Ciò che di me sapestenon fu che la scialbatura,
la tonaca che riveste
la nostra umana ventura.
Ed era forse oltre il telo
l'azzurro tranquillo;vietava il limpido cielo
solo un sigillo.0 vero c'era il falòtico
mutarsi della mia vita,
lo schiudersi d'un'ignita
zolla che mai vedrò.
Restò così questa scorza
la vera mia sostanza;
il fuoco che non si smorza
per me si chiamò: l'ignoranza.
Se un'ombra scorgete, non è
un'ombra - ma quella io sono.
Potessi spiccarla da me,offrirvela in dono.Eugenio Montale, Ossi di Seppia (1920-27)
I versi di Eugenio Montale mi hanno sempre affascinato per quel non so che di indeterminato e inesorabile che emanano: è come se fossero nati da un destino che si è fatto parola.
E delle poesie degli Ossi di Seppia una in particolare - questa - mi ha sempre colpito, perché in questi versi c'è la necessità di definire la vita non come addizione di fatti, eventi, esperienze, ma per sottrazione dall'esterno verso l'interno, dall'apparenza alla sostanza, dal visibile all'invisibile.
Scarnificando la vita fino ad arrivare alla natura stessa del nostro essere: un'ombra sfuggente o forse meno di un'ombra; ma solo quella davvero ci definisce, oltre ogni apparenza, oltre ogni illusione.
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