giovedì 9 dicembre 2021

La via più breve per Lòzzole

Panorama dal crinale che porta a Lòzzole
Nel mondo sovraffollato in cui ci troviamo oggi a vivere continuano ad esistere ampie zone di solitudine, spazi in cui l'uomo e le sue attività sembrano quasi del tutto assenti. La popolazione della Toscana è infatti per la maggior parte concentrata in una stretta fascia tra Firenze e Livorno; su poco più dell'8% del territorio vive il 70% dei toscani, mentre il resto della regione appare relativamente poco abitato. 

In molti ambiti, soprattutto in Appennino, sembra addirittura che la natura prevalga. I boschi coprono ogni cosa con una vasta, compatta e intricata coltre di alberi che si stende per valli e crinali fino all'orizzonte.  Quello che molti dei contemporanei non sanno è che questa situazione di prevalenza del bosco - quasi il 50% della Toscana è attualmente coperto di foreste - è una paradossale conseguenza dell'industrializzazione e della disponibilità di combustibili fossili e materie plastiche. 

In altre parole, un effetto della modernità; luoghi che un tempo erano popolati, coltivati, vissuti, oggi sono ridiventati selvatici perché i loro abitanti sono fuggiti da un'esistenza faticosa e misera - seppure più a contatto con la natura della nostra - per trasferirsi a lavorare e a vivere in città dove trovavano le case con i servizi,  la luce elettrica, le auto, nuove opportunità di lavoro e di reddito.

La chiesa di San Bartolomeo a Lòzzole
Lòzzole non è un paese. È una manciata di case sparse intorno a un lungo, ventoso e scabro crinale dell'Appennino Toscoromagnolo tra Mugello e Romagna Toscana che sale e scende intorno ai 1000 metri di altezza, attraversato da un valico chiamato "La Colla" su cui sorgeva uno dei castelli più muniti degli Ubaldini, signori medievali di questa zona, e su cui tutt'ora sta una grande chiesa - San Bartolomeo - ben visibile da lontano, monumento alla fede e al lavoro delle famiglie - il "popolo di Lòzzole" - che ebbero la ventura di vivere qui. 

Su queste pendici scoscese vissero per secoli centinaia di persone, sostentandosi con un po' di agricoltura, col taglio dei boschi e la coltivazione del castagno e con la pastorizia. Era un'economia di sussistenza, perché le famiglie erano quasi tutte mezzadre di grandi proprietari che possedevano ampi appezzamenti di terreni montani. Ciò nonostante, ancora alla fine della Seconda Guerra Mondiale a Lòzzole vivevano 22 famiglie, poco meno di 300 persone.

Il crinale che porta a Lòzzole, tra il bacino del Senio e quello del Lamone
Malgrado le distanze 
in termini attuali non siano grandi, questa comunità era davvero appartata, anche rispetto ai centri urbani principali di queste zone. Per raggiungere Marradi o Palazzolo sul Senio dai punti più lontani del comprensorio di Lòzzole ci potevano volere da due a tre ore con tempo buono; ovviamente a piedi, perché nessun altro mezzo di locomozione poteva percorrere le scoscese mulattiere che raggiungevano le case. Se poi il tempo non era favorevole - d'inverno la zona restava a volte sepolta per mesi dalla neve - Lòzzole restava completamente isolata.

Il focolare a casa Le Spiagge, oggi
C'è un avvenimento, riportato dalle cronache ottocentesche, che dà in pieno la misura di quanto Lòzzole fosse remota; e indirettamente racconta di quanto fosse dura la vita per chi aveva la sfortuna di esserci nato. 
Era il 2 gennaio del 1868 quando, dopo un’abbondante nevicata che si era protratta per diversi giorni, il garzone di una famiglia che abitava a Cà del  Cigno, un casale a 900 metri di quota alle pendici del monte Archetta, fu mandato a fare provvista d’acqua ad una fonte vicino alle Spiagge. Non vedendolo tornare, il capo famiglia uscì, ma anch’egli tardava a rientrare. Uscì anche la moglie, ma non tornò. In casa rimasero tre bambini, rispettivamente di 5, 3 e 2 anni, e un'asina.

Cà del Cigno sta dall'altra parte del vallone delle Fogare, solo a qualche chilometro in linea d'aria dalla chiesa di Lòzzole. Diversi giorni dopo, quando i compaesani, allarmati dal fatto di non vedere più fumare il camino, decisero di organizzare i soccorsi e con gran fatica raggiunsero la casa scavandosi la strada nella neve, trovarono i tre fratellini morti di freddo, stretti in un ultimo disperato abbraccio; solo la ciuca era ancora viva, sopravvissuta cibandosi dell’impagliatura delle sedie e della farina di marroni raccolta in una madia. I genitori ed il garzone furono invece ritrovati, sepolti dalla neve, solo il giorno 21.

Canonica e chiesa di San Bartolomeo
Oggi una vita come quella vissuta da queste famiglie del passato sembra quasi inimmaginabile: alla mercé dei capricci delle stagioni e della natura, chiusi in casa per lunghi mesi nel gelido inverno, senza luce né acqua corrente, lontani da tutto e da tutti, occupati soprattutto a “governare” il bestiame; impegnati quasi solo a sopravvivere a una natura madre e matrigna insieme.

Ma Lòzzole fu in passato anche un luogo di relativa ricchezza, se non altro in confronto alle zone circostanti. Dal valico della Colla, infatti, transitò per diversi secoli una delle molte "vie del grano e del Sale" che dalle saline di Cervia portava alle città del Centro Italia. E proprio i diritti di transito riscossi sulle merci che passavano dal valico resero possibile nel 1782 la ricostruzione della chiesa di San Bartolomeo, che venne realizzata nella forma attuale sui resti di un oratorio preesistente; fu anche dotata di canonica e casa colonica di servizio. La canonica ospitò dalla fine dell'Ottocento per vari decenni una piccola scuola elementare destinata ai bambini del circondario.

L'interno della chiesa di San Bartolomeo
Tutti questi edifici si degradarono in pochi decenni con la decisione degli abitanti di trasferirsi al piano. La popolazione di Lòzzole passò infatti dai 300 abitanti del 1946 ai 20 del 1956 fino al quasi completo abbandono dei nostri giorni. Un'inversione di tendenza si è avuta pochi anni fa, quando il parroco faentino Don Antonio Samorì, che già aveva condotto e terminato con l’aiuto di tanti volontari il recupero dell'Eremo di Gamogna ai primi anni Duemila, decise di ristrutturare anche il borghetto di Lòzzole, partendo proprio dalla Chiesa di San Bartolomeo e dalla sua canonica, entrambe in avanzato stato di deperimento.

Madonna della Carezza, Giorgio Palli, 2012
Don Samorì negli anni è riuscito a riportare la chiesa di Lòzzole all’antico splendore; e il 12 agosto 2012, con una cerimonia alla quale hanno partecipato anche il sindaco del Comune di Palazzuolo sul Senio con una folta delegazione di concittadini insieme al Cardinale di Firenze Betori,  c'è stata la riapertura ufficiale di San Bartolomeo.

Molti sono i percorsi che portano alla Colla e alla chiesa: uno solo è una strada, a fondo naturale e difficilmente percorribile da auto che non siano a trazione integrale, che sale a Lòzzole dalla strada provinciale 477 in località Acquadalto. Tutti, invece, sono itinerari piuttosto lunghi; tutti tranne uno, che dal passo della Sambuca aggira il monte Carzolano e transita dal passo dei Ronchi di Berna per seguire il pietroso e panoramico crinale spartiacque che separa il bacino del Senio da quello del Lamone, fino a raggiungere il passo della Colla.

E proprio questa è la "via più breve per Lòzzole" che ho percorso e che ho apprezzato, in una passeggiata che mi ha fatto immergere in un passato prossimo ma allo stesso tempo incredibilmente remoto. Potete anche voi seguirmi,  scaricando il tracciato gps da questo link. Spero che vi darà le stesse emozioni che ha dato a me: buona strada!

martedì 30 novembre 2021

Luigi Gherardi Del Turco, marchese fotografo

Luigi Gherardi ai primi del Novecento
Il marchese Luigi Gherardi Del Turco è stato certamente una persona interessante. Già dal cognome, che da solo rappresenta una piccola storia: si chiamava infatti - per esteso -  Luigi Gherardi Piccolomini D'Aragona Dazzi Del Turco, un accumulo che riflette la capacità di questa famiglia di intrecciarsi nei secoli con altre famiglie importanti, acquisendone beni e titoli: nel 1679 fu infatti aggiunto all'originale Gherardi il doppio cognome Piccolomini D'Aragona con il matrimonio tra Giovan Battista e Clarice Malaspina Piccolomini, nel 1839 per eredità si sommò il cognome Dazzi Del Turco. 
Blasone Gherardi, croce spinata in azzurro accantonata a quattro stelle a otto punte
I Gherardi sono un casato di patrizi fiorentini le cui ramificazioni genealogiche si spingono indietro fino al XIV secolo e che nei secoli ha dato Priori e Gonfalonieri alla Repubblica Fiorentina, Senatori al Principato mediceo, Cavalieri di Malta, vescovi, prelati, ambasciatori e anche artisti: letterati, pittori, musicisti e perfino uno stimato autore seicentesco di ricette di cucina raccolte in un volume ancora oggi consultabile in Rete, l'Epulario.
Contadine a Filettole durante la vendemmia
Luigi nasce nel 1880: r
esidente a Firenze, trascorre molto tempo - soprattutto in primavera ed estate - nella fattoria sulle colline di Filettole di Prato che era proprietà della famiglia fin dal 1604, seguendone con interesse e competenza le attività agricole.
Alla fontana
La fotografia verso la fine dell'Ottocento aveva ormai superato i tempi pionieristici della scoperta e delle prime applicazioni pratiche; e col progresso tecnico, con la standardizzazione e la semplificazione delle tecniche di sviluppo e stampa delle immagini, l'attività di fotografo si era lentamente trasformata da professione per pochi anche in un passatempo per dilettanti curiosi e benestanti. 
Disponendo l'uva sui "graticci" per fare il vinsanto
Non dobbiamo pensare che fotografare all'epoca fosse una cosa semplice e alla portata di tutti. L'immagine fotografica era un prodotto artigianale che nasceva da una mescolanza di tecnica e di pratica "spicciola". Le macchine fotografiche - anche quelle che oggi definiremmo "amatoriali" perché più facili da usare - presupponevano comunque nell'uso una certa abilità, erano pesanti, ingombranti e poco maneggevoli. I tempi necessari a impressionare le pellicole erano lunghi e per ottenere risultati degni di nota era pressoché indispensabile allestire un proprio laboratorio.
Rientro dalla vendemmia
Luigi era giovane, benestante e appassionato del nuovo mezzo e si impegnò per superare gli ostacoli, allestendo nella fattoria un attrezzato laboratorio fotografico e abbonandosi alle prime riviste del settore - principalmente francesi - per imparare meglio la tecnica. Soprattutto si confrontò con altri cultori, dilettanti o professionisti dell'arte della fotografia, fino a raggiungere risultati molto validi.
Il trasporto dei sacchi di grano dopo la mietitura
Inizia a fotografare intorno al 1900, riprendendo soprattutto le attività e il lavoro dei contadini; successivamente anche la vita cittadina e l’ambiente dell’alta società alla quale appartiene: feste da ballo, cerimonie, gite, concorsi ippici. Negli anni Trenta fa parte dell’Associazione Fotografica Pratese dove frequenta fra gli altri Arturo Ristori, Diego Spagnesi, Piero Corazzesi. Continua a fotografare fino alla morte, avvenuta nel 1946.
Sull'aia
Nei suoi scatti si coglie un'emancipazione dalla fotografia intesa come emula della pittura, nel tentativo spesso riuscito di documentare la realtà che lo circondava, con scatti che ancora oggi sorprendono per la loro freschezza.
Rientro dai campi
Le foto che accompagnano questo articolo sono state da me ricolorate digitalmente: fanno parte di un monumentale album che racchiude le fotografie premiate in due concorsi indetti dal "Comizio Agrario" di Firenze negli anni 1913-14. Ritraggono i contadini e le contadine dei poderi della Fattoria di Filettole, ancora oggi della famiglia Gherardi.
Cogliendo l'uva

giovedì 4 novembre 2021

Due prediche sull'Inferno di James Joyce tradotte da Cesare Pavese

James Joyce è stato uno dei più importanti letterati del Novecento. Non ha scritto moltissimo: in tutta la sua vita ha pubblicato solo tre romanzi, una raccolta di sedici racconti, tre raccolte di poesie e un'opera teatrale. I due brani che ho estrapolato in questo mio articolo vengono dal suo primo romanzo pubblicato a New York nel 1916 dopo una lunga gestazione iniziata nel 1904, intitolato in originale Ritratto dell'artista da giovane, che nel 1933 il traduttore Cesare Pavese volle cambiare - prendendo spunto dal nome del protagonista - in Dedalus.

Dedalus è un romanzo "di formazione", autobiografico, che racconta la presa di coscienza del protagonista dall'infanzia agli anni del collegio, fino alla decisione di abbandonare l'Irlanda. Il protagonista è Stephen Dedalus, l'alter ego di Joyce dal duplice nome che richiama da un lato la tradizione cristiana - Santo Stefano è il primo cristiano che ha sacrificato la propria vita per testimoniare la propria fede in Cristo e per la diffusione del Vangelo - e dall'altro il pagano Dedalo, architetto, scultore, inventore, costruttore del Labirinto che imprigionò il Minotauro. 

Entrambi - ciascuno a suo modo - personaggi mitologici: e proprio per questo si tratta di un nome programmatico, che racchiude l'evoluzione dell'autore, da studente ad Artista, da conformista a rivoluzionario, che per sfuggire a una società opprimente sceglie la strada odisseica del silenzio, dell’esilio e dell’astuzia.

Il libro può essere idealmente suddiviso in cinque parti, scandite da differenze stilistiche che evolvono in modo via via più complesso, in modo da mimare stilisticamente la presa di coscienza che l'Autore ha di sé. Il punto di svolta - o se vogliamo, il punto di rottura - è il ritiro spirituale a cui Stephen partecipa, e durante il quale ascolta due prediche sull'Inferno e l'Eternità che ben rappresentano il tumulto interiore del protagonista.

Le due lunghe omelie del Padre gesuita condannano senza appello tutte le passioni carnali dell’uomo, per ritrovare, secondo la sua visione, un più profondo senso della realtà: ma le immagini infernali, insieme così terribili e così banali, sono impietosamente riportate da Joyce, a rimarcare da quali prove la sua coscienza abbia dovuto passare prima di potersi liberare dalle catene del conformismo.

In tutto questo, le prediche del Padre gesuita, tradotte da Cesare Pavese, restano un esempio di grande letteratura, una scrittura di assoluta maestria tradotta con indiscutibile bravura. Un Artista, tradotto da un Artista, crea sempre un risultato sorprendente: e proprio per questo ve lo voglio riproporre, qui.


Prima predica
"L'inferno ha spalancato l'anima e aperto la sua gola smisuratamente": parole queste, miei cari giovani fratelli in Gesù Cristo, del libro di Isaia, capitolo quinto, verso quattordicesimo. Nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Amen.

Adamo ed Eva, miei cari ragazzi, furono, come sapete, i nostri progenitori e ricorderete che Dio li creò allo scopo che i seggi del paradiso, lasciati vuoti alla caduta di Lucifero e dei suoi angeli ribelli, si tornassero a riempire. Si dice che Lucifero fosse un figlio del mattino, un angelo radioso e potente; eppure cadde: cadde e caddero con lui una terza parte delle schiere celesti: cadde e venne precipitato dell'inferno, insieme coi suoi angeli ribelli.

James Joyce da giovane  

Quale che fosse il suo peccato non sappiamo. I teologi pensano che fosse il peccato di orgoglio, il pensiero colpevole concepito per un attimo: non serviam: non servirò. Quest'attimo fu la sua rovina. Egli offese la maestà di Dio col pensiero colpevole di un attimo e Dio per sempre lo cacciò dal cielo nell'inferno.

Adamo ed Eva furono allora creati da Dio e collocati nell'Eden, nella pianura di Damasco, in quello stupendo giardino risplendente di sole e di colori, pieno a traboccare di una vegetazione lussureggiante. La terra fruttuosa dava loro della sua abbondanza; animali e uccelli erano loro docili servi; non conoscevano i mali che affliggono la nostra carne, malattie, povertà e morte; tutto ciò che un Dio grande e generoso poteva fare per essi, era stato fatto. Ma c'era una condizione imposta loro da Dio: l'obbedienza alla Sua parola. Non dovevano mangiare il frutto dell'albero proibito.

Cesare Pavese negli anni Trenta del Novecento
Ahimè, cari ragazzi, anch'essi caddero. Il demonio, l'angelo risplendente, il figlio del mattino di un tempo, ed ora un sozzo demonio, venne sotto la forma di un serpente, il più astuto di tutti gli animali della campagna. Li invidiava, Egli, il grande caduto, non poteva reggere al pensiero che l'uomo, un essere di fango, dovesse possedere il retaggio che lui col suo peccato aveva perduto per sempre. Se ne venne dalla donna, il vaso più debole, e le versò il veleno della sua eloquenza in un orecchio, promettendole - oh la bestemmia di quella promessa! - che se lei e Adamo mangiavano del frutto proibito, sarebbero diventati come dèi, anzi come Iddio stesso.

Eva cedette alle lusinghe dell'arcitentatore. Mangiò il pomo e ne diede ad Adamo, che non ebbe il coraggio morale di resisterle. La lingua velenosa di Satana aveva compiuto la sua opera. Essi caddero. E allora nel giardino si sentì la voce di Dio, che chiamava alla resa dei conti la Sua creatura. l'uomo: e Michele, il principe delle schiere celesti, con una spada di fiamma nella mano, apparve dinanzi alla coppia colpevole e la cacciò dall'Eden nel mondo, in questo mondo di mali e di lotte, di crudeltà e d'inganni, di fatiche e di privazioni, a guadagnarsi il pane col sudore della fronte.

Inferno, Dieric Bouts 1450
Ma anche allora, quanto non fu misericordioso Iddio! Ebbe pietà dei nostri poveri genitori decaduti e promise che a tempo opportuno avrebbe mandato dal cielo Uno che li avrebbe redenti, che li avrebbe rifatti figli di Dio ed eredi del regno dei cieli: e quest'Uno, questo Redentore dell'uomo caduto, sarebbe stato il Figlio unigenito di Dio, la Seconda Persona della Santissima Trinità, il Verbo Eterno.

Egli venne. Nacque da una vergine pura, Maria, la vergine madre. Nacque in una povera stalla della Giudea e visse da umile falegname per trent'anni, finché non fu venuta l'ora della sua missione. E allora, pieno d'amore per gli uomini, uscì e chiamò gli uomini a sentire la nuova parola di Dio. E gli uomini l'ascoltarono? Sì, l'ascoltarono, ma non vollero sentirlo. Venne preso e legato come un volgare delinquente, beffeggiato come un pazzo, posposto a un pubblico ladrone, flagellato con cinquemila sferzate, incoronato di una corona di spine, cacciato per le vie dalla plebaglia ebraica e dalla soldatesca romana, spogliato dei suoi abiti e appeso su un patibolo e Gli trapassarono il fianco con una lancia e dal corpo ferito di Nostro Signore usciva senza tregua acqua e sangue.

Punizione degli accidiosi, Taddeo di Bartolo, 1393

Eppure anche allora, in quel momento di suprema angoscia, il Nostro Redentore Misericordioso ebbe pietà degli uomini. Fu allora, sulla collina del Calvario, che Egli fondò la santa Chiesa cattolica contro cui, come promise, le porte dell'inferno non prevarranno. Egli la fondò sulla rupe dei secoli e la dotò della Sua grazia, con sacramenti e sacrificio, e promise che, se gli uomini avessero ubbidito alla parola della Sua Chiesa, sarebbero ancora entrati nella vita eterna, ma se invece, dopo tutto quanto era stato fatto per loro, persistevano ancora nella loro malvagità, li avrebbe attesi un'eternità di tormenti: l'inferno.

Ora, cerchiamo un momento di rappresentarci, per quanto possiamo, la natura di quella dimora dei dannati che la giustizia di un Dio offeso ha creato dal nulla per il castigo eterno dei peccatori. L'inferno è una prigione angusta, oscura e fetida, una dimora di démoni e anime perdute, piena di fuoco e di fumo. L'angustia di questo carcere è voluta espressamente da Dio  per punire gente che ha rifiutato di stare nelle Sue leggi. Nelle carceri terrene, il disgraziato prigioniero ha almeno qualche libertà di movimento, non fosse che entro i limiti delle quattro pareti della cella o nel cortile tetro della prigione.

Non così all'inferno. Laggiù, causa il gran numero dei dannati, i prigionieri sono ammucchiati l'uno sull'altro nell'orribile carcere, di cui si dice che le pareti siano spesse quattromila miglia: e i dannati sono così completamente legati e impotenti che, come un santo beato, sant'Anselmo, scrive nel suo libro sulle similitudini, non è loro nemmeno possibile di levarsi dall'occhio un verme che lo roda.

Caduta degli angeli ribelli, Andrea Commodi, 1612

Essi giacciono avvolti nelle tenebre. Poiché, ricordàtelo, il fuoco dell'inferno non dà luce. Come, al comando di Dio, il fuoco della fornace in Babilonia perse il calore ma non la luce, così al comando di Dio il fuoco dell'inferno, mentre conserva l'intensità del calore, brucia eternamente nelle tenebre. È una bufera di tenebre senza fine, fiamme buie e fumo buio di zolfo rovente, in cui i corpi sono ammucchiati uno sull'altro, senza nemmeno un filo d'aria. Di tutte le piaghe con cui fu colpita la terra dei Faraoni una piaga soltanto, quella delle tenebre, venne chiamata orrenda. Quale nome dunque dovremo dare alle tenebre dell'inferno che han da durare non tre giorni soltanto, ma per tutta l'eternità?

L'orrore di questa angusta e tenebrosa prigione è accresciuto dal suo tremendo fetore. Tutta l'immondizia del mondo, tutti i rifiuti e le fecce del mondo coleranno, si dice, in quel luogo come in un'immensa cloaca puzzolente, quando la conflagrazione terribile dell'ultimo giorno avrà purgato il mondo. Lo zolfo, inoltre, che vi brucia in quantità così prodigiosa, riempie tutto l'inferno del suo fetore intollerabile; e i corpi stessi dei dannati esalano un odore così pestilenziale che, come dice san Bonaventura, uno solo di essi basterebbe a infettare il mondo intero. Anche l'aria del nostro mondo, questo elemento purissimo, si corrompe e si fa irrespirabile quando stia per molto tempo rinchiusa. Considerate dunque quale dev'essere la corruzione dell'aria infernale.

Immaginate un cadavere immondo e putrido che sia stato a marcire e decomporsi nella tomba, una massa gelatinosa di colante corruzione. Immaginate un cadavere simile fatto preda alle fiamme, divorato dal fuoco dello zolfo ardente, sì che sparga una densa e soffocante fumea di repellente e nauseabonda decomposizione. E poi immaginate questo fetore rivoltante moltiplicato milioni e milioni di volte per i milioni e milioni di carcasse fetide ammassate nella tenebra puzzolente, un enorme fungaccio umano marcito. Immaginate tutto questo e avrete un'idea dell'orrendo fetore dell'inferno.

Caduta degli angeli ribelli, Agostino Fasolato, 1750
Ma questo fetore, per quanto orribile, non è il tormento fisico maggiore a cui sono soggetti i dannati. Il tormento del fuoco è il massimo a cui tiranno abbia mai assoggettato i propri simili. Mettete per un istante il dito sulla fiamma di una candela e sentirete che cos'è il dolore del fuoco. Ma il nostro fuoco terreno venne creato da Dio a beneficio dell'uomo, per mantenere in lui la scintilla della vita e per aiutarlo nelle utili arti, laddove il fuoco dell'inferno è d'una specie ben diversa e venne creato da Dio per torturare e punire il peccatore impenitente. Inoltre il nostro fuoco terreno ha la proprietà di distruggere più o meno rapidamente, a seconda che l'oggetto a cui s'attacca è più o meno combustibile, tanto che l'ingegno umano è persino riuscito a inventare preparati chimici per arrestarne o frustrarne l'azione.

Ma la pietra sulfurea che brucia nell'inferno è una sostanza particolarmente destinata a bruciare e bruciare con una violenza indicibile, per sempre. E ancora, il nostro fuoco terreno distrugge mentre brucia, in modo che tanto è più intenso tanto minore è la sua durata; ma il fuoco dell'inferno possiede la proprietà di preservare ciò che brucia e, sebbene infuri con incredibile intensità, questa sua furia è eterna.

Il nostro fuoco terreno, ancora, per furibondo o diffuso ch'esso sia, è sempre di un'estensione limitata; ma il lago di fuoco dell'inferno è senza limiti, senza rive e senza fondo. Si tramanda che il diavolo stesso, interrogato al riguardo da un certo soldato, fu costretto a confessare che un'intera montagna, gettata nell'oceano ardente dell'inferno, verrebbe divorata in un attimo come un pezzetto di cera. E questo fuoco terribile non tormenterà soltanto dall'esterno i corpi dei dannati, ma ogni anima perduta sarà in se stessa un inferno, infuriandole quel fuoco sfrenato fin dentro le viscere. Oh com'è tremenda la sorte di quegli esseri miserabili! Il sangue si agita e bolle nelle vene, il cervello bolle nel cranio, il cuore arde e scoppia nel petto, le budella sono una massa rovente di polpa accesa e gli occhi molli fiammeggiano come globi in fusione.

Angeli e demoni, Maurits Cornelis Escher, 1960
E pure tutto quello che ho detto sulla violenza, la natura e l'immensità di questo fuoco è meno che nulla, quando lo si confronti con la sua intensità, una intensità che gli è data in quanto esso è lo strumento scelto dalla divina sapienza per il castigo insieme dell'anima e del corpo. È un fuoco che procede direttamente dallo sdegno di Dio, operando non di propria iniziativa, ma come lo strumento della vendetta divina. Come le acque del battesimo detergono l'anima insieme col corpo, così i fuochi del castigo torturano lo spirito insieme con la carne.

Ogni senso della carne viene torturato e, insieme, ogni facoltà dell'anima: gli occhi dalla estrema impenetrabilità delle tenebre, il naso dagli odori insopportabili, le orecchie dalle strida, dalle urla e dalle imprecazioni, il gusto dalla materia immonda, dall'infetta corruzione e dalle innominabili e soffocanti immondizie, il tatto da pungoli e spunzoni roventi, dalle lingue crudeli delle fiamme. E attraverso i diversi tormenti dei sensi, l'anima immortale viene eternamente torturata nella sua stessa essenza, in mezzo a leghe su leghe di fiamme ardenti accese nell'abisso della maestà offesa del Dio Onnipotente e avvivate a una violenza eterna e sempre crescente dall'ira divina.
Tentazione di Sant'Antonio, Joos van Craesbeeck, 1650 

Considerate finalmente che il tormento di questa infernale prigione è accresciuto dalla stessa compagnia dei dannati. Sulla terra una cattiva compagnia è tanto perniciosa che le piante si ritraggono, come per istinto, dalla vicinanza di tutto ciò che per loro è mortale o dannoso. Nell'inferno ogni legge è capovolta: non ci sono pensieri di famiglia o di patria, di legami, di parentela. I dannati si urlano e si vociferano addosso, mentre ogni loro tortura o furore s'intensifica per la presenza di esseri torturati e infuriati come essi. Ogni senso d'umanità si dimentica. Le strida dei peccatori che soffrono riempiono gli angoli più remoti di bestemmie contro Dio, di odio per i compagni di pena e di maledizioni contro le anime dei complici nel peccato. 

Nei tempi antichi, per punire il parricida, l'uomo che aveva levato la mano assassina contro il padre, si usava gettarlo negli abissi del mare in un sacco dove erano un gallo, una scimmia e una serpe. L'intenzione dei legislatori che stabilirono una legge simile, che nei nostri tempi sembra crudele, era di punire il reo con la compagnia di animali inveleniti e feroci. Ma che cos'è la furia di tali bruti senza parola, in confronto con la furia di esecrazione che scoppia dalle labbra screpolate e dalle gole doloranti dei dannati all'inferno, quand'essi nei loro compagni di sventura vedono quelli che li hanno aiutati e istigati nel peccato, quelli che con le parole hanno gettato nelle loro menti il primo seme di cattivi pensieri e di una cattiva vita, e che con allusioni immodeste li hanno condotti al peccato e con gli occhi li hanno tentati e sedotti dal sentiero della virtù? Essi si gettano su questi complici e li vituperano e li maledicono. Ma son privi d'aiuto e di speranza: è troppo tardi ormai per pentirsi. 

La visione di Tungdal, Hieronymus Bosch, 1500
E per ultimo considerate quale spaventevole tormento dev'essere per le anime di quei dannati, tentatori e tentati tutti insieme, la compagnia dei demòni Questi demòni tormenteranno i dannati in due modi, colla loro presenza e coi loro rimproveri. Noi non possiamo avere idea del come siano orribili questi demòni. Santa Caterina da Siena vide una volta un demonio e lasciò scritto che piuttosto di rivedere, anche per un solo istante, un mostro così spaventevole, avrebbe preferito di camminare tutta la vita che ancora le restava sopra un sentiero di carboni ardenti. Questi demòni, che un tempo erano angeli bellissimi, sono diventati tanto brutti e ripugnanti quanto una volta erano belli.

Essi beffano e pigliano in giro le anime perdute che hanno trascinato nella rovina. Sono essi, i sozzi demòni, che nell'inferno fungono da voci della coscienza. Perché hai peccato? Perché hai prestato orecchio alle tentazioni degli amici? Perché hai abbandonato le tue pratiche devote e le tue opere buone? Perché non hai fuggito le occasioni del peccato? Perché non hai lasciato quel cattivo compagno? Perché non hai smesso quella sconcia abitudine, quell'abitudine impudica? Perché non hai ascoltato i consigli del tuo confessore? Perché, anche dopo la prima o la seconda o la terza o la quarta o la centesima caduta, non ti sei pentito della tua vita cattiva e non ti sei rivolto a Dio che attendeva solo il tuo pentimento per assolverti dai tuoi peccati? 

Inferno, Hieronymus Bosch, 1490
Ora il tempo dei pentimenti è passato. Il tempo è, il tempo era, ma il tempo non sarà mai più! C'era un tempo di peccare in segreto, di indulgere a quella tua accidia e a quell'orgoglio, di desiderare l'illecito, di cedere alle tentazioni della tua natura inferiore, di vivere come le bestie dei campi, anzi peggio delle bestie dei campi, perché queste almeno non sono che bruti e non hanno la ragione a guidarle: il tempo era, ma il tempo non sarà più.

Dio ti ha parlato con tanti voci diverse, ma tu non hai voluto sentirlo. Non hai voluto schiacciare quell'orgoglio e quell'ira nel tuo cuore, non hai voluto restituire quei beni male acquistati, non hai voluto ubbidire ai precetti della tua santa Chiesa né osservare i tuoi doveri religiosi, non hai voluto abbandonare quei malvagi compagni, non hai voluto fuggire quelle tentazioni piene di pericoli. Tali sono le parole di quei diabolici aguzzini, parole di beffa e di rimbrotto, parole di odio e di disgusto. 

Plane Filling II, Maurits Cornelis Escher, 1957  

Di disgusto, sì! Poiché persino essi, i demòni, quando peccarono, peccarono di quel peccato che solo era compatibile con le loro angeliche nature, una ribellione dell'intelletto: ed essi, persino, i sozzi demòni, non possono fare a meno di rivoltarsi disgustati dallo spettacolo di quegli innominabili peccati coi quali l'uomo abietto oltraggia e insozza il tempio dello Spirito Santo, insozza e corrompe se stesso.

O miei cari giovani fratelli in Cristo, che non sia mai la nostra sorte udire simili parole! Che non sia mai la nostra sorte, vi ripeto! Prego Dio con tutto il fervore, che nell'ultimo giorno della tremenda resa dei conti non una sola anima di tutte quelle che son oggi in questa cappella si trovi tra quegli esseri miserabili a cui il Grande Giudice ordinerà di partirsi dai suoi occhi; che nessuno di noi possa mai sentirsi risuonare nelle orecchie la paurosa sentenza di condanna: "Via da me, maledetti, nel fuoco eterno che fu preparato per il demonio e i suoi angeli!"

Seconda predica
"Sono respinto dalla vista dei tuoi occhi": parole, queste, miei giovani fratelli in Cristo, del Libro dei Salmi, trentesimo capitolo, verso ventitreesimo. Nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Amen. 

Stamattina ci siamo sforzati, nelle nostre riflessioni sull'inferno, di fare ciò che il nostro santo fondatore chiama, nel suo libro degli esercizi spirituali, la composizione del luogo. Ci siamo cioè sforzati di rappresentarci coi sensi della mente, in fantasia, il carattere materiale di quel luogo spaventoso e dei tormenti fisici sofferti da tutti coloro che ci stanno. Stasera considereremo per qualche minuto la natura dei tormenti spirituali dell'inferno.

Dovete ricordare che il peccato è una doppia scelleratezza. È un'abietta concessione agli stimoli della nostra natura corrotta, agli istinti più bassi, a tutto ciò che è impuro e bestiale ; ed è anche una trasgressione ai consigli della nostra natura più alta, a tutto ciò che è puro e santo, alla santità stessa di Dio. Per questo il peccato mortale è punito nell'inferno con due diversi modi di castigo, quello fisico e quello spirituale.

Il volto della guerra, Salvador Dalì, 1940
Ora, di tutte queste pene spirituali, di gran lunga maggiore è la pena della perdita, tanto grande che in se stessa è un tormento maggiore di ogni altro. San Tommaso, il massimo dottore della Chiesa, colui che chiamano il dottore angelico, dice che la dannazione peggiore consiste in questo, che l'intelletto dell'uomo è totalmente privato della luce divina e la sua affezione ostinatamente respinta dalla bontà di Dio.

Ricordatevi che Dio è un essere infinitamente buono e perciò la perdita di un tale essere sarà una perdita infinitamente dolorosa. In questa vita noi non abbiamo un'idea molto chiara di ciò che deve essere una perdita simile, ma i dannati dell'inferno, per loro maggiore tormento, hanno una piena comprensione di ciò che hanno perduto e comprendono che l'hanno perduto per i loro stessi peccati e che l'hanno perduto per sempre. Nell'istante preciso della morte, gli impacci della carne cadono infranti e l'anima vola immediatamente verso Dio come verso il centro della sua esistenza.

Ricordate, miei cari ragazzi, che le nostre anime anelano a ricongiungersi con Dio. Noi veniamo da Dio, viviamo in Dio, apparteniamo a Dio: noi siamo Suoi, inalienabilmente Suoi. Dio ama di un amore divino ogni anima umana ed ogni anima umana vive in questo amore. Come potrebbe essere altrimenti? 

Ogni respiro che facciamo, ogni pensiero che pensiamo, ogni istante che viviamo, procedono dalla inesauribile bontà di Dio. E se per una madre è un dolore venir divisa dal figlio, per un uomo venir esiliato dalla patria e dal focolare, per l'amico venir strappato all'amico, oh! pensate quale dolore, quale spasimo dev'essere per la povera anima venir scacciata dalla presenza del Creatore supremamente buono e affettuoso, che l'ha fatta nascere dal nulla, l'ha sostenuta nell'esistenza e l'ha amata di incommensurabile amore.

Le Sommeil, Salvador Dalì, 1937
Questo, dunque: venir separata per sempre dal suo bene più grande, da Dio, e sentire lo spasimo di questa separazione, ben sapendo che essa sarà immutabile, questo è il tormento massimo che l'anima creata può soffrire, paena damni, la pena della perdita.

La seconda pena, che affliggerà nell'inferno le anime dei dannati, è la pena della coscienza. Allo stesso modo che nei corpi morti si generano vermi dalla putrefazione, così nelle anime dei perduti sorge un perpetuo rimorso dalla putrefazione del peccato, il pungolo della coscienza, il verme, come lo chiama papa Innocenzo III, dal triplice morso. 

Il primo morso inflitto da questo verme crudele sarà il ricordo dei piaceri passati. Oh, quale ricordo spaventoso non sarò questo! Nel lago delle fiamme che tutto divorano, il superbo re ricorderà le pompe della sua corte; l'uomo sapiente, ma cattivo, le sue biblioteche e i suoi strumenti di ricerca; l'innamorato di piaceri artistici, i suoi marmi, i suoi quadri e i suoi altri tesori d'arte; colui che si deliziava nei piaceri della tavola, i suoi banchetti sfarzosi, i suoi piatti preparati con tanta raffinatezza, i suoi vini scelti; l'avaro ricorderà il cumulo d'oro; il ladrone, la sua ricchezza male acquistata; gli assassini rabbiosi, vendicativi e spietati, i propri fatti di sangue e di violenza in cui esultavano; gli gli impuri e gli adulteri, i sozzi piaceri innominabili in cui si deliziavano.

Ricorderanno tutto questo e avranno orrore di se stessi e dei loro peccati. Infatti, quanto parranno miseri  tutti questi piaceri all'anima condannata a soffrire nel fuoco infernale per secoli e secoli! Quali non saranno la loro rabbia e le loro smanie, al pensiero di aver perduto la felicità del cielo per le scorie della terra, per pochi pezzi di metallo, per vani onori, per la comodità del corpo, per un titillamento di nervi. Si pentiranno, davvero: e questo è il secondo morso del verme della coscienza, un tardo e inutile rimorso dei peccati commessi.

Bullfighting, André Masson, 1937
La divina giustizia vuole fermamente che  l'intelletto di questi miserabili disgraziati sia di continuo fisso ai peccati dei quali essi sono stati colpevoli e inoltre, come osserva sant'Agostino, Dio impartirà loro la Sua stessa comprensione del peccato, in modo che il peccato apparirà a queste anime in tutta la sua orribile malizia, come appare agli occhi di Dio stesso. Essi contempleranno i loro peccati in tutta la loro orrendezza e se ne pentiranno ma sarà troppo tardi, ed allora piangeranno tutte le buone occasioni lasciate sfuggire. 

Questo è l'ultimo, il più profondo e il più crudele morso del verme della coscienza. La coscienza dirà: avevi tempo e opportunità di pentirti e non ti sei pentito. Sei stato allevato religiosamente dai tuoi genitori. Avevi ad aiutarti i sacramenti, la grazia e l'indulgenza della Chiesa. Avevi il ministro di Dio a predicarti la Sua parola, a richiamarti quand'eri uscito di strada, a perdonarti i tuoi peccati, non importa quanti o quanto abbominevoli, se tu soltanto avessi voluto confessarti e pentirtene. 

No. Non ti sei pentito. Hai insultato i ministri della santa religione, hai voltato la schiena al confessionale, ti sei rivoltolato sempre più giù nel pantano del peccato. Dio ti chiamava, ti minacciava, ti supplicava di tornare a Lui. Oh vergogna, oh pietà! Il Re dell'universo supplicava te, creatura di fango, di amarLo, Lui che ti aveva creato, e di osservare la Sua legge. No. Non hai voluto. Ed ora, anche se tu riuscissi a inondare tutto l'inferno con le tua lacrime (posto che tu possa ancora piangere), tutto quel mare di pentimento non ti acquisterebbe ciò che un'unica lacrima di pentimento sincero, versata durante l'esistenza mortale, ti avrebbe acquistato. Tu adesso implori un istante della vita terrena in cui pentirti: inutile. Quel tempo è passato: passato per sempre.

Incubus, Johann Heinrich Füssli, 1781
Tale è il triplice morso della coscienza, la vipera che rode  sino all'intimo il cuore dei miserabili nell'inferno, in modo che, pieni di un furore diabolico, essi maledicono se stessi per la loro follia, maledicono i cattivi compagni che li hanno condotti a una simile rovina, maledicono i demòni che li hanno tentati in vita e ora li beffeggiano nell'eternità e persino giungono a vituperare e maledire l'Essere Supremo, di cui essi hanno sprezzato e trascurato la bontà e la pazienza, ma alla potenza e giustizia del quale non possono sfuggire.

L'altra pena spirituale, cui i dannati sono soggetti, è la pena dell'estensione. L'uomo, in questa esistenza terrena, benché capace di molte sofferenze, non può soffrirle tutte in una volta, dato che ciascuno di questi mali corregge l'altro e gli reagisce, allo stesso modo che sovente un veleno ne corregge un altro. Nell'inferno, al contrario, un tormento, invece di reagire a un altro, gli presta una forza ancora maggiore; e inoltre le facoltà interne, come sono più perfette dei sensi esterni, così sono anche più capaci di sofferenza.

Appunto come ciascun senso è afflitto da un tormento appropriato, così accade di ciascuna facoltà spirituale: la fantasia è afflitta da immagini spaventose, la facoltà sensitiva da desidèri e furie alternate, la mente e l'intelletto da una tenebra interiore più terribile anche delle tenebre eterne che regnano in quell'orrenda prigione. La malizia che, benché impotente, possiede queste anime demoniache è un male di estensione illimitata, di durata infinita: uno spaventevole stato di malvagità che noi possiamo appena comprendere se ci rechiamo in mente tutta l'enormità del peccato e l'odio che Dio gli porta. 

Studio del ritratto di Papa Innocenzo X di Velázquez, Francis Bacon, 1953
Opposta a questa pena dell'estensione, eppure con essa coesistente, abbiamo la pena dell'intensità. L'inferno è il centro di ogni male e, come voi sapete. le cose sono più intense al loro centro che non nei punti più remoti. Non ci sono né contrari né mescolanze di nessuna specie a temperare o addolcire minimamente le pene dell'inferno. Anzi, e cose che in se stesse sono buone, nell'inferno diventano cattive. La compagnia, che altrove è una fonte di conforto agli afflitti, sarà laggiù un tormento continuo; la sapienza, tanto desiderata come il massimo bene dell'intelletto, sarà laggiù odiata più dell'ignoranza: la luce, che tanto anelano tutte le creature, dal re del creato fino alla più umile pianta della foresta, sarà intensamente detestata.

In questa vita i nostri dolori o non sono molto lunghi o non sono molto grandi, perché la nostra natura li vince con l'abitudine oppure li fa finire accasciandosi sotto il loro peso. Ma nell'inferno i tormenti non si possono vincere coll'abitudine, perché, pur essendo di una tremenda intensità, variano nello stesso tempo continuamente, ogni pena infiammandosi, per così dire, a contatto con un'altra e riaccendendo in quella che l'ha attizzata una fiamma ancor più furibonda; e nemmeno soccombendo a tutte queste intense e svariate torture la natura può trovar scampo, perché l'anima viene sostenuta e conservata nel male, affinché la sua sofferenza possa riuscire più grande.

Un'infinita estensione del tormento, un'incredibile intensità di sofferenza, un'incessante varietà di tortura - questo è ciò che domanda la divina maestà tanto oltraggiata dai peccatori, questo è ciò che reclama la santità del cielo trascurata e disdegnata per i vili e peccaminosi piaceri della carne corrotta, questo è ciò che assolutamente pretende il sangue dell'innocente Agnello di Dio, sparso per la redenzione dei peccatori e calpestato dai più infami degli infami.

Guernica (dettaglio), Pablo Picasso, 1937
Ed ultima tortura, che tutte sovrasta le torture di quel luogo spaventevole, è l'eternità dell'inferno. Eternità! Tremenda e terrificante parola. Eternità! Quale mente umana può comprenderla? E, ricordate, si tratta di un'eternità di dolore. Anche se le pene infernali non fossero così terribili come sono, pure diventerebbero infinite, dato che sono destinate a durare per sempre. Ma mentre sono eterne, allo stesso tempo, come voi sapete, sono intollerabilmente intense, insopportabilmente estese. Sopportare anche solo la puntura di un insetto per l'eternità, sarebbe un tormento atroce.

Che cosa deve essere dunque, sopportare per sempre le molteplici torture dell'inferno? Per sempre? Per sempre! Per tutta l'eternità! Non per un anno e non per un secolo, ma per sempre. Cercate di immaginare lo spaventoso significato di questa parola. Avete visto tante volte la sabbia sulla riva del mare. Come son fini i suoi piccoli granelli! E quanti di quei minuti granellini ci vogliono per formare la piccola manciata che un ragazzo stringe giocando. 

Ed ora immaginate una montagna di questa sabbia, alta un milione di miglia, elevata dalla terra fino ai cieli più lontani, larga un milione di miglia, estesa fino agli spazi più remoti e spessa un milione di miglia: immaginate questa enorme massa di innumerevoli particelle di sabbia, moltiplicata tante volte quante sono foglie nelle foreste, gocce d'acqua nel grande oceano, piume sugli uccelli, scaglie sui pesci, peli sugli animali, atomi nella vasta distesa dell'aria, e immaginate che alla fine di ogni milione di anni venga un uccellino a questa montagna e se ne porti via col becco un grano minuto di sabbia.

Saturno che divora i suoi figli, Francisco Goya, 1823
Quanti milioni sopra milioni di secoli passerebbero prima che quest'uccello abbia portato via un solo piede quadrato di questa montagna, quanti cicli su cicli di epoche prima che l'uccello l'abbia portata via tutta. Eppure, finita quest'immensa distesa di tempo, si potrà dire che nemmeno un istante dell'eternità sia passato. E se quella montagna, dopo essere stata portata via tutta, tornasse a levarsi e l'uccello ritornasse e la riportasse via tutta un'altra volta a grano a grano; e se essa sorgesse e scomparisse tante volte quante ci sono stelle nel cielo, atomi nell'aria, gocce d'acqua nel mare, foglie sugli alberi, piume sugli uccelli, scaglie sui pesci, peli sugli animali, alla fine di tutte queste innumerevoli resurrezioni e sparizioni di quella montagna incommensurabilmente grande, non un solo istante dell'eternità si potrebbe dire passato: anche allora, alla fine di una tal durata, dopo quell'infinità di tempo il cui solo pensiero ci fa girare dalle vertigini il cervello, l'eternità sarebbe appena cominciata.

Un santo beato (credo che fosse uno dei nostri padri) ebbe un giorno concessa una visione dell'inferno. Gli pareva di trovarsi nel mezzo di un grande scalone, buio e silenzioso tranne che per il ticchettio di un grande pendolo. Il ticchettio continuava incessante e pareva a questo santo che il suono del ticchettio fosse un'incessante ripetizione delle parole: sempre, mai; sempre, mai.

Margherita la Pazza, Pieter Bruegel, 1561
Sempre essere all'inferno, mai essere in cielo; sempre essere escluso dalla presenza di Dio, mai godere la beatifica visione, sempre venir divorato da fiamme, roso da vermi, stimolato da spuntoni ardenti, mai essere liberato da questi dolori; sempre sentirsi la coscienza nemica, la memoria furibonda, la mente piena di tenebre e di disperazione, mai poter sfuggire; sempre maledire e vituperare i sozzi demòni che osservano con diabolica esultanza la disgrazia dei loro zimbelli, mai contemplare le vesti risplendenti degli spiriti beati; sempre implorare urlando, dal fondo dell'abisso del fuoco, a Dio un istante, un istante solo, di tregua da quelle angosce atroci, mai ricevere, nemmeno per un istante, il perdono da Dio; sempre soffrire, mai godere; sempre essere dannato, mai salvo; sempre, mai; sempre, mai.

Oh, che tremendo castigo! Una eternità d'infinita agonia, d'infinito tormento corporale e spirituale, senza un raggio di speranza, senza un istante di tregua; di un'agonia d'intensità sconfinata, di un tormento di varietà infinita, di una tortura che conserva eternamente ciò ch'eternamente divora, di un'angoscia che stringe per sempre lo spirito mentre strazia la carne: un'eternità in cui ogni istante è esso stesso un'eternità di dolore. Tale è il castigo terribile, decretato per coloro che muoiono in peccato mortale da un Dio onnipotente e giusto.

Opus 1, 1957, Zdzislaw Beksinski
Sì, un Dio giusto! Gli uomini, che ragionano sempre da uomini, si stupiscono che Dio possa commisurare un castigo eterno e infinito nelle fiamme dell'inferno a un solo grave peccato. Essi ragionano così perché sono incapaci di comprendere che anche il solo peccato veniale è di natura così sozza e schifosa che, se anche il Creatore onnipotente potesse porre una fine a tutto il male e la miseria del mondo, alle guerre, alle malattie, ai ladronecci, ai delitti, alle morti, agli assassinii, a condizione di lasciar passare un solo peccato veniale impunito, un solo peccato veniale, una bugia, uno sguardo irritato, un istante di pigrizia volontaria, Egli, il grande Iddio onnipotente, non potrebbe farlo, perché il peccato, sia di pensiero sia di atto, è una trasgressione alla Sua legge e Dio non sarebbe Dio, se non punisse il trasgressore.

Un peccato, un istante di ribelle orgoglio dell'intelletto, fece cadere dalla loro gloria Lucifero e  una terza parte della coorte degli angeli. Un peccato, un istante di debolezza, cacciò Adamo ed Eva dall'Eden e portò la morte e il dolore nel mondo. Per riscattare le conseguenze di quel peccato il Figlio unigenito di Dio venne in terra, visse, offrì e morì di un'atroce morte, appeso per tre ore alla croce.

O miei giovani fratelli in Cristo, vorremmo noi dunque offendere quel buon Redentore e provocare la Sua ira? Vorremmo calpestare ancora quel cadavere straziato e sfigurato? Vorremmo sputare su quel volto così pieno di tristezza e amore? Vorremmo anche noi, come gli Ebrei crudeli e i soldati brutali, beffare quel Salvatore gentile e pietoso, che affrontò, tutto solo, per amor nostro, il terribile torchio del dolore? Ogni parola peccaminosa è una spina che gli punge il capo. Ogni pensiero impuro, a cui si ceda deliberatamente, è una lancia acuminata che trafigge quel cuore sacro e amoroso. No, no. È impossibile che un qualunque essere umano faccia ciò che offende così profondamente la Maestà divina, ciò che è punito con un'eternità di tormenti, ciò che torna a crocifiggere il Figliuolo di Dio e fa di lui un oggetto di irrisione.

Autumn Rhythm n. 30, Jackson Pollock, 1950
Prego Iddio affinché le mie povere parole abbiano potuto giovare oggi a confermare nella santità quelli che sono in uno stato di grazia, a fortificare quelli che vacillano, a ricondurre nello stato di grazia la povera anima che si è sviata, se una è tra di voi. Prego Dio, e voi pregate con me, che noi possiamo pentirci dei nostri peccati. Vi chiedo ora, a tutti lo chiedo, di ripetere con me l'atto di contrizione, inginocchiandoci qui in quest'umile cappella alla presenza di Dio.

Egli è là nel tabernacolo, ardente di amore per l'umanità, pronto a consolare gli afflitti. Non abbiate paura. Non importa quanti peccati abbiate commessi o quanto odiosi essi siano: basta che voi vi pentiate, essi vi saranno perdonati. Nessun rispetto umano vi trattenga. Iddio è sempre il Signore misericordioso che non vuole la morte eterna del peccatore, ma piuttosto che egli si converta e viva. Egli vi chiama a Sé. Voi siete Suoi. Via ha fatti dal nulla. Via ha amati come soltanto un Dio può amare. Le Sue braccia sono aperte a ricevervi, anche se voi avete peccato contro di Lui. Vieni a Lui, povero peccatore, povero vano errabondo peccatore. È il momento propizio. È l'ora."

Da Dedalus, ritratto dell'artista da giovane di James Joyce, traduzione di Cesare Pavese (1933), edizioni Adelphi

martedì 7 settembre 2021

Le Rupi del Sole

Lo stemma del Sasso su di una pergamena cinquecentesca 
Il viaggiatore che si trovi a passare per una delle parti più remote della nostra Toscana, quel lembo di forma approssimativamente triangolare che un tempo era parte del Montefeltro e che oggi si incunea all'interno del territorio marchigiano tra Badia Tedalda e Sestino dando origine a tre fiumi, il Tevere, la Marecchia e il Foglia, ha lo sguardo inevitabilmente attratto da due immense rupi di roccia calcarea che sovrastano il crinale dell'Appennino, in questa zona arrotondato e inciso da profonde fenditure argillose ricche di calanchi: il Sasso di Simone e il Simoncello.
La parete verticale del Sasso di Simone  
Sono due gigantesche mesas: enormi blocchi di arenaria con pareti verticali alte 100 metri, dalle cime pianeggianti estese per complessivi 8 ettari - 6 del Sasso di Simone e 2 del Simoncello - , situati a oltre 1200 metri di quota e originati dalla trasformazione di possenti strati di sedimenti marini risalenti all'era Terziaria, decine di milioni di anni fa. 

Il Sasso di Simone dal Simoncello  
Questi depositi vennero creati dall'azione di minuscoli organismi viventi - rimasti poi imprigionati nelle rocce - e furono accumulati dall'erosione dei fiumi in quella parte poco profonda dell'Oceano Tetide che sarebbe diventato il Tirreno Settentrionale. Vennero compressi a pressioni immani nel cuore della Terra per essere poi sollevati e traslati dai movimenti della crosta terrestre fino ad emergere nel corso dell'orogenesi appenninica, frammentati in ciclopici macigni che formarono l'ossatura delle montagne dal Casentino al monte Titano e a San Leo, proprio di fronte alla riva di un altro mare, l'Adriatico.

Sasso di Simone (a destra) e Simoncello 
Queste immensità - di materia, di spazio, di tempo - da un lato sottolineano la nostra pochezza di "mosche cocchiere" e dall'altro la nostra capacità di essere giunti - oggi - a capire questi fenomeni. Ma anche nella inconsapevolezza delle epoche passate queste rupi furono sempre percepite come dei tramiti tra la terra, spazio del presente, e il cielo, spazio dell'inconoscibile, dell'immensamente grande, dell'eternità. 

Frequentate da tempi immemorabili - sul pianoro sommitale del Sasso di Simone sono stati trovati reperti dell'età del Bronzo risalenti al 1000 a. C. - le due cime prendono il nome attuale da un eremita di origine forse orientale che si stabilì sul pianoro in epoca longobarda, costruendo un romitorio e una cappella dedicata a San Michele. Questi edifici diedero in seguito origine a un monastero benedettino, denominato San Michele al Sasso. Il primo documento che testimonia la presenza del monastero, siglato dal primo abate, è del 1168: il riconoscimento dell'insediamento da parte della Chiesa - e la sua fondazione - furono quindi antecedenti.

La croce che sorgeva sul luogo dell'antico monastero   
Il luogo scelto dai monaci sembrava attraente per vari motivi, non solo spirituali ma anche pratici. Situato in posizione facilmente difendibile, il Sasso dominava le vie di comunicazione e una vasta estensione di foreste e pascoli che almeno inizialmente diedero modo ai monaci di impiantare una proficua attività di allevamento e di sfruttamento del bosco. Purtroppo il clima che inizialmente era favorevole - nel periodo altomedievale ci fu una sorta di "periodo caldo" simile a quello attuale - nei secoli successivi si raffreddò, portando a inverni sempre più rigidi che uniti a flagelli come quello della peste "nera" del 1348 sancirono il trasferimento dei monaci in sedi più comode e lo spopolamento della rupe, con la rovina del monastero - soppresso da papa Pio II nel 1462 - di cui restò in piedi verso la fine del Quattrocento solo la chiesa di San Michele.

La posizione dominante del Sasso di Simone, unita alle lotte per il controllo delle vie di comunicazione che contrapposero tra Quattrocento e Cinquecento lo Stato Toscano e il ducato di Urbino e Montefeltro, portarono dapprima a un tentativo da parte di Novello Malatesta, signore di Cesena e per matrimonio duca del Montefeltrodi costruire e mantenere sul Sasso negli anni intorno al 1450 una fortificazione che avrebbe dovuto controllare il piviere di Sestino, allora compreso nel Ducato di Urbino, e i territori fiorentini appartenenti ai Conti di Carpegna. Il progetto non andò a buon fine per la prematura scomparsa del Malatesta, morto senza eredi a 47 anni. Il piviere nel 1465 tornò allo Stato Pontificio e tutto sembrò fermarsi fino al 5 luglio 1520, quando papa Leone X de' Medici cedette l'intera zona al ducato toscano a compenso di un pagamento che peraltro non venne mai effettuato.

Cosimo de' Medici ritratto dal Pontormo a 19 anni, nel 1538
Il duca Cosimo I de' Medici, salito al potere nel 1537 a soli 18 anni, era un uomo colto, ambizioso e determinato, inteso fin dal principio a stabilire in modo netto il proprio dominio sulla Toscana. Nella sua visione i confini dello Stato dovevano essere resi il più possibile sicuri attraverso la costruzione di fortezze che dovevano controllarne il territorio, anche e soprattutto nei suoi lembi più periferici. 

Mappa cinquecentesca del Montefeltro e della Romagna
Per questo, seguendo un disegno sistematico commisurato alle particolari condizioni dello Stato, avviò una notevole attività edilizio-militare. Per la sua posizione geografica la Toscana era esposta a frequenti passaggi di truppe, oltre ad essere afflitta dal banditismo. E proprio per controllare i confini e riaffermare l'autorità statale furono progettati e realizzati - insieme a molti altri - i due centri di Terra del Sole ed Eliopoli sul Sasso di Simone. Il primo era una "città nuova" fortificata, edificata in un luogo che sembrava ostile ad ogni insediamento urbano a causa delle alluvioni del fiume Montone e dei fuorilegge che flagellavano l'area. La seconda era una fortezza costruita sulla rupe strapiombante del Sasso per dominare e controllare i passi appenninici verso il Montefeltro e la Romagna, a sfida e monito dei prospicienti fortilizi di San Leo e del Titano.

Scriveva un cronista dell'epoca:
"Il Sasso è luogo della massima importanza perché è elevatissimo e inespugnabile, e perché sta sui confini del piviere di Sestino, del duca d'Urbino, dei conti Giovanni e Ugo di Carpegna, del conte Carlo di Piagnano, della Chiesa e di Rimini e perché chi vi edificasse un castello, come un leone fortissimo potrebbe annientare tutti gli altri castelli e luoghi circostanti senza timore di attacchi. In caso di timor di guerra è possibile specialmente di notte far segnali a Montauto di Perugia, al monte di Assisi, a Recanati, a Sassoferrato e a molte altre terre della Chiesa: in una notte si arriva di rocca in rocca a trasmettere il segnale fino a Roma e di lassù è anche possibile vedere molti luoghi della Dalmazia".
Sull'orlo della rupe 
Entrambi gli insediamenti furono intitolati al Sole. Non a caso: c'era un ben preciso programma iconografico in questa dedica. Il Sole, nella visione medicea, mutuata da autori latini come Ovidio e inquadrata nella filosofia neoplatonica diffusa nell'aristocrazia fiorentina, rappresentava il principio dell'ordine, della ragione e della saggezza, e ben si associava a un tema di perennità e di armonia cosmica che voleva legarsi alla dinastia per 
celebrare la famiglia nella sua continuità genealogica e nella temporalità ciclica ma assoluta dell’eternità. L'astro era il simbolo di un potere “divino” che, pur evolvendo nel trascorrere della vita restava eterno al variare delle stagioni. Infatti nella Reggia del Sole Apollo, assiso in trono, è circondato dalle Ore, dal Giorno, dal Mese, dall’Anno, dalle Stagioni, che nel loro eterno avvicendarsi creano quel cambiamento continuo che peraltro sottende  la stabilità.
Pianta e veduta della Fortezza del Sasso di Simone
Della costruzione della Fortezza di Eliopoli sul Sasso di Simone vennero incaricati gli architetti Giovanni Camerino e Simone Genga. L'idea che aveva preso forma nella primavera del 1554 durante una visita di Cosimo I alla podesteria di Sestino si rivelò subito un progetto ben più che ardito: una città fortezza inaccessibile,  a quote mai osate in precedenza, ben oltre i 1200 metri di altezza, con evidenti difficoltà di approvvigionamento e mantenimento. Una roccaforte inespugnabile ma difficile da realizzare e ancor più da mantenere, pensata per essere inizialmente popolata da 300 armigeri e dalle loro famiglie e destinata a crescere fino a dominare dall'alto delle sue mura tutto il Montefeltro.

Francesco I de' Medici ritratto da Alessandro Allori nel 1575
Il 14 luglio 1566 l'opera ebbe inizio
"..con molto solenne precisione, messa cantata, conti e contesse assai e gran concorso di popoli e parsi che fusse come una gran fiera..."
I lavori proseguirono a fasi alterne per quasi un decennio, più rapidi in estate e quasi fermi d'inverno: e il pianoro per tutti quegli anni risuonò dei rumori e delle voci degli operai, scalpellini, architetti, muratori, carpentieri, falegnami, boscaioli, fabbri, del cigolio dei carri e delle carrucole, del muggire dei buoi. Vennero lentamente realizzati da maestranze in gran parte lombarde una cinquantina di edifici tra cui le osterie, le casematte, il forno, le carceri, le grandi cisterne per l'acqua, la bottega del fabbro con la fucina, i granai per mille staia di grano, il salnitraio e le salaie, il deposito delle farine, il palazzo del provveditore, l'armeria, l'arsenale, il tribunale, le stalle. 

La strada medicea che porta sul pianoro del Sasso di Simone
La fortezza fu progettata per rispondere a quell'ideale di città perfetta rinascimentale, organizzata dalla mente del Signore che crea ex-novo una realtà nella cui architettura si possa esprimere il concetto stesso della perfezione formale, che trovava la sintesi nel simbolo stesso della solarità - eletto a stemma della città - e nella istituzione delle magistrature preposte all'amministrazione della giustizia che coesistono accanto alle strutture militari dell'insediamento, a significare l'inscindibilità delle due funzioni in una comunità civile razionalmente organizzata.
Il Sasso di Simone con i suoi calanchi
Fu costruito un portico per il mercato settimanale, un'altra chiesa in aggiunta alla cappella sopravvissuta alla rovina del convento, il palazzo del capitano con la cancelleria, gli edifici per l'acquartieramento dei soldati, la sala delle torture, le torri, le mura perimetrali, i depositi per le munizioni, i ricoveri per l'artiglieria, i magazzini per i viveri. Non tutto fu fatto in pietra, molte costruzioni avevano parti anche importanti in legno, e questo determinò una fragilità che nel lungo periodo si rivelò esiziale.

La precipite bastionata del Sasso di Simone
Vennero anche tracciate strade per collegare la rocca ai castelli vicini, e una "strada maestra" che la univa direttamente a Firenze. Anche la rampa per salire alla fortezza dovette essere faticosamente scavata a colpi di scalpello nella viva roccia della rupe, e ciò nonostante la salita restò sempre e comunque difficoltosa al punto che una carovana di pezzi d'artiglieria trainati da buoi, giunta da Arezzo nel pieno dell'inverno 1572, scivolò giù per la ripida salita ormai ghiacciata, trascinando uomini e animali giù per la rupe in una gelida carneficina. 

Simone Genga nel luglio del 1577 scriveva a Francesco I de' Medici, successore di Cosimo I:
«Io venni quì in Mugello, dove ho dato ordine di quanto si ha a fare in mia absentia, et quì anderò alla Terra del Sole et al Sasso di Simone, con disegno di non partir di là sú, sin tanto che non sarà finito il tutto, in maniera che V.A.S. non habbia a sentir molestia... Et in ogni caso non mancarò tragettarmi sì spesso al Sasso, et lì (a Terra del Sole) che ambedue queste fabriche resteranno quest'anno finite purché V.A.S. cometta a chi tocca la provisione delli assegnamenti»

La sella da cui discendeva la "strada Maestra" per Firenze
Il primo gruppo di soldati - undici, più un capitano - venne mandato a presidiare la fortezza nel dicembre del 1573, e ci si rese immediatamente conto di cosa significasse risiedere in un luogo così elevato. I venti soffiavano gelidi e costanti e le nevi erano talmente copiose che entravano "financo nei letti" e impedivano gli spostamenti sul pianoro a un punto tale che non era possibile nemmeno usare la chiesa ordinaria che pure distava solo una settantina di metri dagli edifici maggiori: per l'inverno venne infatti allestita una cappella temporanea all'interno del palazzo del Capitano. Inoltre il Sasso era lontano dai centri di approvvigionamento e tutto doveva essere trasportato da grande distanza, in particolare tutti i viveri e perfino la legna, per non impoverire la grande foresta di cerro che lo circondava completamente.

Ciclopici massi ai piedi della rupe del Sasso di Simone
Malgrado queste difficoltà nel 1575 venne stabilita sul Sasso la sede del Capitanato di Sestino, con il Tribunale di Giustizia, la podesteria e la sede dell'Arciprete: fu anche istituita una Fiera che si teneva ai primi del mese di giugno insieme a un mercato settimanale favorito dall'abolizione dei dazi sulle merci. Ma pure con queste attribuzioni amministrative e questi incentivi commerciali la Fortezza di Eliopoli restò ben poco appetita dai sudditi del Granduca, che fecero di tutto per non trasferirsi in un luogo così poco ospitale. Al termine dichiarato dei lavori, nell'estate del 1577, solo una decina di case erano abitate stabilmente, e soprattutto in inverno il centro tendeva a spopolarsi del tutto. Uno scritto di uno dei sacerdoti dell'Arcipretura cita addirittura il Salmo 147 per descrivere la situazione climatica: 

"Egli manda la neve come lana, sparge la brina come cenere. Egli getta il suo ghiaccio come a pezzi; e chi può resistere al suo freddo? Egli manda la sua parola e li fa sciogliere; fa soffiare il suo vento e le acque corrono."

Il Simoncello e la sella tra i Sassi
Il colpo finale al sogno mediceo di questa città rupestre provvide a darlo la Natura nella forma di un cambiamento climatico, ancora in negativo, con la cosiddetta Piccola Era Glaciale: un brusco raffreddamento della temperatura media terrestre, iniziato alla fine del Quattrocento e precipitato verso la fine del secolo successivo per durare altri tre secoli, fin quasi al termine del XIX secolo. Gli inverni diventarono via via più lunghi e più freddi, le nevicate persistenti e abbondanti, i rifornimenti e le comunicazioni sempre più disagevoli. Nel frattempo cambiarono anche le tecnologie militari e la situazione strategica - il Ducato di Urbino entrò a far parte dello Stato Pontificio nel 1630 - e resero sempre più irrilevante e inutilmente dispendiosa la presenza di una simile fortezza, che inevitabilmente scivolò nell'abbandono.

Cosimo III de' Medici ritratto nel 1673 dal Volterrano
Nel 1673, cento anni dopo la fondazione e dopo molti decenni di stentata sopravvivenza, la città del Sasso veniva infine abbandonata al vento, al ghiaccio e alle tempeste invernali, che tornati ad essere dominatori incontrastati del massiccio in breve fecero tabula rasa di tutti gli edifici che con tanta spesa e fatica erano stati eretti sul pianoro. Va detto anche che l'anno successivo all'abbandono - il 1674 - il Granduca Cosimo III de' Medici decretò lo smantellamento del sito, e molti materiali da costruzione furono prelevati per costruire o restaurare i cascinali del circondario, dove ancora si può intravedere qualche elemento architettonico proveniente dalla Fortezza del Sole.

Poche sono le tracce rimaste oggi di quella scommessa granducale di quasi cinque secoli fa: la strada che ripida sale al pianoro, le cisterne per l'acqua, le soglie delle porte di accesso alla fortezza, una grande croce - più volte abbattuta dalle tempeste e ricostruita - che sottolinea l'incessante attrazione spirituale che questo luogo continua ad avere. Resta invece intatto il fascino di un luogo impressionante per la sua solitudine e per la sua alterità.

La lapide celebrativa di Eliopoli nel 1993, un anno dopo la sua posa, e 28 anni dopo nel 2021, a testimonianza di come il tempo sul Sasso corra forse più che altrove