sabato 15 novembre 2025

San Sebastiano, Benozzo Gozzoli, e la peste

Affresco Votivo di San Sebastiano, Benozzo Gozzoli

Nella chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano c’è un affresco che porta addosso le ferite – e la speranza – di un anno preciso: il 1464. La peste non era un’ombra astratta, era lì, feroce, e la città cercava protezione ovunque potesse. Proprio in quei mesi Benozzo Gozzoli stava lavorando nel coro della chiesa al grande ciclo con le Storie della vita di sant’Agostino, commissionato dal colto frate agostiniano Domenico Strambi. Ma all’improvvisa nuova esplosione del morbo, nel giugno di quell’anno, gli agostiniani lo fermano: lascia il coro, abbiamo bisogno di un’immagine che ci salvi.

Gozzoli, obbediente e velocissimo, dipinge così il grande San Sebastiano votivo a metà della navata centrale. È completato il 28 luglio 1464. Tempi strettissimi: la città non poteva permettersi esitazioni. Anche il Comune, l’anno prima, aveva deliberato un affresco analogo nella Collegiata: segno che la peste stava colpendo forte almeno dal 1462, e che il santo-protettore era diventato un’ossessione collettiva.

Il San Sebastiano di Benozzo non è quello tradizionale, nudo e trafitto: qui è vestito, solido, quasi un principe. Con il suo grande mantello ripara il popolo dalle frecce dell’ira divina, un motivo antico della tradizione umbra che il pittore trasforma in una scena di tenerezza e potenza insieme. Gozzoli immagina il santo come uno scudo umano, calato in mezzo alla gente di San Gimignano, che agli inizi degli anni Sessanta del Quattrocento aveva già visto morire amici e parenti.

Sopra, il cielo si apre in un turbine di angeli. Cristo mostra le piaghe, la Madonna scopre il seno: è la doppia intercessione tipica della tradizione toscana, un gesto semplice e struggente, quasi familiare, per ricordare che la misericordia passa anche attraverso simboli corporei e quotidiani. A sorreggere l’intera scena c’è il colore: quei blu e quei rossi che solo Gozzoli sapeva far brillare così, come se l’affresco fosse illuminato da dentro.

Sotto, nella predella, appare Cristo crocifisso tra san Nicola da Tolentino, la Vergine, Giovanni Evangelista e sant’Agostino. In ginocchio, discretissimo, c’è proprio lui: Fra Domenico Strambi, il committente, che affida alla pittura la speranza della città. Nei tondi laterali compaiono santi a raffica: Giuliano, Antonio Abate, Giovanni Battista, Domenico, Giusto, Agata. Una piccola corte celeste chiamata in rinforzo, non si sa mai. E poi la folla vera: uomini, donne, bambini, volti seri, teste chine. È San Gimignano stessa, quella reale, che guarda il santo sperando di scamparla.

Entrare oggi a Sant’Agostino e trovarsi davanti questo affresco è un’esperienza strana: senti ancora l’urgenza con cui è stato dipinto, la paura che ne ha guidato la mano, ma anche la fiducia testarda di una comunità che non voleva arrendersi. In mezzo a tutto quel terrore, Benozzo trova il modo di creare un’immagine che consola: un santo che non soffre, ma protegge. Un uomo che si mette tra te e la tempesta.

E San Gimignano, con le sue torri vigilanti, continua a custodire quella scena come un promemoria di quanto fragile – e straordinaria – sia sempre stata la vita umana.

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