domenica 10 marzo 2024

Irene Bonamici, la santa libertina

Dal film L'Abbandono (2017) 
"Gli attuali conventi sono un nido di suddite disgraziate e scontente, che dopo aver condotta una vita infelice qui in terra vanno incontro ad un'eterna dannazione, e che sarà sempre un'opera grata a Dio, e degna della sua Religione e Clemenza, se accordando che un solo convento di monache sia in ogni Diocesi sopprimerà tutti gli altri e ridonerà la libertà a tante disgraziate che l'hanno violentemente o inconsideratamente perduta"¹
La domenica di Pentecoste del 1781 si presentava come una giornata di ordinaria serenità. Il sole splendeva; alto nel terso cielo di giugno, tingeva di luce calda il mondo e lasciava presagire l'estate ormai prossima. Nessuno poteva immaginare che a fine mattinata la terra avrebbe tremato: un lungo sussulto del suolo, accompagnato da un sordo boato e dal vibrare indistinto degli edifici, sconvolse la quiete domenicale.

Il vescovo Scipione de' Ricci, colto dal sisma nel Duomo di Pistoia proprio durante la predica della Messa, vide i fedeli fuggire disordinatamente dalla chiesa in preda al terrore e sebbene constatasse che non c'erano stati danni all'edificio interpretò l'evento come una diretta manifestazione della volontà divina.

Ripensò alla mattina e alla lettera che aveva sul tavolo e che aspettava di essere completata. Pochi giorni prima Francesco Maiocchi, il padre confessore che lui stesso aveva inviato al convento di Santa Caterina di Prato aveva negato l'assoluzione a due monache per motivi assolutamente gravi e inusitati.

Non si meravigliò del fatto che nel convento ci fossero disordini che richiedessero il suo intervento. Frati e suore erano stati fin dall'inizio del suo vescovato - appena un anno prima - una vera e propria spina nel fianco. Rifiutavano di riconoscere l'autorità del vescovo; pretendevano di gestire da soli i propri conventi, accettavano solo l'autorità della corte papale e cercavano costantemente di lavare in casa i propri panni sporchi, con la connivenza di Roma.

Sfruttando senza scrupoli le prerogative accumulate negli anni del principato mediceo gli Ordini monastici avevano costituito un vero e proprio Stato nello Stato; nei conventi non si applicavano le leggi del Granducato e tutto era demandato alle corti ecclesiastiche e in ultima analisi a Roma. Che nella maggior parte dei casi incassava le cospicue rendite e lasciava correre tutto il resto.

Peraltro la popolazione monastica era - per importanza economica e dimensione demografica - una realtà importante nel piccolo mondo toscano. Importante ma parassitaria: i conventi erano pieni di frati e suore che erano tali non per vocazione ma per convenienza loro o delle famiglie che spesso li avevano destinati a quella vita fin da bambini, per liberarsene e non dover dividere eredità destinate ai primogeniti o per non dover pagare doti onerose, oppure semplicemente come ricovero dall'indigenza, dalla vedovanza o dalla disoccupazione.

Non che Scipione non avesse saputo fin dal principio come stavano le cose: ma un conto è sapere, un altro è vivere qualcosa sulla propria pelle, per necessità o per dovere. Nel giugno del 1780 quando era arrivato a Pistoia - giovane vescovo appena nominato - aveva preso subito a cuore la questione dei conventi, che si trascinava da fin troppi anni: il vescovo Ippoliti e prima di lui il vescovo Alamanni avevano infatti già cercato di risolverla, invano.

I due conventi pistoiesi di Santa Lucia e Santa Caterina e quello omonimo di Prato erano chiacchierati da decenni. Voci di continue irregolarità turbavano la quiete delle loro mura. I frati domenicani, che avevano anche la cura delle monache del loro stesso Ordine, si macchiavano di atti indecenti, dormendo nelle stesse celle con le loro consorelle, chiamandole "spose", passando le serate a veglia con loro, trasformando le celle in bische per il gioco d'azzardo e non di rado dando veri e propri intrattenimenti che vedevano ospiti anche molti componenti della nobiltà cittadina, con balli e perfino recite teatrali.

Già: recite teatrali, oltretutto di autori profani: a Prato quest'inverno per il Carnevale avevano messo in scena addirittura La Vedova Scaltra di Carlo Goldoni. E proprio nel convento di San Clemente, che sarebbe dovuto essere di stretta clausura! 

Per l'occasione erano arrivati frati da Pistoia, da Firenze e perfino da Siena, insieme a un nutrito drappello di nobili pratesi; tutti ad applaudire Suor Caterina che, spogliata le veste monacale, impersonava la bella e volitiva vedova Rosaura e che sembrava una commediante fatta e finita. D'altro canto l'intero spettacolo era stato recitato da tutti gli attori con tanta bravura da dar l'impressione che il convento fosse diventato la sede di una compagnia d'istrioni.  

Alcune battute furono in seguito riportate dagli spettatori: in particolare restò impresso l'elogio di Don Alvaro, che sembrava così adatto al singolare fascino di suor Caterina:

"Voi non sembrate italiana. La scorsa notte mi sorprendeste. Vidi sfavillare dai vostri occhi un raggio di luminosa maestà, che tutto mi empiè di venerazione, di rispetto e di maraviglia. Voi mi sembraste per l’appunto una delle nostre dame, le quali, malgrado la soggezione in cui le teniamo, hanno la facoltà d’abbattere ed atterrare co’ loro sguardi."²

Al termine della commedia furono raccolte le offerte tra gli spettatori per destinarle all'impresario, che altri non era che il Padre confessore. Egli, anziché rifuggire un simile onore, incitò apertamente gli astanti a versare il loro obolo che - affermò - sarebbe stato usato per "prossime rappresentazioni". 

Scipione sorrise tra sé amaramente e concluse che la situazione era ormai davvero insostenibile e fuori di ogni controllo. Istintivamente riepilogò dentro di sé anche quanto gli era stato rivelato di Suor Caterina, e che rendeva le trasgressioni dei due conventi pistoiesi ben poca cosa di fronte a quanto stava accadendo in quello di Prato.

Suor Caterina, al secolo Irene Bonamici, era una monaca cinquantenne di nobile famiglia che all'interno del convento suscitava un misto di ammirazione e timore. Il suo viso, un tempo di delicata bellezza, conservava ancora un'aura di fascino, con rughe sottili che incorniciavano i suoi penetranti occhi verdi, che sembravano capaci di scrutare l'anima di chi le stava di fronte. Anche la sua voce, modulata ma decisa, tradiva una cultura non comune e una naturale predisposizione alla dialettica.

Scipione l'aveva incontrata in una delle prime visite che aveva fatto a Santa Caterina. Si era subito reso conto che si trattava di una donna particolare, ben diversa da tutte le altre monache con cui era entrato in contatto: dietro la sua apparenza impeccabile si celava, però, un'anima tormentata; e in qualche misura l'inquietudine di questa donna lo aveva colpito.

Irene era stata costretta a prendere i voti da adolescente contro la sua volontà, sacrificando le sue aspirazioni, rinunciando a una vita che avrebbe voluto ben diversa. Da ragazza aveva coltivato una passione per la letteratura e per l'arte; anche adesso scriveva poesie e continuava a pensare a quella vita libera e avventurosa che non avrebbe mai potuto conoscere.

Suo malgrado si era ritrovata reclusa con tutti i suoi sogni tra le mura del convento, costretta a seguire una routine rigida e monotona. La sua intelligenza vivace e il suo spirito ardente erano stati soffocati dalle regole claustrali e dalla rigida disciplina.

Nonostante la sofferenza interiore, Irene non si era arresa completamente. Aveva trovato conforto nella lettura e nello studio, approfondendo la teologia, la filosofia e la letteratura. Ma la sua ricerca intellettuale l'aveva portata ben presto molto lontano dall'ortodossia. 

Attratta dalle idee rivoluzionarie di Giordano Bruno e dalla spiritualità interiore di Miguel de Molinos, il mistico spagnolo che aveva teorizzato la possibilità di raggiungere l'unione con Dio attraverso l'annientamento della volontà e l'abbandono passivo all'amore divino, Irene aveva elaborato una sua personale versione della religione, molto più vicina all'eresia che al credo che avrebbe dovuto professare.

Al centro della sua fede aveva posto l'amore, inteso non solo come sentimento spirituale, ma anche come atto fisico e concreto. Secondo Irene, l'amore fisico era una manifestazione della divinità, un modo per entrare in contatto con l'essenza divina presente in ogni essere umano. 

Ispirata dalle idee di Giordano Bruno sull'anima del mondo, ella sosteneva che l'amore permeava l'intera realtà, animando ogni creatura. La Chiesa, con la sua rigida moralità e la sua condanna del piacere, negava agli esseri umani la possibilità di vivere questa esperienza sublime. Irene, invece, invitava ad abbracciare l'amore in tutte le sue forme, come espressione della loro natura divina.

Quando doveva parlare alle consorelle usava spesso parabole e metafore per alludere al suo credo. Parlava dell'amore come di una danza sacra, un'unione mistica tra l'anima e il corpo, tra l'uomo e Dio. La sua voce vibrava di passione quando descriveva la gioia e l'estasi che derivavano dall'esperienza dell'amore fisico: diceva che il paradiso è qui, dentro tutti noi, che aspetta soltanto di essere scoperto.

Irene non restò sola a lungo nella sua ricerca spirituale. All'interno del convento, creò in breve un folto gruppo di seguaci con cui condivise le sue idee e mise in pratica le sue teorie sull'amore come manifestazione della divinità.

Tra queste adepte spiccava una giovane conversa, Clodesinda Spighi, di dodici anni più giovane di Irene. Clodesinda era anche lei di famiglia aristocratica; una ragazza sensibile e intelligente, attratta dalla spiritualità non ortodossa della monaca. Ben presto divenne la sua discepola più fedele, l'unica con cui Irene osava condividere i segreti più profondi del suo credo.

Clodesinda era attratta dalla forza e dalla sicurezza di Irene, che la trattava con gentilezza e rispetto, incoraggiandola a coltivare la sua intelligenza e il suo spirito critico. L'ammirazione per la sua mentore si trasformò presto in qualcosa di più profondo. Clodesinda era incantata dalle sue idee rivoluzionarie sulla fede e sull'amore, che le aprivano nuovi orizzonti e la facevano uscire dalla gabbia delle convenzioni.

Nelle lunghe conversazioni con Irene Clodesinda si sentiva finalmente libera di esprimere i suoi dubbi e le sue aspirazioni, trovando un'anima affine con cui condividere la sua ricerca di autenticità. L'attrazione fisica era solo una componente di questo sentimento complesso. Clodesinda desiderava ardentemente Irene, non solo come amante, ma anche come guida e maestra di vita. In breve la sua divenne una devozione totalizzante, un amore che la spinse a sfidare le regole del convento e a mettere a rischio la sua stessa salvezza.

Irene e Clodesinda presero l'abitudine di riunirsi con le altre adepte per discutere di filosofia, teologia e mistica. Pregavano insieme, meditavano e si dedicavano a pratiche spirituali che includevano l'amore fisico, vissuto come un atto sacro e di profonda comunione. I frati Domenicani, a cui era demandata la cura delle monache, tolleravano questa deriva in cambio di qualche dimostrazione formale di ortodossia. Irene e Clodesinda infatti negli anni "abiurarono" per ben tre volte il loro credo per poi continuare a praticarlo come se nulla fosse.

Scipione pensò che era ben strano che proprio nello stesso convento in cui era vissuta quella Santa Caterina de' Ricci che era stata da poco elevata agli onori degli altari un'altra donna seguisse un cammino apparentemente simile, ma con risultati così diametralmente opposti. Irene, eretica e ribelle, condannata dalla Chiesa. Santa Caterina, mistica e devota, elevata agli altari. 

Rifletté che santità ed eresia sono due concetti che si contrappongono, ma che in fondo non sono poi così distanti. Entrambe le donne cercavano Dio, entrambe seguivano un cammino: e pensò - scavando tra le proprie reminiscenze scolastiche - che "eresia" deriva proprio dal greco αἵρεσις "hairesis", che significa "scelta". La scelta di Irene era stata diversa da quella di Caterina nella misura in cui sono diversi due lati di uno stesso specchio.

E non capitava forse a volte anche a lui quella sensazione di straniamento? Come un sussurro di una voce appena intelligibile, come un brivido che improvvisamente lo pervadeva tutto e per un attimo faceva comparire l'interrogativo più importante, il quesito ultimo: quale sarà la scelta più giusta? Quella di Caterina o quella di Irene? Oppure entrambe?

Anche Lazzero Palli, il vicario che aveva mandato più volte a interrogare Irene, trascrivendo domande e risposte, aveva riferito che malgrado avesse dato fondo a tutta la sua capacità oratoria e dialettica non solo non era riuscito ad ottenere da lei una conversione, ma in diverse occasioni si era trovato stranamente senza parole, come affascinato di fronte alle tesi che lei sosteneva così ardentemente. Un passaggio in particolare di quell'interrogatorio gli era rimasto impresso  e continuava a ronzargli in testa: 

"In tutte le religioni ci possiamo salvare, ed esercitando erroneamente quello che diciamo impurità, era la vera purità: quella Iddio ci comanda e vuole noi pratichiamo, e senza della quale non vi è maniera di trovare Iddio, che è verità."³

Irene affermava che la vera purità è ciò che Dio ci comanda e vuole che pratichiamo, implicando che la salvezza non dipende dalla conformità a un dogma religioso specifico, ma piuttosto da una sincera ricerca della verità e da una vita condotta secondo principi morali e spirituali; e senza la vera purità, che è la ricerca della verità, non è possibile trovare Dio.

Verità, moralità, spiritualità e salvezza. Scipione pensò che se avesse dovuto condensare il proprio ministero in quattro parole non avrebbe saputo trovarne di migliori.

Per quanto le altre monache di Santa Caterina gli avessero dichiarato di abiurare a tutto quello che Sua Signoria voleva pur di essere lasciate in pace, la sola compagna che era rimasta fedele a Irene, Clodesinda, affermava senza vergogna di volerla seguire ovunque, e che non le importava nulla se avesse meritato l'Inferno, perché anche all'Inferno sarebbe stata felice se fosse stata insieme a lei.

Scipione tornò a pensare a ciò che doveva fare: doveva firmare la lettera destinata al Cardinale Andrea Corsini, visto che il nuovo Arcivescovo di Firenze non era ancora stato nominato. Doveva redigere anche una relazione a sua Altezza il Granduca Leopoldo per metterlo al corrente delle proprie decisioni. Avrebbe imposto la chiusura dei tre conventi domenicani di Pistoia e Prato, il trasferimento delle monache ad altre sedi e l'attribuzione alla Diocesi della cura dei conventi che restavano, togliendola ai Padri domenicani: a mali estremi dovevano seguire estremi rimedi.

Quanto a Irene e Clodesinda avrebbe sondato la disponibilità dei parenti a riaccoglierle in casa: ma a questo punto, con lo scandalo portato in piena luce, le famiglie avrebbero quasi certamente rifiutato di ospitare due eretiche peccatrici: nemmeno l'amore che si dichiaravano sarebbe bastato a salvarle. 

Ripensò alla conversazione che aveva avuto pochi giorni prima con il Cardinale Corsini. Avevano entrambi convenuto che con tutta probabilità alla fine l'unica soluzione sarebbe stata quella di confinare le due sciagurate nello Spedale di San Bonifazio a Firenze: il ricovero dei matti, dove avrebbero espiato la loro colpa rinunciando alla libertà e all'amore.

Camminando veloce, immerso nei pensieri, era ormai arrivato al suo studio nel Palazzo Vescovile. Il terremoto, per fortuna, sembrava non aver fatto danni: il cielo sulla piazza era azzurro, rigato solo dalle traiettorie delle rondini. Una lama di luce brillante cadeva proprio sulla scrivania, dove i fogli della lettera aspettavano la sua firma e il sigillo; e il bianco della carta spandeva la luce tutto intorno, come una sorta di aureola che incorniciava il documento.

Si fermò un attimo sulla porta, come interdetto; poi si fece animo, andò alla scrivania, si mise a sedere, prese penna e calamaio. Guardò la luce abbagliante sul foglio, e il contrasto che creava con il resto della stanza: buio e luce, santità ed eresia. Così distanti, così vicine: non era forse anche la santità una forma di follia? Ma quella di Caterina era salita sugli altari, quella di Irene sarebbe finita tra i pazzi di San Bonifazio.

Prese la penna, controllò la punta, la immerse nel calamaio e firmò. Ma inavvertitamente una goccia di inchiostro sfuggì, e andò a creare quella che sembrava proprio una piccola stella. 

Nera, sul foglio candido, nitida nella luce.

¹Lettera di Scipione de' Ricci a Leopoldo I, 1786
²La Vedova Scaltra, 
Atto II Scena II
³
Vita di Scipione de' Ricci, vescovo di Pistoia e Prato - Luis De Potter, 1825 - p. 244

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