domenica 28 febbraio 2016

"Meglio vivere un giorno da leone che cent'anni da pecora"

Le 20 lire del 1928
Quello riportato sulle 20 lire del 1928 è uno degli slogan più conosciuti del periodo fascista. 

Oltre che sulle monete lo si poteva leggere sulle mura delle case, insieme ad altre frasi egualmente memorabili che avrebbero dovuto indottrinare il popolo italiano nel Ventennio. Va da sé che anche questo, come molti altri aforismi dello stesso genere, venne attribuito alla prolifica penna mussoliniana: il Duce prima di essere tale era stato giornalista, polemista e scrittore, sostenere che la frase non fosse farina del suo sacco significava in qualche modo sminuirne la figura. E come ben sappiamo il diritto di critica non era uno dei punti forti della dittatura.

In realtà questo motto, ancora oggi periodicamente rispolverato per la sua indubbia forza evocativa, aveva una storia ben più lunga. Il fascismo l'aveva solo sfruttato per i propri fini, anche se è incontestabile che il retroterra culturale che queste parole suggeriscono era quello da cui la dittatura era sorta. 

Sembra che la frase sia stata vista per la prima volta sul muro di una casa crollata di Fagarè, paese in provincia di Treviso sulla riva del Piave, negli ultimi mesi della Grande Guerra. Si diceva che fosse stata scritta da qualche ignoto soldato prima della grande Battaglia del Solstizio, che nelle intenzioni degli austrotedeschi avrebbe dovuto risolvere il conflitto con l'Italia e che invece finì in una sconfitta epocale, preludio del crollo degli Imperi Centrali e della fine della guerra.
La casa di Fagarè
Chi l'aveva tracciata era quasi certamente caduto durante la battaglia, ma diversi anni dopo -  per la precisione nel 1931 - un'ex soldato, tale Bernardo Vicario, se ne attribuì se non la paternità almeno la realizzazione. L'aveva scritta sotto dettatura di un suo superiore, il maggiore Carlo Rigoli, poche ore prima dell'inizio del bombardamento, alle 19 del 14 giugno 1918, sulle mura della casa che ospitava il comando del suo battaglione. Non si era fatto vivo prima perché non la sentiva propria, visto che a dettarla era stato il maggiore morto poche ore dopo durante il combattimento.

In realtà c'erano stati anche altri che avevano cercato in precedenza di attribuirsene la paternità. Nella maggior parte dei casi si trattava di persone in malafede, ma almeno un'altra attribuzione plausibile venne fatta dal capitano Antonio Fazio, che in una lettera al Resto del Carlino del 2 luglio 1926 affermava categoricamente che a scrivere la frase fu il capitano Marchese, dell' 11° reparto d'Assalto, deceduto in battaglia pochi giorni dopo.

Alla fine fu l'avvocato Luigi Grancelli, deputato alla Camera durante la XXVII legislatura (1924-1929) a dare una spiegazione convincente circa la vera origine del motto. Si trattava di una frase scritta da Francesco Donato Guerrazzi in una lettera privata al giovane figlio Francesco Domenico, futuro celebre politico e scrittore risorgimentale, pubblicata dall'editore Bemporad nel 1901 negli atti di una conferenza tenuta dal poeta Giovanni Marradi, che fu il primo a ritrovarla e a citarla.

L'origine della frase non era quindi fascista né bellica, ma tutt'al più risorgimentale: e quello che sarebbe diventato uno dei cavalli di battaglia del fascismo era un motto concepito in una lettera privata scritta da un padre a un figlio quasi cent'anni prima. A testimonianza - e monito - di come gli effetti e le cause siano sempre molto meno evidenti di quello che sembrano e di come il presente affondi sempre le sue radici nel passato.

Bibliografia:
Aquile e Angeli, sul Grappa e sul Piave, Piero Tessaro, Zanetti Danilo Edizioni 1997
Chi l'ha detto?, Giuseppe Fumagalli, Hoepli 1983