martedì 12 dicembre 2023

Ciò che di me sapeste

Strada della Croce Arcana, gennaio 2022
Ciò che di me sapeste
non fu che la scialbatura,
la tonaca che riveste
la nostra umana ventura.

Ed era forse oltre il telo
l'azzurro tranquillo; 
vietava il limpido cielo
solo un sigillo.

0 vero c'era il falòtico
mutarsi della mia vita,
lo schiudersi d'un'ignita
zolla che mai vedrò.

Restò così questa scorza
la vera mia sostanza;
il fuoco che non si smorza
per me si chiamò: l'ignoranza.

Se un'ombra scorgete, non è
un'ombra - ma quella io sono.
Potessi spiccarla da me,
offrirvela in dono.

Eugenio Montale, Ossi di Seppia (1920-27)
I versi di Eugenio Montale mi hanno sempre affascinato per quel non so che di indeterminato e inesorabile che emanano: è come se fossero nati da un destino che si è fatto parola. 

E delle poesie degli Ossi di Seppia una in particolare - questa - mi ha sempre colpito, perché in questi versi c'è la necessità di definire la vita non come addizione di fatti, eventi, esperienze, ma per sottrazione dall'esterno verso l'interno, dall'apparenza alla sostanza, dal visibile all'invisibile. 

Scarnificando la vita fino ad arrivare alla natura stessa del nostro essere: un'ombra sfuggente o forse meno di un'ombra; ma solo quella davvero ci definisce, oltre ogni apparenza, oltre ogni illusione.

giovedì 4 maggio 2023

I boschi della Calvana

Chiesino di Cavagliano, 1989
In questa mia foto del 1989 il Chiesino di Cavagliano, da poco restaurato grazie al contributo della Cassa di Risparmio di Prato, era circondato da una bassa vegetazione di cespugli intervallata da prati e pascoli, testimone delle attività agricole, silvicole e pastorali portate avanti nei secoli precedenti e abbandonate a partire dagli anni Cinquanta del Novecento a causa del boom industriale della piana pratese.

Alla fine degli anni Ottanta del Novecento insediamenti antichissimi e oggi disabitati come Cavagliano, Parmigno, Valibona erano ancora sostanzialmente in piedi, al centro di una fitta rete di relazioni - strade, sentieri, muri, campi, edifici, fonti - intrecciate con il territorio in cui erano situati, in un contesto tutt'altro che naturale perché modellato da secoli di lavoro dell'uomo.

Cavagliano nel 1988
Chi come me ha percorso in quegli anni i sentieri della Calvana è stato come il tenente John Dunbar del film "Balla con i Lupi", quando chiede e ottiene dal maggiore Fambrough di essere mandato in un lontano avamposto per "poter vedere la Frontiera prima che scompaia". In questo caso, però, a scomparire non era una frontiera ma una intera civiltà, quella dei nostri avi agricoltori e allevatori.

La dorsale della Calvana dalla Retaia a Cantagrilli nel 1988
Il territorio che noi attraversavamo era indubbiamente una nostra Frontiera, vicina nello spazio ma lontanissima nel tempo: quella della Calvana "antica" che lentamente stava scomparendo per lasciare spazio alla Calvana rinaturalizzata di oggi, che sta perdendo quella quasi completa assenza di alberi che la contraddistingueva e che le dava il nome.

I boschi, da sempre ridotti ai minimi termini, sono da decenni alla riscossa: come una marea verde risalgono vittoriosamente le pendici per sommergere di foglie e rami anche il crinale un tempo fatto solo di pascoli, e quello che appariva come un carattere peculiare si rivela solo un elemento di un paesaggio creato dall'uomo, molto meno stabile di quanto faccia credere la memoria nostra e dei nostri avi.

La Calvana nel 1971 (foto Nicola Becheri)
Perché nei secoli la Calvana ha cambiato costantemente il suo aspetto. Ci sono prove dirette e indirette di una costante trasformazione del territorio fatta dall'uomo fin dai tempi più remoti: c'è stata in passato una Calvana più o meno agricola, più o meno selvaggia, a seconda delle epoche e delle circostanze: in alcuni momenti possiamo anche dire che c'è stata una Calvana in qualche modo alternativa e competitiva anche con la più ricca realtà agricola della piana, soggetta più della montagna all'imperversare della malaria e alle scorrerie degli armati.

Ma la Calvana che noi vagheggiamo oggi, quella brulla e pascolativa dei nostri nonni e bisnonni, con le croci sui poggi più alti, con le siepi di biancospino impenetrabile e i cipressi radi che fanno da sentinella ai prati, con i sassi di scabra alberese che escono dal terreno come se fossero le ossa della Terra, emerge compiutamente - direi quasi "nasce" - solo dopo le riforme lorenesi della seconda metà del Settecento.

I Lorena, infatti, realizzarono una forte liberalizzazione in tutti i settori dell'economia toscana, che usciva da due secoli di stagnazione medicea, con dei provvedimenti che seppure necessari ebbero spesso effetti dirompenti e a volte inaspettati. Attuarono l'abolizione delle servitù di pascolo e di tutti i monopoli e privative in economia; imposero la liberalizzazione del taglio dei boschisoppressero gli enti ecclesiastici e laicali espropriando le grandi proprietà fondiarie che possedevanoabolirono e alienarono i beni collettivi, portando alla perdita degli usi civici e alla diffusione della proprietà borghese.
Poggio Camerella nel 1993, foto Fabrizio Tempesti
Soprattutto la liberalizzazione dei tagli boschivi, approvata per legge nel 1780, condusse ad una vasta distruzione del patrimonio forestale che in meno di un secolo ridusse i boschi ai minimi termini sia per incrementare la produzione di carbone vegetale (ancora nel secondo dopoguerra il 25% della produzione italiana di carbone di legna veniva dalla Toscana) che per guadagnare nuovi territori all’agricoltura, sotto la spinta di un'eccezionale pressione demografica e in assenza di uno sviluppo industriale che potesse assorbire l’aumento di manodopera sul mercato del lavoro. 

I dati sono molto eloquenti: la popolazione toscana quasi raddoppiò nel giro di ottanta anni, passando da 1.303.044 abitanti nel 1810 a 2.317.004 nel 1889, mentre il numero dei poderi fra il 1830 e il 1854 passò da 12.000 a 15.000; fra il 1830 e il 1860 la superficie dei coltivi passò da 649.000 a 722.000 ettari, con un aumento che solo in parte può essere collegato alle variazioni post unitarie delle circoscrizioni territoriali. 

Con l’unità d’Italia le terre coltivate in Toscana aumentarono ulteriormente, crescendo da 722.000 a 1.285.000 ettari fra il 1860 e il 1910, mentre i boschi diminuiscono ancora, scendendo da 572.000 ettari nel 1842 a 471.000 nel 1938. Solo all'inizio degli anni Venti del XX° secolo lo Stato cercò di invertire la tendenza effettuando estese opere di riforestazione (a base prevalentemente di conifere) e di sistemazione idraulica, che dovevano proseguire fino all’ultimo dopoguerra.
La dorsale verso Prato nel 1990, foto Fabrizio Tempesti
Solo dopo la seconda guerra mondiale avviene un profondo cambiamento che si rivela decisivo. La progressiva riduzione della produzione di legna da ardere e soprattutto del carbone vegetale che viene quasi completamente abbandonato, porta all'allungamento dei turni del ceduo nella coltivazione forestale. Tutto ciò, insieme all’introduzione di nuove fonti energetiche che sostituiscono rapidamente i combustibili vegetali, fa cambiare volto alle foreste modificandone in pochi decenni densità, struttura e composizione.
Poggio Castiglioni in due ortofoto: nel 1954 (sopra) e nel 2021 (sotto).
Evidente la diversa copertura forestale
I boschi tornano a crescere, ad essere ovunque protagonisti. Si passa dai 471.000 ettari del 1938 agli 847.000 ettari del 1990, pari al 37% della superficie regionale, per poi impennarsi fino a 1.086.000 ettari nel 2000 e 1.201.000 nel 2021,  ormai più della metà (il 52%) del territorio regionale, e con una popolazione di 3.676.000 abitanti, quasi il triplo che del primo Ottocento.

Si è dunque creata una Toscana "verde" che non si era mai vista da molti secoli. Contemporaneamente, l'interruzione di molte pratiche di coltivazione tradizionali ha causato la progressiva perdita di un prezioso patrimonio culturale che rappresenta l'identità delle popolazioni locali e un elemento chiave per la salvaguardia di un assetto paesaggistico di cui la Calvana dei nostri nonni è parte integrante. Quest'ultima, pur con tutte le sue criticità, rappresenta una parte del nostro vissuto, un elemento fondamentale della nostra identità.

giovedì 27 aprile 2023

Lancaster, York e Coppini: un pratese alla Guerra delle Due Rose

Francesco Coppini in abito vescovile (sulla destra) dipinto nelle ante
del Trittico della Resurrezione di Lazzaro di Nicolas Froment
«Non sono quel mostro che tu mi credi. Sono un uomo in regola col mio tempo. Sono i tempi duri che fanno gli uomini spietati. [...] Dominare o subire: e nessuno, se può, sceglie la parte di chi subisce. Le leggi di chi domina sono implacabili, chi domina ne diventa schiavo e deve applicarle, senza debolezze, con logica ferrea. E così ho fatto anch'io. La logica era spietata ma non ce n'era un'altra... e se c'era non l'ho vista.»

(Sir Daniel Brackley, impersonato da Arnoldo Foà nella serie televisiva La Freccia Nera)

Chi come me è nato negli anni Sessanta quasi certamente ricorderà la serie televisiva (o sceneggiato, come si diceva allora) diretta da Anton Giulio Majano, che nel 1968 portò sul piccolo schermo La Freccia Nera, romanzo storico avventuroso scritto da Robert Luis Stevenson nel 1883. 

L'intricata vicenda raccontata da Stevenson nel suo romanzo si svolge sullo sfondo della Guerra delle Due Rose, una guerra di successione dinastica che sconvolse l'Inghilterra per trent'anni dal 1455 al 1485, contrapponendo le due famiglie di York e di Lancaster, due rami della casata dei Plantageneti allora regnante. 

La lotta per il predominio fu portata avanti senza esclusione di colpi e con continui rovesciamenti di fronte. Negli anni causò l'estinzione di gran parte delle famiglie nobili imparentate con i Plantageneti che rivendicavano la corona e si concluse con la vittoria di un lontano parente dei Lancaster, Enrico Tudor, che nella battaglia di Bosworth sconfisse Riccardo III York per poi cercare una pacificazione definitiva sposando nel 1486 Elisabetta di York.

In questo contesto storico così complicato si trovò a vivere la propria avventura il pratese Francesco Coppini, uno dei tanti personaggi della Storia che "poteva essere ma non è stato". Non sappiamo l'anno preciso della sua nascita: forse alla fine del Trecento, forse ai primi del Quattrocento Francesco nacque a Prato figlio di Guccio di Tommaso di Giusto. 
Resurrezione di Lazzaro, Gesù incontra Marta (dettaglio)
Era il secondo di tre fratelli, e la famiglia era sufficientemente benestante da permettergli di studiare Legge fino a conseguire nel 1433 la qualifica di iuris utriusque doctor, che gli consentì di ottenere la carica di Camerlengo - una sorta di amministratore - dello Studio Fiorentino, l'università creata a Firenze nel 1320 con Decreto della Repubblica.

Francesco era un uomo ambizioso: a Firenze strinse amicizie nell'ambiente culturale umanistico, prendendo contatto con la corte dell'allora papa Eugenio IV e decidendo di accedere agli Ordini minori per poi entrare negli uffici di Curia. Qualche anno dopo - nel 1437 - era a Bologna per svolgere funzioni di ufficiale di Giustizia criminale. A Bologna sollecitò dall'amico Leon Battista Alberti la composizione di un opuscolo intitolato De iure, che questi gli dedicò il 30 settembre dello stesso anno.

Negli anni successivi la carriera di Francesco si svolse senza scosse e in continua ascesa: prese gli Ordini maggiori nel 1438 e fu pievano in diocesi di Fiesole, poi canonico in Cattedrale a Firenze nel 1445, Tesoriere Apostolico a Bologna nel 1450 e responsabile per la riscossione delle decime per la Crociata contro i Turchi bandita da Papa Callisto III nel 1455. 

In quel periodo conobbe anche il Duca di Milano Francesco Sforza, con cui ebbe fin dall'inizio un legame di simpatia, e fu nominato nel 1458 vescovo di Terni, cosa che gli consentì di risiedere a Roma mentre nel vescovado era rappresentato da un vicario. In questi anni, attraverso diversi incarichi e con varie vicende riuscì a tessere una vasta rete di conoscenze, acquisendo una tale autorevolezza che fu scelto da papa Pio II Piccolomini per una importante missione presso la Corona inglese. 
Stemma dei Coppini
Il 7 gennaio del 1459 il Papa gli fornì le credenziali per presentarsi alla Corte di Inghilterra come "referendarius et orator" con il compito di favorire la pace tra il partito di Lancaster e quello del duca di York, in modo da permettere la partecipazione inglese alla Dieta che Pio II avrebbe aperto a Mantova per raccogliere una leva d'uomini e di denaro in vista di una nuova Crociata che coinvolgesse tutti i regni della cristianità.

L'incarico ricevuto era delicato e di rilevanza internazionale: Francesco avrebbe dovuto farsi strumento di Papa Piccolomini per promuovere l'unità di tutti i prìncipi cristiani, in modo da creare le condizioni per finanziare la crociata che avrebbe dovuto liberare definitivamente i Luoghi Santi in Palestina dal dominio dell'Islam. 

Quella di Papa Pio II era una visione grandiosa ma fuori dal tempo e proprio per questo con scarse speranze di essere realizzata. Ma se un'unità anche provvisoria fosse stata raggiunta, l'incarico avrebbe dato lustro e prestigio a chi l'avesse portato a termine, aprendogli la strada al cardinalato e forse anche al papato.

Probabilmente furono questi i pensieri del Coppini quando ricevette dal Papa le credenziali per la sua missione inglese: ma la sua ambizione lo portò a giocare una partita su più tavoli ancora più complicata e pericolosa di quella che gli era stata affidata. 

Il Duca di Milano Francesco Sforza era da sempre in lotta per assicurarsi un dominio stabile su Milano e sulla Lombardia; conosceva il Coppini da diversi anni e vide nella sua missione a Londra un'opportunità per colpire la Corona francese che mirava ad espandersi in Italia reclamando la successione al regno di Napoli e in subordine il protettorato sul Ducato milanese.
Resurrezione di Lazzaro (dettaglio), Nicolas Froment
Nell'intricato sistema di pesi e contrappesi che contraddistingueva le alleanze italiane di allora Francesco Sforza al momento della partenza del Coppini sosteneva la legittimità della pretesa al trono di Napoli dello spagnolo Ferrante d'Aragona, figlio naturale del re Alfonso V: il re di Francia invece di converso sosteneva il francese Giovanni d'Angiò, peraltro legato da vincolo di parentela con Margherita d'Angiò, la moglie di Enrico VI Lancaster. 

L'intenzione dello Sforza era quella di favorire il partito di York in modo da indebolire la casa di Angiò: la Corona inglese aveva infatti ancora feudi in Normandia e Aquitania, e un re inglese che non fosse imparentato con la casa reale francese li avrebbe probabilmente rivendicati, distogliendo Carlo VII di Francia dalle sue mire su Napoli.
Francesco Sforza
Bisognava, dunque, sostenere in ogni modo la Casa di York, e nessuno avrebbe potuto farlo meglio dell'inviato pontificio in Inghilterra, munito di credenziali al disopra di ogni sospetto. Difficile dire oggi cosa spinse il Coppini a prestarsi a questo gioco pericoloso: sicuramente molto contò l'ambizione personale, e anche il suo cursus honorum, svoltosi per anni senza scosse e senza passi falsi, gli dette l'illusione di non poter sbagliare nel giudicare uomini e situazioni.

Va anche detto che con ogni probabilità anche lo stesso Papa Pio II non era più molto convinto dell'opportunità di mantenere sul trono inglese Enrico VI Lancaster: lo scarso entusiasmo verso la causa papale, insieme alla sua debolezza di carattere sfociata negli anni in aperta malattia mentale, lo rendeva un interlocutore inaffidabile, soggetto alle mutevoli influenze di coloro che gli stavano intorno.

Fu con queste premesse che Francesco Coppini si trovò a sbarcare a Dover il 4 giugno del 1459 con un incarico davvero complesso: convincere Enrico VI a fornire armi e denaro per la crociata e allo stesso tempo far pervenire il proprio appoggio alla fazione di York, con la speranza di agevolare un cambio di regime che consentisse a tutte le parti in causa - Papato, Ducato di Milano, lo stesso Coppini - di raccogliere i frutti di una manovra così spericolata.
Resurrezione di Lazzaro (dettaglio) Nicolas Froment
Il compito si rivelò difficile fin dall'inizio: Enrico VI diede solo un'adesione di facciata al progetto pontificio, mandando solo dopo lunghe insistenze alla Dieta di Mantova - che avrebbe dovuto bandire la crociata - una rappresentanza ridotta ai minimi termini e priva di alcun potere decisionale. Il risultato fu quello di far infuriare il Papa, che spinse sottobanco il Coppini a favorire sempre più apertamente la Casa di York, apparentemente assai ben più bendisposta dei Lancaster riguardo ai progetti papali.

Nel dicembre del 1459 Francesco Coppini ebbe da Pio II la nomina a nunzio pontificio con i pieni poteri di legato de latere (procedura, questa, del tutto eccezionale) nei regni d'Inghilterra e Irlanda e di Scozia. In pratica aveva la piena rappresentanza dell'autorità papale, con il compito di promuovere la pace e soprattutto di riscuotere le decime che sarebbero servite a finanziare la crociata bandita da Pio II.
Pio II Piccolomini
Ciò nonostante gli inglesi continuarono a mostrarsi ben poco disponibili ad aprire i cordoni della borsa per la crociata di Pio II: malgrado che la Dieta di Mantova la bandisse ai primi del gennaio del 1460 con un'apposita Bolla, il documento restò lettera morta e il Coppini attraversò nuovamente la Manica a maggio, sdegnato, come narra lo stesso Pio II, per il poco rispetto di cui era fatto oggetto e per gli ostacoli che venivano posti all'esercizio dei suoi poteri. 

A Calais lo attendeva John Neville conte di Warwick, il paladino della fazione di York, insieme con i partigiani più ragguardevoli del duca Riccardo. Francesco Coppini tornò sull'isola il 26 giugno insieme con l'armata di Warwick, e con i ribelli occupò Londra da dove il 3 luglio scrisse una lettera a Enrico VI per sollecitare nuovamente un incontro fra le due fazioni, protestando a più riprese la propria fedeltà alla Corona, caduta in sospetto ad opera di "detrattori contrari alla pace" e riproponendo la sua funzione di mediatore inviato dal papa. 

Un ruolo che almeno inizialmente lo stesso sinodo inglese riconobbe, confermando la sua autorità di legato. Il Coppini stesso ne scriveva al papa il 4 luglio 1460, curando di mettere in rilievo il vasto appoggio popolare riscosso a Londra dagli York. 
Resurrezione di Lazzaro (dettaglio) Nicolas Froment
Ma la situazione era ormai tale da non lasciare più spazio alle sfumature: la sua presenza a fianco dell'armata di York alla battaglia di Northampton del 10 luglio, che vide la vittoria yorkista, la cattura dello stesso Enrico e la fuga della regina; la scomunica da lui lanciata prima della battaglia contro l'esercito regio; la sua successiva partecipazione, in un ruolo di primo piano, al recupero del controllo sul paese da parte degli York, ormai padroni di un re fantoccio; tutto questo non lasciava più dubbi sulla condotta scelta da Francesco Coppini, ormai apertamente uomo di parte.

I mesi successivi furono vorticosi, con gli York che presero e persero il potere, e il Coppini che dall'Inghilterra passò alle Fiandre, cercando di tenere anche da Bruges le fila della situazione, e spingendo per avere sempre maggiori riconoscimenti dal Papa, che però da una prima approvazione del suo operato passò, nei mesi successivi, a mostrare nei suoi confronti una sempre maggior freddezza.
Edoardo IV York
Infine il 29 marzo del 1461 Edoardo, figlio e successore del duca di York, con l'aiuto di Warwick sconfisse definitivamente i Lancaster a Towton, catturando di nuovo Enrico mentre la regina si rifugiava col figlio in Scozia, e ascese sul trono d'Inghilterra col nome di Edoardo IV. 

Di colpo Francesco Coppini ritrovò l'importanza e il ruolo di legato pontificio e di agente dello Sforza non più, come in precedenza, in un paese diviso e presso una sola fazione politica, ma presso una monarchia che, per quanto non del tutto consolidata, pure lo conosceva come amico, lo stimava e sollecitava il suo ritorno. 

Sembrava dunque il trionfo della lunga e contrastante trama intessuta dal Coppini; ma quel trionfo segnò anche l'inizio del suo irreversibile declino presso la Curia romana. Più volte nei mesi e negli anni precedenti Francesco Coppini aveva cercato di utilizzare i risultati raggiunti per ottenere dal papa una nomina a cardinale o anche - attraverso i buoni uffici di Francesco Sforza - al seggio arcivescovile di Firenze. Ma Pio II nicchiava e pur sostanzialmente approvando i servizi e le iniziative del Coppini, evitava di esporsi pubblicamente in modo netto.
Nicolas Froment, Trittico della Resurrezione di Lazzaro
Dopo la battaglia di Towton e la vittoria degli York Francesco Coppini dovette prendere una decisione e giocò d'azzardo, puntando tutto sulla possibilità di fomentare un'invasione inglese dei feudi francesi ma presentandosi allo stesso tempo alla Corte di Francia come agente diplomatico papale in un ruolo solo apparentemente super partes. 

In questa veste cercò di intervenire a nome del Papa per discutere con il nuovo re Luigi XII della situazione italiana, provocando l'inattesa richiesta del re di un cambio di politica da parte del Papato e del ducato di Milano che sconcertò e irritò Pio II perché sembrava dovuta a prima vista, più che a un immedesimarsi di Luigi nei suoi nuovi interessi di re di Francia, all'immischiarsi del Coppini in affari di Stato che non lo riguardavano, nell'estremo tentativo di procurarsi il cappello cardinalizio.  
Luigi XII di Francia
Così il gioco del Coppini - doppio, triplo - finì questa volta con il ritorcerglisi contro: il 16 agosto 1461, Pio II, con la scusa di voler sentire un resoconto dei fatti d'Inghilterra prima che giungesse un'ambasceria inviata da Edoardo, lo richiamò a Roma e trasferì la sua carica e i suoi poteri di legato de latere per Francia, Inghilterra, Scozia e Borgogna a Jean Jouffroy, vescovo di Arras.

Francesco Coppini si rese conto di essere caduto in disgrazia e cercò per quanto possibile di raccogliere documentazioni, testimonianze e appoggi. Rallentò il rientro a Roma che  avvenne solo verso la fine del 1461. E per qualche tempo confidò di essere sfuggito a un'inchiesta sul suo operato.

Ma verso la fine di maggio del 1462 Pio II con un ordine segreto lo fece arrestare e rinchiudere in Castel Sant'Angelo. Inutili le proteste dei cardinali e dei prelati di Curia -"fere omnes", ammette lo stesso papa - per il procedimento non ortodosso, inutili gli appelli dello stesso Francesco Sforza: Pio II era andato a Viterbo, lontano da Roma, e il tempo lavorava per lui. 

I giudici del Papa perquisirono la casa del Coppini, esaminarono tutti i suoi documenti e registri contabili e gli strapparono infine una confessione in cui si dichiarava reo di aver levato il vessillo della Chiesa per una guerra civile, di aver scagliato l'anatema contro l'esercito regio inglese e di aver fatto mercato simoniaco di benefici, ordini sacri e indulgenze: a questo punto Pio II provvide alla cancellazione politica del suo operato con una bolla al popolo inglese, inviata il 30 agosto 1462.

Al suo ritorno a Roma, il 18 novembre, Pio II sottopose in segreto al Tribunale di Rota la confessione del vescovo e ottenerne una sentenza, con la quale stroncò decisamente le esitazioni e le obiezioni del Collegio cardinalizio. Il 14 febbraio 1463 Francesco Coppini fu deposto dall'episcopato, privato di ogni beneficio e i suoi beni vennero confiscati per essere venduti all'asta.

A quel punto chiese ed ottenne di entrare come monaco benedettino in San Paolo fuori le Mura a Roma, dove fece la sua professione il 21 marzo 1463, assumendo il nome di Ignazio e conservando il presbiterato. Qui non si rassegnò alla disgrazia e continuò a sperare, come risulta dalla corrispondenza di questo periodo, di risollevarsi. 
Il Caso e la Fortuna, Dosso Dossi 1535
Nulla potè comunque fare finché sul soglio pontificio restò Pio II; ma alla sua morte, l'anno seguente, poté prepararsi a pronunciare di fronte al Collegio cardinalizio presieduto dal nuovo Papa Paolo II un'appassionata autodifesa in cui rievocava i fatti della sua legazione, la sua speranza nel cardinalato, il subìto voltafaccia del Papa provocato dall'invidia dei suoi nemici, passando in rassegna i soprusi patiti, l'ingratitudine del pontefice, le calunnie montate con odiosa determinazione. 

Lamentava l'ingiusta miseria in cui erano stati lasciati i suoi nipoti, protestava la venticinquennale fedeltà alla Chiesa; e chiedeva infine, in nome della giustizia non solo divina, ma anche umana, la reintegrazione nel grado e nella dignità. Morì però prima di pronunciarla, probabilmente a Roma, alla fine di settembre del 1464.

Della sua persona resta un bel ritratto dall'aspetto realistico, dipinto sulle ante di chiusura del Trittico della Resurrezione di Lazzaro di Nicolas Froment, acquistato da Lorenzo de' Medici all'asta dei beni confiscatigli da Pio II, e donato al convento di Bosco ai Frati nel Mugello, che lo ha conservato fino ai giorni nostri.