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| Vibia Sabina |
Adriano dopo la morte la divinizzò, forse per riconoscenza, forse per decoro imperiale, forse per lavarsi la coscienza dopo una vita di ignoranze e tradimenti coniugali. Guardandola così, scolpita nel marmo bianco, sembra davvero una divinità pagana. In realtà, all’epoca era tutto tranne che bianca.
La statuaria romana – come quella greca – era infatti vivacemente colorata. Non “tinte pastello”, ma colori pieni, dettagliati, studiati per rendere vivi gli occhi, i capelli e perfino le sfumature della pelle. Per decenni abbiamo creduto all’estetica del “bianco puro” solo perché i pigmenti, col tempo, sono spariti. Un gigantesco equivoco culturale, insomma.
Gli occhi, che oggi ci appaiono vuoti, un tempo erano tutto tranne che inespressivi. Iridi e pupille venivano tracciate con pigmenti scuri, e nelle opere più pregiate si usavano addirittura paste vitree, in modo che lo sguardo avesse una lucentezza quasi inquietante, da persona viva.
Le labbra erano ravvivate da un rosso pieno, di solito ottenuto col cinabro, niente di eccessivo ma abbastanza da dare al volto un’aria presente, umana. La pelle restava chiara, certo, perché il marmo era già una buona base, ma veniva velata da sfumature rosate sulle guance e intorno agli occhi, come un trucco leggero steso con mano esperta. E poi c’era quella fascia che teneva insieme la massa dei capelli: anche quella era colorata, spesso in tinte decise come il blu, il rosso o perfino l’oro, perché a Roma – soprattutto a corte – la sobrietà non era una virtù poi così gettonata.
L’aspetto complessivo? Molto più realistico e sorprendentemente “vivo”, ben lontano dal marmo pallido che siamo abituati a vedere.
Insomma, la Sabina che vediamo oggi è solo lo scheletro visivo di ciò che era. Quella di allora - a colori - era un personaggio pieno, vivo, costruito per colpire lo sguardo e raccontare un ruolo, un rango, una storia. E guardandola così, sapendo tutto questo, il marmo non sembra più freddo. Sembra solo che il tempo abbia spento le luci, e che finalmente possiamo rivederle accese, almeno nella nostra immaginazione.



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