lunedì 24 novembre 2025

Il vero volto di Vibia Sabina

Vibia Sabina 

Oggi nel piccolo museo archeologico che sta accanto al Teatro Romano di Fiesole mi sono ritrovato davanti a un volto che ha attraversato i secoli con una calma un po’ enigmatica: quello di Vibia Sabina, moglie dell’imperatore Adriano per quasi quarant'anni. Una donna elegante, riservata, con un matrimonio non proprio da romanzo rosa (pare che tra lei e Adriano ci fossero più cerimoniali che tenerezze…), ma che nella ritrattistica ufficiale appare sempre impeccabile, serena e perfetta.

Adriano dopo la morte la divinizzò, forse per riconoscenza, forse per decoro imperiale, forse per lavarsi la coscienza dopo una vita di ignoranze e tradimenti coniugali. Guardandola così, scolpita nel marmo bianco, sembra davvero una divinità pagana. In realtà, all’epoca era tutto tranne che bianca.

La statuaria romana – come quella greca – era infatti vivacemente colorata. Non “tinte pastello”, ma colori pieni, dettagliati, studiati per rendere vivi gli occhi, i capelli e perfino le sfumature della pelle. Per decenni abbiamo creduto all’estetica del “bianco puro” solo perché i pigmenti, col tempo, sono spariti. Un gigantesco equivoco culturale, insomma.

Gli studi degli ultimi anni – imaging multispettrale, microscopia, analisi dei residui di pigmento – hanno rivelato come dovevano apparire queste sculture in origine. Nel caso di Sabina, possiamo immaginare qualcosa del genere:

I suoi riccioli – quei volumi quasi architettonici che si arrampicano sulla sommità del capo – erano dipinti, perché le romane non si accontentavano del marmo: volevano i colori. Castani caldi, biondi ramati, persino riflessi dorati per far scintillare la pettinatura alla luce del sole. La sua acconciatura fu imitata dalle dame dell’élite romana, un po’ come quando una first lady lancia una moda senza volerlo… o forse proprio volendolo.

Gli occhi, che oggi ci appaiono vuoti, un tempo erano tutto tranne che inespressivi. Iridi e pupille venivano tracciate con pigmenti scuri, e nelle opere più pregiate si usavano addirittura paste vitree, in modo che lo sguardo avesse una lucentezza quasi inquietante, da persona viva. 

Le labbra erano ravvivate da un rosso pieno, di solito ottenuto col cinabro, niente di eccessivo ma abbastanza da dare al volto un’aria presente, umana. La pelle restava chiara, certo, perché il marmo era già una buona base, ma veniva velata da sfumature rosate sulle guance e intorno agli occhi, come un trucco leggero steso con mano esperta. E poi c’era quella fascia che teneva insieme la massa dei capelli: anche quella era colorata, spesso in tinte decise come il blu, il rosso o perfino l’oro, perché a Roma – soprattutto a corte – la sobrietà non era una virtù poi così gettonata.

L’aspetto complessivo? Molto più realistico e sorprendentemente “vivo”, ben lontano dal marmo pallido che siamo abituati a vedere.

Insomma, la Sabina che vediamo oggi è solo lo scheletro visivo di ciò che era. Quella di allora - a colori - era un personaggio pieno, vivo, costruito per colpire lo sguardo e raccontare un ruolo, un rango, una storia. E guardandola così, sapendo tutto questo, il marmo non sembra più freddo. Sembra solo che il tempo abbia spento le luci, e che finalmente possiamo rivederle accese, almeno nella nostra immaginazione.

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