivia, «ma se la materia prima è scipita, nessun condimento può rialzare un sapore che non c’è!» L’indomani Salustiano Velazco volle accompagnarci lui a visitare certi scavi recenti, non ancora battuti dai turisti. Una statua di pietra s’elevava appena dal livello del suolo, con la sagoma caratteristica che avevamo imparato a riconoscere fin dai primi giorni delle nostre peregrinazioni archeologiche messicane: il chac-mool,  figura umana semisdraiata, in posa quasi etrusca, che regge un vassoio posato sul ventre; sembra un bonario, rozzo pupazzo, ma è su quel vassoio che venivano offerti al dio i cuori delle vittime. «Messaggero degli dèi: cosa vuol dire?» chiesi io che avevo letto quella definizione su una guida. «È un dèmone mandato sulla terra dagli dèi a prendere il piatto delle offerte? O è un emissario degli uomini che deve andare incontro agli dèi e porgere loro il cibo?» «Chissà…» rispose Salustiano con l’aria sospesa che assumeva di fronte ai quesiti irresolubili, come ascoltando le voci interiori di cui disponeva quali manuali di consultazione della sua scienza. «Potrebbe essere la vittima stessa, supina sull’altare, che offre le proprie viscere sul piatto… O il sacrificatore che assume la posa della vittima perché sa che domani toccherà a lui… Senza questa reversibilità il sacrificio umano sarebbe impensabile… tutti erano potenzialmente sacrificatori e vittime… la vittima accettava d’essere vittima perché aveva lottato per catturare gli altri come vittime…» «Potevano essere mangiati perché erano loro stessi mangiatori d’uomini?» aggiungo io, ma Salustiano sta ormai parlando del serpente come simbolo di continuità della vita e del cosmo. Io avevo capito, intanto. 

Il mio torto con Olivia era di considerarmi mangiato da lei, mentre dovevo essere, anzi ero (ero sempre stato) colui che la mangiava. La carne umana di sapore più attraente è quella di chi mangia carne umana. Solo nutrendomi voracemente d’Olivia non sarei più riuscito insipido al suo palato. Con questo proposito mi sedetti con lei a cena, quella sera. «Ma che hai? Sei strano stasera», disse Olivia a cui non sfuggiva mai nulla. Il piatto che ci avevano servito si chiamava gorditas pellizcadas con manteca,  letteralmente «paffutelle pizzicate al burro». Io m’immedesimavo a divorare in ogni polpetta tutta la fragranza d’Olivia attraverso una masticazione voluttuosa, una vampiresca estrazione di succhi vitali, ma m’accorgevo che in quello che doveva essere un rapporto tra tre termini, io-polpetta-Olivia, s’inseriva un quarto termine che assumeva un ruolo dominante: il nome delle polpette. Era il nome «gorditas pellizcadas con manteca» che io gustavo soprattutto e assimilavo e possedevo. Tanto che la magia del nome continuò ad agire su di me anche dopo il pasto, quando ci ritirammo insieme nella nostra camera d’albergo, nella notte. 

E per la prima volta durante il nostro viaggio in Messico l’incantesimo di cui eravamo rimasti vittime fu rotto e l’ispirazione che aveva favorito i momenti migliori della nostra convivenza tornò a visitarci. Ci ritrovammo il mattino seduti nel nostro letto in posa da chac-mool con sul viso l’espressione atona delle statue di pietra e sulle ginocchia il vassoio dell’anonima colazione alberghiera cui cercavamo d’aggiungere sapori locali chiedendo che fosse accompagnata con mangos, papayas, chirimoyas, guayabas,  frutti che celano nella dolcezza della polpa sottili messaggi d’asperità e agritudine. Il nostro viaggio si spostò nei territori dei Maya. I templi di Palenque emergono dalla selva tropicale, sovrastati da fitte montagne vegetali: enormi fìcus dai tronchi multipli come radici, maculìs dalle fronde color lillà, aguacates,  ogni albero avvolto in un mantello di liane e rampicanti e piante pendule. Fu scendendo per l’erta scalinata del Tempio delle Iscrizioni che mi prese una vertigine. Olivia, che non amava le scale, non aveva voluto seguirmi ed era rimasta confusa nella folla di comitive chiassose di suoni e colori che i torpedoni scaricavano e ingurgitavano di continuo nello spiazzo tra i templi. Da solo m’ero inerpicato al Tempio del Sole, fino al bassorilievo del Sole-giaguaro, al Tempio della Croce Fogliata, fino al bassorilievo del quetzàl (colibrì) di profilo, poi al Tempio delle Iscrizioni, che non comporta solo una scalata (e relativa discesa) della gradinata monumentale, ma anche la discesa nel buio (e relativa risalita) della scaletta che porta alla cripta sotterranea. 

Nella cripta c’è la tomba del re-sacerdote (che avevo già potuto osservare molto più comodamente pochi giorni prima in un perfetto facsimile al Museo d’Antropologia di Città del Messico) con la lastra di pietra scolpita complicatissima in cui si vede il re manovrare un macchinario da fantascienza che ai nostri occhi sembra di quelli che servono a lanciare i razzi spaziali e invece rappresenta la discesa del corpo agli dèi sotterranei e la rinascita nella vegetazione. Discesi, risalii alla luce del sole-giaguaro, nel mare di linfa verde delle foglie. Il mondo vorticò, precipitavo sgozzato dal coltello del re-sacerdote giù dagli alti gradini sulla selva di turisti con le cineprese e gli usurpati sombreros a larghe tese, l’energia solare scorreva per reti fittissime di sangue e clorofilla, io vivevo e morivo in tutte le fibre di ciò che viene masticato e digerito e in tutte le fibre che s’appropriano del sole mangiando e digerendo. Sotto la pergola di paglia d’un ristorante in riva a un fiume, dove Olivia m’aveva atteso, i nostri denti presero a muoversi lentamente con pari ritmo e i nostri sguardi si fissarono l’uno nell’altro con un’intensità di serpenti. Serpenti immedesimati nello spasimo d’inghiottirci a vicenda, coscienti d’essere a nostra volta inghiottiti dal serpente che tutti ci digerisce e assimila incessantemente nel processo d’ingestione e digestione del cannibalismo universale che impronta di sé ogni rapporto amoroso e annulla i confini tra i nostri corpi e la sopade frijoles, lo huacinango a la veracruzana,  le enchiladas

(Italo Calvino, Sotto il sole giaguaro, 1986)

sabato 23 marzo 2024

Tre bandiere e un viaggio a New York

Three Flags, Jasper Johns, 1958
Con le sue Three Flags, Johns ha trasformato l'emblema più politicamente carico in qualcosa di più formale, tanto che ha sempre raffigurato la bandiera americana con 48 stelle (...) Tuttavia, vale anche la pena considerare il contesto storico del dipinto, un'America della Guerra Fredda sotto la repressione maccartista, così come il fatto che Johns era solito riferirsi ai suoi dipinti come "fatti", lasciandoli quindi aperti a interpretazioni. In questa luce, Three Flags sfida la nostra percezione dei molteplici significati racchiusi nell’icona americana per eccellenza (...). (Benedetta Ricci, Artland Magazine)

Tre bandiere: tre sguardi sull'America. Un Paese che ci appare simile ma anche diverso dall'Italia. Difficile da conoscere appieno in un breve soggiorno, limitato a una specifica area geografica. E vissuto, peraltro, con l'idea che deriva dalle innumerevoli fonti di informazione. Che spesso creano una sensazione di déjà vu, che può essere fuorviante.

1) La diseguaglianza. Molto maggiore di quella che sperimentiamo qua: le infrastrutture (case, strade, servizi) vanno dallo stupefacente al pericolante nello spazio di poche centinaia di metri, massimamente nei quartieri periferici che in alcuni casi sembrano dei veri e propri ghetti, con l'effetto generale di mostrare una cura molto minore del "bene pubblico", tant'è che al ritorno la mia Prato - che pure ha tanti difetti - mi è sembrata stranamente ben tenuta. Detto in generale, esiste una forte segregazione spaziale, con quartieri opulenti adiacenti a isolati popolari o perfino totalmente degradati, che riflette le disparità economiche e sociali della società americana.

2) Lo spreco. Le confezioni e gli allestimenti dei prodotti in vendita nei supermercati sono ciclopici: montagne di frutta e verdura, cartoni da 24 uova, chili di carne e pesce, taniche di latte e di bibite, cisterne di birra. Eravamo in 3 in un quartiere ispanoamericano, cenavamo in casa e abbiamo avuto difficoltà a fare la spesa cercando di comprare quello che era necessario senza fare scarti. L'idea che una persona consumi quello che è necessario senza buttare via nulla qua viene vissuta come la prefigurazione di una carestia, come se solo la sovrabbondanza e il conseguente sciupio possa misurare la ricchezza di chi utilizza questi beni. Da questo atteggiamento discende una costante disattenzione verso il consumo improduttivo: aria condizionata ovunque - anche in autunno - impostata su temperature polari, centinaia di luci accese in pieno giorno anche in cantieri edili, automobili che sembrano carrarmati e che consumano il quadruplo di carburante di una delle nostre.

3) Il rumore. Costante, altissimo come quello di una fabbrica in perenne movimento (80 dB misurati a mezzogiorno di domenica, a Bryant Park), accompagnato da un brulichio perenne di persone che corrono incessantemente da un luogo all'altro, senza fermarsi e senza interagire con chi trovano sul proprio cammino, come tanti ingranaggi di un organismo meccanico che non si ferma mai. Dà l'idea di una corsa del criceto - di tutti noi criceti - su di una ruota di dimensioni immense. Il frastuono costante e il brulichio di persone creano un'atmosfera frenetica e spesso alienante, in una corsa incessante che impedisce la socializzazione e l'interazione umana.

In conclusione, l'America si rivela un paese di grandi contrasti, dove la ricchezza sfrenata coesiste con la povertà, l'opulenza si contrappone al degrado urbano e l'individualismo ostacola la socializzazione. Un Paese che, seppur affascinante e ricco di opportunità, lascia anche perplessi per la sua superficialità, il suo spreco e la sua frenesia. 

L'America è una sorta di specchio deformante dell'Italia, che mostra in maniera amplificata sia i nostri pregi che i nostri difetti. Da un lato, la maggior cura del "bene pubblico" e la socialità che caratterizzano il nostro paese appaiono come valori inestimabili di fronte all'individualismo e all'alienazione americani. Dall'altro, l'efficienza e la dinamicità che pervadono la società americana ci spingono a interrogarci sulla nostra staticità e sulla nostra resistenza al cambiamento facendoci riflettere sul significato di progresso, di benessere e di felicità.

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giovedì 21 marzo 2024

Caspar David Friedrich, il paesaggio come rivelazione

Viandante sul mare di nebbia, 1818
Caspar David Friedrich
(1774-1840) è considerato uno dei più importanti pittori del Romanticismo tedesco. La sua fama è legata a paesaggi di grande bellezza, spesso carichi di simbolismo e di una profonda spiritualità, che ho imparato ad apprezzare fin dalla prima volta che li ho visti.

Nelle opere di Friedrich, la natura non è solo una bella scenografia, ma diventa specchio dell'anima e mezzo per esplorare il rapporto tra uomo e infinito. I suoi paesaggi sono spesso silenziosi e immobili, privi di movimento o di eventi significativi. In questa assenza di azione, lo spettatore è invitato a proiettare i propri sentimenti e a meditare sulla vastità del creato e sul posto che l'uomo occupa in esso.
Mattino sul Riesengebirge, 1810
Friedrich era affascinato dal concetto del sublime, che definiva, citando il filosofo Kant come "il senso di sgomento che l’uomo prova di fronte alla grandezza della natura sia nell’aspetto pacifico, sia ancor più, nel momento della sua terribile rappresentazione, quando ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua estrema fragilità, la sua finitezza, ma, al tempo stesso, proprio perché cosciente di questo, intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima possiede una facoltà superiore alla misura dei sensi". 
La Terrazza del Giardino, 1812
Il sublime scaturisce infatti dal conflitto tra ragione ed irrazionalità, è quel sentimento che assale l’uomo di fronte all’incommensurabile o di fronte agli sconvolgimenti dei fenomeni naturali che gli ricordano la propria fragilità. Secondo le parole di Friedrich «Sublime è per me un principio immenso, un qualcosa che vola più in alto di un uccello, che corre più veloce di un ghepardo, che è più impetuoso della tempesta, che è più dolce di un bacio… Sublime è una sensazione indescrivibile che occupa il cielo ma che può essere racchiuso anche in un piccolo fiore».
Il mare di ghiaccio, 1823-24
I suoi quadri spesso raffigurano elementi come montagne innevate, cieli tempestosi o distese di mare che, nella loro grandiosità, evocano un senso di timore reverenziale di fronte alla potenza della natura. In questa visione, la natura non è solo una creazione divina, ma una manifestazione della stessa divinità, un'opera d'arte che ne rivela la sua potenza, la sua saggezza e la sua bontà.

Nelle sue opere, Friedrich utilizza simboli ricorrenti per trasmettere messaggi spirituali e filosofici. La croce, ad esempio, rappresenta la fede e la speranza; le rocce, la solidità e la resistenza; gli alberi, la vita e la crescita. La luce, che spesso proviene da una fonte invisibile, illumina i paesaggi e conferisce loro un'aura di mistero e di sacralità.
Le bianche scogliere di Rügen, 1818
L'opera di Friedrich ha avuto un'influenza enorme sull'arte successiva, non solo in Germania ma in tutta Europa. I suoi paesaggi silenziosi e meditativi hanno ispirato artisti come Gustave Courbet, William Turner e i simbolisti. Ancora oggi, le sue opere continuano ad affascinare e commuovere per la loro bellezza e profondità.
Le tre età dell'uomo, 1834
Caspar David Friedrich ha rivoluzionato il modo di dipingere il paesaggio, trasformandolo in un potente strumento di introspezione e di elevazione spirituale. I suoi paesaggi "in cui non accade nulla" sono in realtà un invito a riflettere sul senso della vita e sul nostro posto nel mondo.

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sabato 16 marzo 2024

Il PIL del Granduca Ferdinando I

Ferdinando I de' Medici in veste da cardinale, Alessandro Allori, 1587

"Tutta la gloria e la ricchezza che c'è, si trova in città, ed è nelle mani di pochi, ai quali son convogliati tutti i prodotti della campagna. Quanto agli artigiani, non possono fare molto di più che vivere, perché di loro appena uno in un'intera città si arricchisce mai; e la vita dei poveri contadini è tale che se non fossero di natura orgogliosi pur nella loro estrema miseria, uno straniero sarebbe mosso a compiangerli."(Robert Dallington, 1596)
All'alba del XVII secolo Prato faceva parte dei "Felicissimi Stati del Serenissimo Granduca" Ferdinando I de' Medici, passato alla Storia in primis per essere asceso al trono granducale dopo aver fatto avvelenare con l'arsenico suo fratello Francesco e la moglie di secondo letto Bianca Cappello nella villa di Poggio a Caiano, e in secundis per aver rafforzato il governo mediceo dopo la sua ascesa al trono, riorganizzando l'economia degli Stati toscani in senso più liberista sulla scorta delle esperienze politiche e diplomatiche che aveva acquisito nella sua lunga carriera di cardinale, fra le altre cose a lungo incaricato dell'amministrazione della città di Roma e della gestione delle finanze della Chiesa.

Detto in poche parole, l'atteggiamento di Ferdinando in economia fu meno paternalista del suo predecessore, il fratello Francesco: sotto il suo regno ci fu una maggiore apertura verso il mercato e una razionalizzazione dell'imposizione fiscale, nel tentativo di rispondere alle esigenze di una società che stava cambiando. Le imposte rappresentavano infatti una fonte primaria di entrate per la famiglia regnante, che le utilizzava per finanziare le spese di governo, l'esercito, le opere pubbliche e il mecenatismo. 
Cristo nella casa di Maria e Marta, Francesco Bassano 1577
Questo però non significava che venissero pagate di buon grado né che i sudditi si sentissero particolarmente ben governati dal loro signore. Lo stesso Dallington nel 1596 annota infatti che
"...appare che il granduca ha due rendite con le quali si arricchisce, cioè grandi imposte e grandi risparmi (perché il risparmio è una gran rendita). Resterebbero altre due cose per farlo assolutamente ricco: l'amore dei suoi sudditi, e la loro ricchezza privata; perché la ricchezza dei sudditi è ricchezza anche del re, e dove il popolo è ricco il principe non è povero. Ma di certo non c'è né l'una né l'altra."

Le tasse a cui era soggetto un suddito dei Felicissimi Stati si potevano suddividere allora come oggi in imposte dirette, ovvero:
  • Tassa sul catasto: gravava sui beni immobili, come terreni e case, sia per la compravendita che per l'affitto nonché per la successione ereditaria, e variava dall'8% al 10% dei valori in questione.
  • Tassa sul sale: un monopolio statale che garantiva un'entrata considerevole.
  • Tassa sulla testa o testatico: applicata a tutti i cittadini, indipendentemente dal loro reddito, e anche applicata ai capi di bestiame, sia sotto forma di quota forfettaria che di tassa su ciascun capo.
  • Tasse su specifiche attività: ad esempio sulla dote della moglie al momento del matrimonio, sull'esercizio del meretricio (ogni cortigiana doveva pagare una lira - ovvero un ottavo di scudo d'oro - al mese) e sugli Ebrei (2 scudi d'oro all'anno).
e imposte indirette:
  • Dazio doganale: prelevato sulle merci importate ed esportate.
  • Gabelle: tasse su specifici beni di consumo, come pane, vino, carne e tabacco e anche su attività come condanne e cause legali.
  • Tasse sull'esercizio di particolari attività, come ad esempio locande e alberghi, e una tantum - e detta matricola - sull'impianto di attività commerciali di vendita.

Il sistema fiscale mediceo era iniquo, in quanto gravava maggiormente sulle classi meno abbienti. La tassa sul catasto, ad esempio, era spesso viziata da disparità e favoritismi verso i ceti più elevati. Inoltre, le numerose gabelle rendevano i beni di prima necessità più costosi per le famiglie povere.

In effetti possiamo affermare con sicurezza che prima della Rivoluzione Industriale di "Felicissimi Stati" in Toscana e men che meno in Europa, non ce n'era nemmeno l'ombra. Al massimo si poteva parlare - in senso relativo - di "felicissimi gruppi sociali" la cui felicità era essenzialmente basata sull'infelicità degli altri; data infatti la bassa produttività delle società preindustriali la torta da spartire era misera, e solo una ristretta élite poteva vivere e prosperare a condizione di far tirare la cinghia a tutti gli altri.
Pianta di Prato di Odoardo Warren, 1740
Nell'insieme si valuta che le tasse riscosse dal granduca ammontassero tra il 30 e il 40% del reddito, e va sottolineato che gli obblighi del governo mediceo erano di gran lunga inferiori da quelli assunti dalle moderne amministrazioni, soprattutto in tema di istruzione, sanità e previdenza.

Anche nei confronti delle comunità come Prato, ovvero di quelle amministrazioni locali che mantenevano una quota di autonomia impositiva e le cui entrate andavano a formare un Ceppo da cui si attingeva per le esigenze locali, il granduca aveva stabilito di incamerare tutti gli avanzi di bilancio, togliendoli al tesoro comunitario che quindi veniva a mancare di autonomia di gestione e che si doveva rivolgere al governo centrale per tutte quelle spese che non fossero correnti.
Scudo d'oro di Ferdinando I
Un ulteriore elemento di criticità era quello della tassazione del clero, che godeva di esenzione fiscale per i beni ecclesiastici e per le rendite derivanti da attività spirituali. Tuttavia, erano previste per il clero alcune imposte specifiche, come la tassa del sussidio e la tassa decennale. Inoltre, il clero poteva essere soggetto a imposte straordinarie in caso di necessità finanziarie dello Stato, come ad esempio nel 1561, quando Cosimo I richiese un contributo per finanziare la guerra contro Siena. Nell'insieme, però, i beni della Chiesa nella Toscana medicea erano largamente improduttivi a fini erariali: i privilegi fiscali sarebbero stati infatti mantenuti fin quasi all'alba della Rivoluzione Francese.

Gli ecclesiastici, oltretutto, erano anche molto numerosi: in una città come Prato, che a fine Cinquecento contava complessivamente - tra città e contado - circa 16.000 abitanti, i religiosi erano 2.000, il 12,5%, che vivevano tutti a spese della comunità laica. Era come se nella Prato di oggi si contassero 25.000 tra preti, frati e monache.
Bilancino da cambiavalute del XVII secolo
In questa situazione non ci si meraviglia se la maggior parte della popolazione appariva povera oltre il sostenibile. Racconta sempre Dallington che alla Fiera di Prato dell'8 settembre 1596:
"Vennero quel giorno devotamente (a trovare me, non il Sacro Cingolo) due miei amici inglesi; osservammo (...) che eran venute nel luogo del mercato circa 18 o 20 mila persone per vedere la reliquia, di cui la metà portava cappelli di paglia, e un quarto era a gambe scoperte; per cui sappiamo che non è tutto oro in Italia, anche se molti viaggiatori che dànno solo un'occhiata alla bellezza delle città e alle facciate dipinte delle case, pensano che sia il solo paradiso in Europa."

Lo scenario generale dell'epoca, visto con gli occhi di oggi, era quello di una desolante miseria che imperversava tra la massa della popolazione e si traduceva in condizioni di vita allucinanti, con contrasti sociali violentissimi anche all'interno di una società relativamente evoluta e benestante quale quella della Toscana di fine Cinquecento.

D'altro canto l'atteggiamento e la sensibilità delle classi privilegiate nei confronti della massa non erano diversi da quelli che hanno molti italiani di oggi nei confronti degli odierni migranti economici. Scriveva infatti pochi anni dopo il medico bergamasco Marcantonio Benaglio:

"Dovendosi dalli presenti successi cavar quell'avvertimento per sapere come governarsi nell'avvenire, si fa memoria che bisognerebbe soccorrere i poveri dei villaggi mandando loro grosse e sufficienti elemosine, vietando poi loro rigorosamente l'ingresso nella città con metter guardie alle porte e facendoli uscire quando fossero entrati. Perché in questo modo facendo si guadagnerà la preservazione della patria dalli soprastanti mali contagiosi, maligni ed epidemici e si schiverà il tedio e cruccio insopportabile, l'orror e spavento che porta seco una turba rabbiosa di gente mezzo morta che assedia ognuno per le strade, per le piazze, per le chiese, e alle porte delle case. cosicché non si può vivere con un puzzore che ammorba, con continui spettacoli di moribondi e morti, e soprattutto tanto rabbiosi che non si ponno distaccar da dosso senza fargli elemosina."

Mi sono chiesto se fosse possibile valutare dai documenti in nostro possesso l'effettiva ricchezza dello Stato Toscano in quello scorcio di tempo tra Cinquecento e Seicento in cui ebbe luogo il governo di Ferdinando I, e in che termini potessero essere confrontati tra loro due Paesi così diversi come l'Inghilterra elisabettiana di Dallington e lo Stato mediceo. 

Attraverso diversi calcoli, ho stimato una sorta di PIL - Prodotto Interno Lordo - per i due Stati. Sebbene sia solo un'approssimazione, fornisce comunque alcuni utili elementi di confronto. Permette infatti di paragonare, sia pure a grandi linee, un'economia moderna con quella di due Stati preindustriali.

Partiamo dai dati odierni, che appaiono sideralmente lontani da quelli di fine Cinquecento: la Toscana nel 2023 ha avuto un PIL di 113,8 miliardi di Euro, la Gran Bretagna un PIL di 3.212 miliardi di Euro. Gli abitanti al 2023 sono 3.656.000 per la Toscana e 56.489.000 per la Gran Bretagna, il PIL pro capite è di 31.127 Euro per la Toscana e 56.861 Euro per la Gran Bretagna.

Monete di Ferdinando I de' Medici 
Alla fine del Cinquecento la Toscana aveva un PIL valutabile in circa 20-25 milioni di scudi d'oro; l'Inghilterra elisabettiana era sullo stesso ordine di grandezza della Toscana, con un PIL di 24-30  milioni di scudi d'oro. Per dare un'idea di queste grandezze in Euro, possiamo usare un coefficiente di conversione di 100, che porterebbe a un PIL di 2-2,5 miliardi di Euro per la Toscana e 2,4-3 miliardi per l'Inghilterra. 

Malgrado la differenza di estensione dei due Stati, la ricchezza del Granducato era quindi molto maggiore in quanto la popolazione toscana era di gran lunga inferiore a quella inglese: 880.000 abitanti in Toscana contro 4.500.000 in Inghilterra. Facendo la stessa operazione che abbiamo fatto sopra ne viene un PIL pro capite di 2.273/2.841 Euro per la Toscana a fronte di 533/666 Euro per l'Inghilterra.

Una notevole disparità che fa capire per quale motivo Sir Robert Dallington fosse stato mandato in avanscoperta dalla Corona inglese. Per quanto poverissima in termini moderni, la Toscana di fine Cinquecento era ricca in termini relativi, se paragonata a molte altre nazioni europee del tempo, e poteva essere presa ad esempio: ma questa ricchezza era molto mal distribuita, tra privilegi ecclesiastici e nobiliari e inefficienze di ogni genere. 

Della ricchezza prodotta dallo Stato una parte finiva nelle casse del granduca ed era da lui liberamente usata sia per le sue necessità personali che per quelle della sua politica. Partendo dagli assunti precedenti, ho calcolato che le entrate di Ferdinando I oscillassero annualmente tra un minimo di 1 milione di scudi e un massimo di 3 milioni, equivalenti a 100-300 milioni di euro attuali, corrispondenti ad oltre il 10% del bilancio statale. Grandi somme, che nel panorama piuttosto misero dell'Europa dell'epoca fecero guadagnare al sovrano toscano il titolo piuttosto evocativo di "Re di denari" testimoniando se non altro la sua abilità di amministratore.

E pur con le sue diseguaglianze e con la sua relativa povertà, cosa sarebbe potuta diventare l'Italia di fine Cinquecento se, invece di essere frammentata in tanti piccoli Stati come la Toscana, fosse stata unita, mettendo da parte rivalità ed egoismi? Probabilmente sarebbe stata ancora protagonista, in Europa e nel mondo, anche dopo il periodo d'oro del Rinascimento. 

L'antica massima "l'unione fa la forza" trova sempre nella storia una conferma puntuale. Le vicende dei secoli passati ci insegnano che solo attraverso la coesione e la collaborazione è possibile raggiungere grandi obiettivi e prosperare. Al contrario, la divisione e la discordia conducono inevitabilmente alla debolezza, alla disfatta e al decadimento, sia in ambito morale che economico.

Questo motto racchiude infatti una verità fondamentale, che assume una particolare importanza anche nel contesto dell'Europa odierna. In un mondo sempre più interconnesso e globalizzato, solo attraverso la coesione e la collaborazione tra le diverse nazioni sarà possibile affrontare le sfide comuni e costruire un futuro migliore per tutti.

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domenica 10 marzo 2024

Irene Bonamici, la santa libertina

Dal film L'Abbandono (2017) 
"Gli attuali conventi sono un nido di suddite disgraziate e scontente, che dopo aver condotta una vita infelice qui in terra vanno incontro ad un'eterna dannazione, e che sarà sempre un'opera grata a Dio, e degna della sua Religione e Clemenza, se accordando che un solo convento di monache sia in ogni Diocesi sopprimerà tutti gli altri e ridonerà la libertà a tante disgraziate che l'hanno violentemente o inconsideratamente perduta"¹
La domenica di Pentecoste del 1781 si presentava come una giornata di ordinaria serenità. Il sole splendeva; alto nel terso cielo di giugno, tingeva di luce calda il mondo e lasciava presagire l'estate ormai prossima. Nessuno poteva immaginare che a fine mattinata la terra avrebbe tremato: un lungo sussulto del suolo, accompagnato da un sordo boato e dal vibrare indistinto degli edifici, sconvolse la quiete domenicale.

Il vescovo Scipione de' Ricci, colto dal sisma nel Duomo di Pistoia proprio durante la predica della Messa, vide i fedeli fuggire disordinatamente dalla chiesa in preda al terrore e sebbene constatasse che non c'erano stati danni all'edificio interpretò l'evento come una diretta manifestazione della volontà divina.

Ripensò alla mattina e alla lettera che aveva sul tavolo e che aspettava di essere completata. Pochi giorni prima Francesco Maiocchi, il padre confessore che lui stesso aveva inviato al convento di Santa Caterina di Prato aveva negato l'assoluzione a due monache per motivi assolutamente gravi e inusitati.

Non si meravigliò del fatto che nel convento ci fossero disordini che richiedessero il suo intervento. Frati e suore erano stati fin dall'inizio del suo vescovato - appena un anno prima - una vera e propria spina nel fianco. Rifiutavano di riconoscere l'autorità del vescovo; pretendevano di gestire da soli i propri conventi, accettavano solo l'autorità della corte papale e cercavano costantemente di lavare in casa i propri panni sporchi, con la connivenza di Roma.

Sfruttando senza scrupoli le prerogative accumulate negli anni del principato mediceo gli Ordini monastici avevano costituito un vero e proprio Stato nello Stato; nei conventi non si applicavano le leggi del Granducato e tutto era demandato alle corti ecclesiastiche e in ultima analisi a Roma. Che nella maggior parte dei casi incassava le cospicue rendite e lasciava correre tutto il resto.

Peraltro la popolazione monastica era - per importanza economica e dimensione demografica - una realtà importante nel piccolo mondo toscano. Importante ma parassitaria: i conventi erano pieni di frati e suore che erano tali non per vocazione ma per convenienza loro o delle famiglie che spesso li avevano destinati a quella vita fin da bambini, per liberarsene e non dover dividere eredità destinate ai primogeniti o per non dover pagare doti onerose, oppure semplicemente come ricovero dall'indigenza, dalla vedovanza o dalla disoccupazione.

Non che Scipione non avesse saputo fin dal principio come stavano le cose: ma un conto è sapere, un altro è vivere qualcosa sulla propria pelle, per necessità o per dovere. Nel giugno del 1780 quando era arrivato a Pistoia - giovane vescovo appena nominato - aveva preso subito a cuore la questione dei conventi, che si trascinava da fin troppi anni: il vescovo Ippoliti e prima di lui il vescovo Alamanni avevano infatti già cercato di risolverla, invano.

I due conventi pistoiesi di Santa Lucia e Santa Caterina e quello omonimo di Prato erano chiacchierati da decenni. Voci di continue irregolarità turbavano la quiete delle loro mura. I frati domenicani, che avevano anche la cura delle monache del loro stesso Ordine, si macchiavano di atti indecenti, dormendo nelle stesse celle con le loro consorelle, chiamandole "spose", passando le serate a veglia con loro, trasformando le celle in bische per il gioco d'azzardo e non di rado dando veri e propri intrattenimenti che vedevano ospiti anche molti componenti della nobiltà cittadina, con balli e perfino recite teatrali.

Già: recite teatrali, oltretutto di autori profani: a Prato quest'inverno per il Carnevale avevano messo in scena addirittura La Vedova Scaltra di Carlo Goldoni. E proprio nel convento di San Clemente, che sarebbe dovuto essere di stretta clausura! 

Per l'occasione erano arrivati frati da Pistoia, da Firenze e perfino da Siena, insieme a un nutrito drappello di nobili pratesi; tutti ad applaudire Suor Caterina che, spogliata le veste monacale, impersonava la bella e volitiva vedova Rosaura e che sembrava una commediante fatta e finita. D'altro canto l'intero spettacolo era stato recitato da tutti gli attori con tanta bravura da dar l'impressione che il convento fosse diventato la sede di una compagnia d'istrioni.  

Alcune battute furono in seguito riportate dagli spettatori: in particolare restò impresso l'elogio di Don Alvaro, che sembrava così adatto al singolare fascino di suor Caterina:

"Voi non sembrate italiana. La scorsa notte mi sorprendeste. Vidi sfavillare dai vostri occhi un raggio di luminosa maestà, che tutto mi empiè di venerazione, di rispetto e di maraviglia. Voi mi sembraste per l’appunto una delle nostre dame, le quali, malgrado la soggezione in cui le teniamo, hanno la facoltà d’abbattere ed atterrare co’ loro sguardi."²

Al termine della commedia furono raccolte le offerte tra gli spettatori per destinarle all'impresario, che altri non era che il Padre confessore. Egli, anziché rifuggire un simile onore, incitò apertamente gli astanti a versare il loro obolo che - affermò - sarebbe stato usato per "prossime rappresentazioni". 

Scipione sorrise tra sé amaramente e concluse che la situazione era ormai davvero insostenibile e fuori di ogni controllo. Istintivamente riepilogò dentro di sé anche quanto gli era stato rivelato di Suor Caterina, e che rendeva le trasgressioni dei due conventi pistoiesi ben poca cosa di fronte a quanto stava accadendo in quello di Prato.

Suor Caterina, al secolo Irene Bonamici, era una monaca cinquantenne di nobile famiglia che all'interno del convento suscitava un misto di ammirazione e timore. Il suo viso, un tempo di delicata bellezza, conservava ancora un'aura di fascino, con rughe sottili che incorniciavano i suoi penetranti occhi verdi, che sembravano capaci di scrutare l'anima di chi le stava di fronte. Anche la sua voce, modulata ma decisa, tradiva una cultura non comune e una naturale predisposizione alla dialettica.

Scipione l'aveva incontrata in una delle prime visite che aveva fatto a Santa Caterina. Si era subito reso conto che si trattava di una donna particolare, ben diversa da tutte le altre monache con cui era entrato in contatto: dietro la sua apparenza impeccabile si celava, però, un'anima tormentata; e in qualche misura l'inquietudine di questa donna lo aveva colpito.

Irene era stata costretta a prendere i voti da adolescente contro la sua volontà, sacrificando le sue aspirazioni, rinunciando a una vita che avrebbe voluto ben diversa. Da ragazza aveva coltivato una passione per la letteratura e per l'arte; anche adesso scriveva poesie e continuava a pensare a quella vita libera e avventurosa che non avrebbe mai potuto conoscere.

Suo malgrado si era ritrovata reclusa con tutti i suoi sogni tra le mura del convento, costretta a seguire una routine rigida e monotona. La sua intelligenza vivace e il suo spirito ardente erano stati soffocati dalle regole claustrali e dalla rigida disciplina.

Nonostante la sofferenza interiore, Irene non si era arresa completamente. Aveva trovato conforto nella lettura e nello studio, approfondendo la teologia, la filosofia e la letteratura. Ma la sua ricerca intellettuale l'aveva portata ben presto molto lontano dall'ortodossia. 

Attratta dalle idee rivoluzionarie di Giordano Bruno e dalla spiritualità interiore di Miguel de Molinos, il mistico spagnolo che aveva teorizzato la possibilità di raggiungere l'unione con Dio attraverso l'annientamento della volontà e l'abbandono passivo all'amore divino, Irene aveva elaborato una sua personale versione della religione, molto più vicina all'eresia che al credo che avrebbe dovuto professare.

Al centro della sua fede aveva posto l'amore, inteso non solo come sentimento spirituale, ma anche come atto fisico e concreto. Secondo Irene, l'amore fisico era una manifestazione della divinità, un modo per entrare in contatto con l'essenza divina presente in ogni essere umano. 

Ispirata dalle idee di Giordano Bruno sull'anima del mondo, ella sosteneva che l'amore permeava l'intera realtà, animando ogni creatura. La Chiesa, con la sua rigida moralità e la sua condanna del piacere, negava agli esseri umani la possibilità di vivere questa esperienza sublime. Irene, invece, invitava ad abbracciare l'amore in tutte le sue forme, come espressione della loro natura divina.

Quando doveva parlare alle consorelle usava spesso parabole e metafore per alludere al suo credo. Parlava dell'amore come di una danza sacra, un'unione mistica tra l'anima e il corpo, tra l'uomo e Dio. La sua voce vibrava di passione quando descriveva la gioia e l'estasi che derivavano dall'esperienza dell'amore fisico: diceva che il paradiso è qui, dentro tutti noi, che aspetta soltanto di essere scoperto.

Irene non restò sola a lungo nella sua ricerca spirituale. All'interno del convento, creò in breve un folto gruppo di seguaci con cui condivise le sue idee e mise in pratica le sue teorie sull'amore come manifestazione della divinità.

Tra queste adepte spiccava una giovane conversa, Clodesinda Spighi, di dodici anni più giovane di Irene. Clodesinda era anche lei di famiglia aristocratica; una ragazza sensibile e intelligente, attratta dalla spiritualità non ortodossa della monaca. Ben presto divenne la sua discepola più fedele, l'unica con cui Irene osava condividere i segreti più profondi del suo credo.

Clodesinda era attratta dalla forza e dalla sicurezza di Irene, che la trattava con gentilezza e rispetto, incoraggiandola a coltivare la sua intelligenza e il suo spirito critico. L'ammirazione per la sua mentore si trasformò presto in qualcosa di più profondo. Clodesinda era incantata dalle sue idee rivoluzionarie sulla fede e sull'amore, che le aprivano nuovi orizzonti e la facevano uscire dalla gabbia delle convenzioni.

Nelle lunghe conversazioni con Irene Clodesinda si sentiva finalmente libera di esprimere i suoi dubbi e le sue aspirazioni, trovando un'anima affine con cui condividere la sua ricerca di autenticità. L'attrazione fisica era solo una componente di questo sentimento complesso. Clodesinda desiderava ardentemente Irene, non solo come amante, ma anche come guida e maestra di vita. In breve la sua divenne una devozione totalizzante, un amore che la spinse a sfidare le regole del convento e a mettere a rischio la sua stessa salvezza.

Irene e Clodesinda presero l'abitudine di riunirsi con le altre adepte per discutere di filosofia, teologia e mistica. Pregavano insieme, meditavano e si dedicavano a pratiche spirituali che includevano l'amore fisico, vissuto come un atto sacro e di profonda comunione. I frati Domenicani, a cui era demandata la cura delle monache, tolleravano questa deriva in cambio di qualche dimostrazione formale di ortodossia. Irene e Clodesinda infatti negli anni "abiurarono" per ben tre volte il loro credo per poi continuare a praticarlo come se nulla fosse.

Scipione pensò che era ben strano che proprio nello stesso convento in cui era vissuta quella Santa Caterina de' Ricci che era stata da poco elevata agli onori degli altari un'altra donna seguisse un cammino apparentemente simile, ma con risultati così diametralmente opposti. Irene, eretica e ribelle, condannata dalla Chiesa. Santa Caterina, mistica e devota, elevata agli altari. 

Rifletté che santità ed eresia sono due concetti che si contrappongono, ma che in fondo non sono poi così distanti. Entrambe le donne cercavano Dio, entrambe seguivano un cammino: e pensò - scavando tra le proprie reminiscenze scolastiche - che "eresia" deriva proprio dal greco αἵρεσις "hairesis", che significa "scelta". La scelta di Irene era stata diversa da quella di Caterina nella misura in cui sono diversi due lati di uno stesso specchio.

E non capitava forse a volte anche a lui quella sensazione di straniamento? Come un sussurro di una voce appena intelligibile, come un brivido che improvvisamente lo pervadeva tutto e per un attimo faceva comparire l'interrogativo più importante, il quesito ultimo: quale sarà la scelta più giusta? Quella di Caterina o quella di Irene? Oppure entrambe?

Anche Lazzero Palli, il vicario che aveva mandato più volte a interrogare Irene, trascrivendo domande e risposte, aveva riferito che malgrado avesse dato fondo a tutta la sua capacità oratoria e dialettica non solo non era riuscito ad ottenere da lei una conversione, ma in diverse occasioni si era trovato stranamente senza parole, come affascinato di fronte alle tesi che lei sosteneva così ardentemente. Un passaggio in particolare di quell'interrogatorio gli era rimasto impresso  e continuava a ronzargli in testa: 

"In tutte le religioni ci possiamo salvare, ed esercitando erroneamente quello che diciamo impurità, era la vera purità: quella Iddio ci comanda e vuole noi pratichiamo, e senza della quale non vi è maniera di trovare Iddio, che è verità."³

Irene affermava che la vera purità è ciò che Dio ci comanda e vuole che pratichiamo, implicando che la salvezza non dipende dalla conformità a un dogma religioso specifico, ma piuttosto da una sincera ricerca della verità e da una vita condotta secondo principi morali e spirituali; e senza la vera purità, che è la ricerca della verità, non è possibile trovare Dio.

Verità, moralità, spiritualità e salvezza. Scipione pensò che se avesse dovuto condensare il proprio ministero in quattro parole non avrebbe saputo trovarne di migliori.

Per quanto le altre monache di Santa Caterina gli avessero dichiarato di abiurare a tutto quello che Sua Signoria voleva pur di essere lasciate in pace, la sola compagna che era rimasta fedele a Irene, Clodesinda, affermava senza vergogna di volerla seguire ovunque, e che non le importava nulla se avesse meritato l'Inferno, perché anche all'Inferno sarebbe stata felice se fosse stata insieme a lei.

Scipione tornò a pensare a ciò che doveva fare: doveva firmare la lettera destinata al Cardinale Andrea Corsini, visto che il nuovo Arcivescovo di Firenze non era ancora stato nominato. Doveva redigere anche una relazione a sua Altezza il Granduca Leopoldo per metterlo al corrente delle proprie decisioni. Avrebbe imposto la chiusura dei tre conventi domenicani di Pistoia e Prato, il trasferimento delle monache ad altre sedi e l'attribuzione alla Diocesi della cura dei conventi che restavano, togliendola ai Padri domenicani: a mali estremi dovevano seguire estremi rimedi.

Quanto a Irene e Clodesinda avrebbe sondato la disponibilità dei parenti a riaccoglierle in casa: ma a questo punto, con lo scandalo portato in piena luce, le famiglie avrebbero quasi certamente rifiutato di ospitare due eretiche peccatrici: nemmeno l'amore che si dichiaravano sarebbe bastato a salvarle. 

Ripensò alla conversazione che aveva avuto pochi giorni prima con il Cardinale Corsini. Avevano entrambi convenuto che con tutta probabilità alla fine l'unica soluzione sarebbe stata quella di confinare le due sciagurate nello Spedale di San Bonifazio a Firenze: il ricovero dei matti, dove avrebbero espiato la loro colpa rinunciando alla libertà e all'amore.

Camminando veloce, immerso nei pensieri, era ormai arrivato al suo studio nel Palazzo Vescovile. Il terremoto, per fortuna, sembrava non aver fatto danni: il cielo sulla piazza era azzurro, rigato solo dalle traiettorie delle rondini. Una lama di luce brillante cadeva proprio sulla scrivania, dove i fogli della lettera aspettavano la sua firma e il sigillo; e il bianco della carta spandeva la luce tutto intorno, come una sorta di aureola che incorniciava il documento.

Si fermò un attimo sulla porta, come interdetto; poi si fece animo, andò alla scrivania, si mise a sedere, prese penna e calamaio. Guardò la luce abbagliante sul foglio, e il contrasto che creava con il resto della stanza: buio e luce, santità ed eresia. Così distanti, così vicine: non era forse anche la santità una forma di follia? Ma quella di Caterina era salita sugli altari, quella di Irene sarebbe finita tra i pazzi di San Bonifazio.

Prese la penna, controllò la punta, la immerse nel calamaio e firmò. Ma inavvertitamente una goccia di inchiostro sfuggì, e andò a creare quella che sembrava proprio una piccola stella. 

Nera, sul foglio candido, nitida nella luce.

¹Lettera di Scipione de' Ricci a Leopoldo I, 1786
²La Vedova Scaltra, 
Atto II Scena II
³
Vita di Scipione de' Ricci, vescovo di Pistoia e Prato - Luis De Potter, 1825 - p. 244

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