giovedì 4 maggio 2023

I boschi della Calvana

Chiesino di Cavagliano, 1989
In questa mia foto del 1989 il Chiesino di Cavagliano, da poco restaurato grazie al contributo della Cassa di Risparmio di Prato, era circondato da una bassa vegetazione di cespugli intervallata da prati e pascoli, testimone delle attività agricole, silvicole e pastorali portate avanti nei secoli precedenti e abbandonate a partire dagli anni Cinquanta del Novecento a causa del boom industriale della piana pratese.

Alla fine degli anni Ottanta del Novecento insediamenti antichissimi e oggi disabitati come Cavagliano, Parmigno, Valibona erano ancora sostanzialmente in piedi, al centro di una fitta rete di relazioni - strade, sentieri, muri, campi, edifici, fonti - intrecciate con il territorio in cui erano situati, in un contesto tutt'altro che naturale perché modellato da secoli di lavoro dell'uomo.

Cavagliano nel 1988
Chi come me ha percorso in quegli anni i sentieri della Calvana è stato come il tenente John Dunbar del film "Balla con i Lupi", quando chiede e ottiene dal maggiore Fambrough di essere mandato in un lontano avamposto per "poter vedere la Frontiera prima che scompaia". In questo caso, però, a scomparire non era una frontiera ma una intera civiltà, quella dei nostri avi agricoltori e allevatori.

La dorsale della Calvana dalla Retaia a Cantagrilli nel 1988
Il territorio che noi attraversavamo era indubbiamente una nostra Frontiera, vicina nello spazio ma lontanissima nel tempo: quella della Calvana "antica" che lentamente stava scomparendo per lasciare spazio alla Calvana rinaturalizzata di oggi, che sta perdendo quella quasi completa assenza di alberi che la contraddistingueva e che le dava il nome.

I boschi, da sempre ridotti ai minimi termini, sono da decenni alla riscossa: come una marea verde risalgono vittoriosamente le pendici per sommergere di foglie e rami anche il crinale un tempo fatto solo di pascoli, e quello che appariva come un carattere peculiare si rivela solo un elemento di un paesaggio creato dall'uomo, molto meno stabile di quanto faccia credere la memoria nostra e dei nostri avi.

La Calvana nel 1971 (foto Nicola Becheri)
Perché nei secoli la Calvana ha cambiato costantemente il suo aspetto. Ci sono prove dirette e indirette di una costante trasformazione del territorio fatta dall'uomo fin dai tempi più remoti: c'è stata in passato una Calvana più o meno agricola, più o meno selvaggia, a seconda delle epoche e delle circostanze: in alcuni momenti possiamo anche dire che c'è stata una Calvana in qualche modo alternativa e competitiva anche con la più ricca realtà agricola della piana, soggetta più della montagna all'imperversare della malaria e alle scorrerie degli armati.

Ma la Calvana che noi vagheggiamo oggi, quella brulla e pascolativa dei nostri nonni e bisnonni, con le croci sui poggi più alti, con le siepi di biancospino impenetrabile e i cipressi radi che fanno da sentinella ai prati, con i sassi di scabra alberese che escono dal terreno come se fossero le ossa della Terra, emerge compiutamente - direi quasi "nasce" - solo dopo le riforme lorenesi della seconda metà del Settecento.

I Lorena, infatti, realizzarono una forte liberalizzazione in tutti i settori dell'economia toscana, che usciva da due secoli di stagnazione medicea, con dei provvedimenti che seppure necessari ebbero spesso effetti dirompenti e a volte inaspettati. Attuarono l'abolizione delle servitù di pascolo e di tutti i monopoli e privative in economia; imposero la liberalizzazione del taglio dei boschisoppressero gli enti ecclesiastici e laicali espropriando le grandi proprietà fondiarie che possedevanoabolirono e alienarono i beni collettivi, portando alla perdita degli usi civici e alla diffusione della proprietà borghese.
Poggio Camerella nel 1993, foto Fabrizio Tempesti
Soprattutto la liberalizzazione dei tagli boschivi, approvata per legge nel 1780, condusse ad una vasta distruzione del patrimonio forestale che in meno di un secolo ridusse i boschi ai minimi termini sia per incrementare la produzione di carbone vegetale (ancora nel secondo dopoguerra il 25% della produzione italiana di carbone di legna veniva dalla Toscana) che per guadagnare nuovi territori all’agricoltura, sotto la spinta di un'eccezionale pressione demografica e in assenza di uno sviluppo industriale che potesse assorbire l’aumento di manodopera sul mercato del lavoro. 

I dati sono molto eloquenti: la popolazione toscana quasi raddoppiò nel giro di ottanta anni, passando da 1.303.044 abitanti nel 1810 a 2.317.004 nel 1889, mentre il numero dei poderi fra il 1830 e il 1854 passò da 12.000 a 15.000; fra il 1830 e il 1860 la superficie dei coltivi passò da 649.000 a 722.000 ettari, con un aumento che solo in parte può essere collegato alle variazioni post unitarie delle circoscrizioni territoriali. 

Con l’unità d’Italia le terre coltivate in Toscana aumentarono ulteriormente, crescendo da 722.000 a 1.285.000 ettari fra il 1860 e il 1910, mentre i boschi diminuiscono ancora, scendendo da 572.000 ettari nel 1842 a 471.000 nel 1938. Solo all'inizio degli anni Venti del XX° secolo lo Stato cercò di invertire la tendenza effettuando estese opere di riforestazione (a base prevalentemente di conifere) e di sistemazione idraulica, che dovevano proseguire fino all’ultimo dopoguerra.
La dorsale verso Prato nel 1990, foto Fabrizio Tempesti
Solo dopo la seconda guerra mondiale avviene un profondo cambiamento che si rivela decisivo. La progressiva riduzione della produzione di legna da ardere e soprattutto del carbone vegetale che viene quasi completamente abbandonato, porta all'allungamento dei turni del ceduo nella coltivazione forestale. Tutto ciò, insieme all’introduzione di nuove fonti energetiche che sostituiscono rapidamente i combustibili vegetali, fa cambiare volto alle foreste modificandone in pochi decenni densità, struttura e composizione.
Poggio Castiglioni in due ortofoto: nel 1954 (sopra) e nel 2021 (sotto).
Evidente la diversa copertura forestale
I boschi tornano a crescere, ad essere ovunque protagonisti. Si passa dai 471.000 ettari del 1938 agli 847.000 ettari del 1990, pari al 37% della superficie regionale, per poi impennarsi fino a 1.086.000 ettari nel 2000 e 1.201.000 nel 2021,  ormai più della metà (il 52%) del territorio regionale, e con una popolazione di 3.676.000 abitanti, quasi il triplo che del primo Ottocento.

Si è dunque creata una Toscana "verde" che non si era mai vista da molti secoli. Contemporaneamente, l'interruzione di molte pratiche di coltivazione tradizionali ha causato la progressiva perdita di un prezioso patrimonio culturale che rappresenta l'identità delle popolazioni locali e un elemento chiave per la salvaguardia di un assetto paesaggistico di cui la Calvana dei nostri nonni è parte integrante. Quest'ultima, pur con tutte le sue criticità, rappresenta una parte del nostro vissuto, un elemento fondamentale della nostra identità.

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