lunedì 24 novembre 2025

Il vero volto di Vibia Sabina

Vibia Sabina 

Oggi nel piccolo museo archeologico che sta accanto al Teatro Romano di Fiesole mi sono ritrovato davanti a un volto che ha attraversato i secoli con una calma un po’ enigmatica: quello di Vibia Sabina, moglie dell’imperatore Adriano per quasi quarant'anni. Una donna elegante, riservata, con un matrimonio non proprio da romanzo rosa (pare che tra lei e Adriano ci fossero più cerimoniali che tenerezze…), ma che nella ritrattistica ufficiale appare sempre impeccabile, serena e perfetta.

Adriano dopo la morte la divinizzò, forse per riconoscenza, forse per decoro imperiale, forse per lavarsi la coscienza dopo una vita di ignoranze e tradimenti coniugali. Guardandola così, scolpita nel marmo bianco, sembra davvero una divinità pagana. In realtà, all’epoca era tutto tranne che bianca.

La statuaria romana – come quella greca – era infatti vivacemente colorata. Non “tinte pastello”, ma colori pieni, dettagliati, studiati per rendere vivi gli occhi, i capelli e perfino le sfumature della pelle. Per decenni abbiamo creduto all’estetica del “bianco puro” solo perché i pigmenti, col tempo, sono spariti. Un gigantesco equivoco culturale, insomma.

Gli studi degli ultimi anni – imaging multispettrale, microscopia, analisi dei residui di pigmento – hanno rivelato come dovevano apparire queste sculture in origine. Nel caso di Sabina, possiamo immaginare qualcosa del genere:

I suoi riccioli – quei volumi quasi architettonici che si arrampicano sulla sommità del capo – erano dipinti, perché le romane non si accontentavano del marmo: volevano i colori. Castani caldi, biondi ramati, persino riflessi dorati per far scintillare la pettinatura alla luce del sole. La sua acconciatura fu imitata dalle dame dell’élite romana, un po’ come quando una first lady lancia una moda senza volerlo… o forse proprio volendolo.

Gli occhi, che oggi ci appaiono vuoti, un tempo erano tutto tranne che inespressivi. Iridi e pupille venivano tracciate con pigmenti scuri, e nelle opere più pregiate si usavano addirittura paste vitree, in modo che lo sguardo avesse una lucentezza quasi inquietante, da persona viva. 

Le labbra erano ravvivate da un rosso pieno, di solito ottenuto col cinabro, niente di eccessivo ma abbastanza da dare al volto un’aria presente, umana. La pelle restava chiara, certo, perché il marmo era già una buona base, ma veniva velata da sfumature rosate sulle guance e intorno agli occhi, come un trucco leggero steso con mano esperta. E poi c’era quella fascia che teneva insieme la massa dei capelli: anche quella era colorata, spesso in tinte decise come il blu, il rosso o perfino l’oro, perché a Roma – soprattutto a corte – la sobrietà non era una virtù poi così gettonata.

L’aspetto complessivo? Molto più realistico e sorprendentemente “vivo”, ben lontano dal marmo pallido che siamo abituati a vedere.

Insomma, la Sabina che vediamo oggi è solo lo scheletro visivo di ciò che era. Quella di allora - a colori - era un personaggio pieno, vivo, costruito per colpire lo sguardo e raccontare un ruolo, un rango, una storia. E guardandola così, sapendo tutto questo, il marmo non sembra più freddo. Sembra solo che il tempo abbia spento le luci, e che finalmente possiamo rivederle accese, almeno nella nostra immaginazione.

sabato 15 novembre 2025

San Sebastiano, Benozzo Gozzoli, e la peste

Affresco Votivo di San Sebastiano, Benozzo Gozzoli

Nella chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano c’è un affresco che porta addosso le ferite – e la speranza – di un anno preciso: il 1464. La peste non era un’ombra astratta, era lì, feroce, e la città cercava protezione ovunque potesse. Proprio in quei mesi Benozzo Gozzoli stava lavorando nel coro della chiesa al grande ciclo con le Storie della vita di sant’Agostino, commissionato dal colto frate agostiniano Domenico Strambi. Ma all’improvvisa nuova esplosione del morbo, nel giugno di quell’anno, gli agostiniani lo fermano: lascia il coro, abbiamo bisogno di un’immagine che ci salvi.

Gozzoli, obbediente e velocissimo, dipinge così il grande San Sebastiano votivo a metà della navata centrale. È completato il 28 luglio 1464. Tempi strettissimi: la città non poteva permettersi esitazioni. Anche il Comune, l’anno prima, aveva deliberato un affresco analogo nella Collegiata: segno che la peste stava colpendo forte almeno dal 1462, e che il santo-protettore era diventato un’ossessione collettiva.

Il San Sebastiano di Benozzo non è quello tradizionale, nudo e trafitto: qui è vestito, solido, quasi un principe. Con il suo grande mantello ripara il popolo dalle frecce dell’ira divina, un motivo antico della tradizione umbra che il pittore trasforma in una scena di tenerezza e potenza insieme. Gozzoli immagina il santo come uno scudo umano, calato in mezzo alla gente di San Gimignano, che agli inizi degli anni Sessanta del Quattrocento aveva già visto morire amici e parenti.

Sopra, il cielo si apre in un turbine di angeli. Cristo mostra le piaghe, la Madonna scopre il seno: è la doppia intercessione tipica della tradizione toscana, un gesto semplice e struggente, quasi familiare, per ricordare che la misericordia passa anche attraverso simboli corporei e quotidiani. A sorreggere l’intera scena c’è il colore: quei blu e quei rossi che solo Gozzoli sapeva far brillare così, come se l’affresco fosse illuminato da dentro.

Sotto, nella predella, appare Cristo crocifisso tra san Nicola da Tolentino, la Vergine, Giovanni Evangelista e sant’Agostino. In ginocchio, discretissimo, c’è proprio lui: Fra Domenico Strambi, il committente, che affida alla pittura la speranza della città. Nei tondi laterali compaiono santi a raffica: Giuliano, Antonio Abate, Giovanni Battista, Domenico, Giusto, Agata. Una piccola corte celeste chiamata in rinforzo, non si sa mai. E poi la folla vera: uomini, donne, bambini, volti seri, teste chine. È San Gimignano stessa, quella reale, che guarda il santo sperando di scamparla.

Entrare oggi a Sant’Agostino e trovarsi davanti questo affresco è un’esperienza strana: senti ancora l’urgenza con cui è stato dipinto, la paura che ne ha guidato la mano, ma anche la fiducia testarda di una comunità che non voleva arrendersi. In mezzo a tutto quel terrore, Benozzo trova il modo di creare un’immagine che consola: un santo che non soffre, ma protegge. Un uomo che si mette tra te e la tempesta.

E San Gimignano, con le sue torri vigilanti, continua a custodire quella scena come un promemoria di quanto fragile – e straordinaria – sia sempre stata la vita umana.

giovedì 13 novembre 2025

"Guardati": Giuseppe Giusti e l'arte di diffidare













  

Ci sono testi che sembrano usciti dalla Toscana granducale come da un cassetto dimenticato. È il caso dei Proverbi Toscani che Giuseppe Giusti cominciò a raccogliere ben prima del 1853, quando ancora Canapone regnava e l’Italia unita era un’idea che fumava solo nelle teste più ardite. Giusti, satirico fino al midollo ma anche osservatore lucidissimo del suo popolo, aveva messo insieme negli anni una straordinaria raccolta di proverbi, modi di dire, sentenze che circolavano tra campagne, osterie, mercati, controlli di gabella e strade di terra tutte sconquassate.

La maggior parte di questi proverbi sono brevi come stilettate: un verso, un lampo, una punzecchiatura. A volte comici, a volte spietati, sempre tagliati con quella lama sottile che è la lingua toscana quando non ha voglia di far complimenti. Giusti li raccolse, li sistemò, li commentò qua e là e restituì una fotografia antropologica del popolo prima che la parola “antropologia” entrasse nei libri.

In mezzo a questa miniera di frasi asciutte e folgoranti, però, c’è un pezzo che non assomiglia a nessun altro. È una specie di decalogo… a 24 comandamenti: una lista serrata di ammonizioni, una cascata di “guardati da…” che procede come una cantilena e insieme come un manuale di autodifesa popolare.

È talmente assertivo da sembrare il prontuario ufficiale del buon senso granducale: non un proverbio, ma un inventario di pericoli umani, animali, sociali, morali e professionali.

E dentro ci trovi tutto:
  • il medico ammalato, che è già un paradosso vivente;
  • il matto attizzato, forza incontrollabile;
  • la femmina disperata, che rompe gli argini di ogni convenzione;
  • il cane che non abbaia, che non avvisa;
  • i giudici dall’opinione ballerina;
  • gli speziali con ricette dubbie;
  • i notai con il loro micidiale “eccetere”;
  • il fatale “far quistione di notte”, precetto che oggi dovrebbe essere appeso sopra ogni chat di gruppo e ogni post di social media.

E tra gli altri c’è lei, la puttana vecchia, avvertimento fulminante. Non moralismo, ma lucidità: la professionista navigata, che non si illude più, non sbaglia più, conosce le debolezze altrui come un contabile conosce i numeri. È Machiavelli in sottoveste, ed è proprio per questo che il proverbio ti dice di starne lontano.

Questo “decalogo” è un unicum nella raccolta: lungo, ritmato, implacabile, quasi una litania laica recitata per non farsi beccare impreparati dal mondo. E più lo guardi, più capisci che non c’è psicologia, non c’è sociologia, non c’è teoria. C’è solo la realtà, nuda e toscana, che sa riconoscere i caratteri pericolosi a cento metri di distanza.

Il Granducato non c’è più, Giusti ormai è solo polvere e inchiostro, le osterie nuove si chiamano “bistrot” e gli speziali hanno la faccia dei farmacisti da banco. Eppure questo elenco di ventiquattro avvertimenti continua a guardarti come uno che ne ha viste tante e non si fa fregare da un sorriso.

Forse è questo il punto: siamo moderni solo finché non ci troviamo davanti un medico malato, un notaio con l’eccetera, o una puttana vecchia che ci squadra da capo a piedi. A quel punto la modernità svanisce, e restiamo identici ai toscani del 1853: diffidenti, un po’ furbi, un po’ ingenui… e eternamente vulnerabili alle stesse vecchie trappole.

Il mondo cambia, sì.
Le persone molto meno.
E Giusti se la ride, da qualche parte.

mercoledì 12 novembre 2025

Il silenzio di Camaldoli

Le casette dei monaci 

Oggi sono stato all’Eremo di Camaldoli.

È un luogo che non sembra stare nel tempo in cui viviamo. Ci arrivi attraversando la foresta del Casentino, un bosco che non fa da sfondo: ti assorbe. L’aria è più scura, più silenziosa, come se si camminasse dentro un pensiero antico.

L'ingresso dell'Eremo 

L’Eremo nacque attorno all’anno Mille per volontà di san Romualdo, che sosteneva una cosa semplice e radicale: per incontrare Dio bisogna prima imparare a stare soli con se stessi. Non una solitudine triste, ma una solitudine piena, attenta, scavata.

Qui le “celle” non sono stanzette.

L'altare di San Romualdo, nella cella

Sono piccole case in pietra, ognuna con un minuscolo orto davanti. Ce ne sono venti, ma quasi mai nella storia sono state tutte occupate. Oggi i monaci sono pochi, circa nove, dai 35 ai 70 anni più o meno. Vivono ciascuno nella propria casetta, con lo stretto necessario: uno scaldabagno, una stufa a legna come nei secoli passati (e qui gli inverni non sono uno scherzo), una scrivania, un letto, la cappellina privata.

L'ingresso della cella di San Romualdo  

La vita è solitaria: si chiama eremitaggio, ed è diverso dalla clausura. La clausura è una comunità chiusa al mondo esterno, ma comunque comunità, cioè convivenza. L’eremitaggio, invece, è essere separati anche tra loro. Ci si incontra per la preghiera e per pochi momenti comuni, ma la porta della propria cella resta chiusa. Il silenzio non è un accessorio: è lo strumento.

Il letto di San Romualdo  

Le concessioni alla modernità sono minime, essenziali, mai invadenti: una piccola lavanderia con la lavatrice che usano a turno, un refettorio comune dove da qualche anno pranzano e cenano insieme, e una governante, che vive nella foresteria fuori dal recinto dell’Eremo. Non entra: passa il cibo, nient’altro. Per il resto, niente televisione, niente internet. Zero rumore. Zero distrazioni.

Badessa, la gatta dei monaci 

A mantenere il controllo dell’ordine e della misura c’è un Priore dalla disciplina ferma ma non ottusa. E a vigilare su tutto il complesso, un personaggio importante: Badessa, la gatta. Lei non fa voto di silenzio, ma di solito parla poco lo stesso. È la vera autorità morale, inutile negarlo.

La facciata della chiesa 

La chiesa dell’Eremo non è più quella originaria voluta da san Romualdo: andò distrutta in un incendio nel 1698. Quella attuale è una chiesa barocca, piena di stucchi, cornici, dorature — un contrasto quasi sorprendente rispetto all’essenzialità delle celle: come se il cuore fosse austero e la voce splendesse.

L’Eremo è in parte visitabile: una breve visita guidata di circa mezz’ora racconta ciò che questo luogo è oggi. Nel nostro caso, a condurla è stata una signora bravissima, capace di spiegare con semplicità perché una vita come questa, che a molti pare impossibile, per loro invece è ancora piena, viva, pensata.

L'interno barocco della chiesa 

Visitare l’Eremo significa sbattere contro una domanda che non sempre abbiamo voglia di farci: che cosa resta quando togli tutto? Quando non ci sono rumori, distrazioni, notifiche, discorsi, richieste?

E capisci che non si tratta di “fuga dal mondo”. È piuttosto il tentativo di sentirne finalmente il fondamento. E il silenzio, quassù, non è vuoto. È pieno fino all’orlo.

I boschi autunnali intorno all'Eremo


martedì 4 novembre 2025

Il pulpito nascosto


A prima vista, la chiesa di Sant’Andrea a Pistoia può sembrare una di quelle piccole chiese un po' anonime che si incontrano girando per le strade del centro storico. Ma dentro custodisce un capolavoro assoluto della scultura gotica italiana: il pulpito di Giovanni Pisano, terminato verso il 1301.

Giovanni era figlio di Nicola Pisano, autore del celebre pulpito del Duomo di Pisa. Ma non volle restare nell’ombra paterna: intraprese un percorso autonomo, lasciandosi alle spalle l’equilibrio classico di Nicola per abbracciare una nuova sensibilità. La scultura gotica, di cui Giovanni è il massimo interprete in Italia, nasce proprio da questa tensione: non più figure rigide e simboliche, ma corpi vivi, che si muovono, si sfiorano, esprimono emozioni e dolore.

Crocifissione 

Snellì l’architettura, rese più acuti gli archi, fece emergere le figure dalla pietra, accentuò i moti e le tensioni. Questa vocazione gotica trova respiro nelle cinque lastre scolpite del pergamo: la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Strage degli Innocenti, la Crocifissione e il Giudizio Universale. Le scene, separate da grandi figure angolari scolpite a tutto tondo, sembrano animate da una vita propria. I corpi si agitano, i volti si contraggono, le pieghe delle vesti vibrano di pathos e di grazia.

Strage degli Innocenti 

Ma queste immagini non erano soltanto meraviglia estetica: avevano una funzione didattica precisa. In un’epoca in cui la maggior parte della popolazione era analfabeta, il pulpito diventava un libro di pietra. Ogni rilievo raccontava un episodio del Vangelo, traducendo in gesti e volti ciò che le parole della Scrittura annunciavano dall’altare. Il fedele, guardando quelle scene scolpite con forza teatrale, imparava a riconoscere il dolore della Passione, la tenerezza della Natività, la speranza della Redenzione. La scultura diventava così una forma di catechesi visiva, un ponte fra la parola e lo sguardo.

Giudizio Universale 

Il pulpito fu voluto dal plebano Arnoldo, che grazie ai finanziamenti di Andrea Vitelli e Tino Vitale poté affidare l’opera a uno dei più prestigiosi scultori del suo tempo. Non lo sappiamo da documenti, ma da un’iscrizione in versi latini che corre alla base dell’opera, come un’antica firma che racconta una storia di fede e d’arte.

All’epoca Sant’Andrea non era una chiesa qualsiasi: era la pieve cittadina, dotata del diritto di battezzare, e il suo parroco era la seconda figura più importante dopo il vescovo. Un luogo sacro e civico insieme, dove Pistoia scelse di lasciare un segno della propria grandezza.

Annunciazione e Natività 

Oggi, nella penombra di quella che appare una chiesa minore, il pulpito di Giovanni Pisano risplende come un miracolo di pietra. I suoi leoni sembrano ancora vegliare, e l’aquila in cima — simbolo dell’evangelista Giovanni — osserva dall’alto, ricordando che anche il marmo, nelle mani di un grande artista, può respirare.

giovedì 23 ottobre 2025

Il filo del cielo: dalla cintura di Afrodite alla Cintola della Vergine di Prato

La Madonna dona la sua cintura all'Apostolo Tommaso
Santa Fiora, Pieve di Flora e Lucilla, Andrea della Robbia, circa 1470
Molto prima che la Madonna consegnasse la sua Cintola all’apostolo Tommaso, l’umanità aveva già immaginato oggetti simili — segni lasciati dal divino come pegni di presenza. Il mito della cintura sacra attraversa i millenni, cambiando solo linguaggio: da strumento di potere o desiderio nelle religioni antiche, a simbolo di fede e grazia nel cristianesimo.


Nell’Iliade (XIV, 214–221), Afrodite scioglie dal petto la sua
kestos himas, la cintura incantata, e la porge a Era, che la userà per sedurre Zeus e distoglierlo dalla guerra di Troia. Il passo recita:
“E la dea sciolse da sotto il petto
la cintura ricamata, variegata, in cui si trovano
tutte le seduzioni: amore, desiderio, dolcezza di parole,
e l’incanto che ammorbidisce i cuori, dono di Afrodite.”

In quella cintura — “in cui tutto è racchiuso”, parafrasando il testo — risiede l’essenza stessa del potere divino: l’unione tra corpo e spirito, eros e armonia cosmica. È un oggetto femminile che fa da tramite fra la sfera celeste e quella terrena, capace di trasmettere forza vitale. Non a caso, molti studiosi (da Mircea Eliade a Károly Kerényi) hanno visto nella kestos himas un archetipo remoto di quella cintura mariana che, più di un millennio dopo, avrebbe unito cielo e terra in chiave cristiana.

Nel mondo antico il tema ritorna in mille varianti: la cintura di Ippolita, conquistata da Eracle come segno di dominio e iniziazione; il velo di Ino-Leucotea, donato a Ulisse come protezione divina; la fascia di Ishtar, simbolo del potere riproduttivo e cosmico della dea babilonese; e persino gli exuviae eroici, le armi o le ossa degli eroi che le città greche veneravano come contenitori della loro dynamis, la forza divina. In tutte queste storie, la logica è la stessa: un frammento materiale che custodisce la presenza del sacro, una pars pro toto del divino. La cintura, il velo o la reliquia diventano il tramite fisico di un legame che unisce gli dèi agli uomini.

Quando il cristianesimo si diffonde nel Mediterraneo, non cancella questa sensibilità: la sublima. La cintura di Maria è la risposta spirituale alla cintura di Afrodite. Dove la dea dell’amore offre un pegno di desiderio, la Vergine offre un pegno di fede. Dove l’una spegne la guerra con l’eros, l’altra placa il dubbio con la grazia. Il gesto è identico: un essere divino che, nell’atto di elevarsi o di agire sul mondo, lascia un segno del proprio corpo come promessa di unione. Il simbolo si trasforma, ma la struttura mitica resta intatta. In entrambi i casi, è la cintura come archetipo del contatto con il divino: ciò che lega, ciò che unisce, ciò che fa dell’invisibile qualcosa di percepibile.

Nella Pieve delle Sante Flora e Lucilla, a Santa Fiora, si trova una delle opere più sorprendenti dell’arte robbiana: una grande terracotta invetriata che raffigura la Madonna nell’atto di donare la propria cintura all’apostolo Tommaso. È un’immagine che, a prima vista, sembra appartenere alla devozione fiorentina o pratese del Quattrocento. Eppure si trova qui, sull’Amiata, ben lontano dalle grandi città. Una presenza tanto insolita quanto eloquente. 

L’iconografia della Madonna della Cintola nasce da una leggenda apocrifa antichissima, la cui stesura più antica sembra essere una versione in siriaco del Transitus Mariae, risalente al IV secolo, probabilmente di ambiente giudeo-cristiano palestinese. Questo testo racconta che al momento della sua assunzione al cielo, Maria apparve all’apostolo Tommaso — l’unico assente al momento della sua morte — e, per rassicurarlo, lasciò cadere verso di lui la propria cintura come segno tangibile della sua glorificazione. Quel gesto, di intensa umanità, divenne presto un simbolo potentissimo: la prova concreta del passaggio della Vergine dal mondo terreno a quello celeste. Un filo di stoffa che univa il visibile all’invisibile, un gesto di misericordia e di prova, ma anche di relazione. Un filo che legando Maria a Tommaso legava anche il cielo alla terra.

Proprio da questa leggenda nacque uno dei culti più radicati della Toscana: quello della Sacra Cintola di Prato. Secondo la tradizione, un mercante pratese, Michele Dagomari, la portò in patria nel XII secolo dopo un pellegrinaggio in Terra Santa. Alla sua morte, la reliquia fu affidata alla Pieve di Santo Stefano e divenne presto il cuore spirituale e identitario della città. Le ostensioni pubbliche della Cintola — ancora oggi celebrate — scandirono i momenti solenni della vita civica. Non era solo un oggetto di fede: era la bandiera sacra di un’intera comunità, una sorta di “sigillo divino” della città sul suo stesso destino.

Il prestigio di Prato crebbe a dismisura. La Cintola attirava pellegrini, mercanti, artisti e donazioni, trasformando la città in una piccola capitale della devozione mariana. Quando Donatello e Michelozzo scolpirono il celebre pulpito esterno del Duomo, da cui la reliquia veniva mostrata al popolo, resero visibile la funzione civile e politica di quel culto: l’arte come strumento di mediazione fra cielo e terra, ma anche fra fede e potere.

Peraltro la Cintola non era solo pratese. Esistevano ed esistono altre reliquie simili sparse nel mondo cristiano: al Monastero di Vatopedi sul Monte Athos, dove una cintura di lana di cammello è venerata come “Santa Zoni”; nella Chiesa di Santa Maria in Soonoro, a Homs, in Siria, centro della tradizione siriaco-ortodossa; nel Monastero di Trooditissa, a Cipro, dove la cintura è invocata come aiuto per la fertilità; nelle collegiate francesi di Le Puy-Notre-Dame e Quintin, legate ai ritorni crociati; nella Cattedrale di Tortosa, in Catalogna, dove la “Santa Cinta” è simbolo cittadino; e perfino, in epoca medievale, in Inghilterra, nelle abbazie di Somerset, prima che la Riforma cancellasse il culto. Sono tutte varianti dello stesso mito: la Vergine che lascia un segno tangibile della propria presenza nel mondo. Ogni luogo ne fece un simbolo di protezione e di identità. Ma il filo originario, almeno in ambito occidentale — tanto per restare nella metafora — parte proprio dalla Toscana e da Prato.

Ecco allora che la terracotta invetriata di Andrea della Robbia nella pieve di Santa Flora e Lucilla acquista un significato che va ben oltre la devozione locale. La famiglia Sforza-Conti di Santa Fiora, signori del borgo, aveva stretti legami con Firenze e ne condivideva i modelli artistici e religiosi. Commissionare un rilievo robbiano con la Madonna della Cintola significava aderire a un linguaggio figurativo fiorentino-pratese, a quella raffinata religiosità visiva che univa bellezza, fede e identità politica. In un certo senso, la Pieve delle Sante Flora e Lucilla si inseriva così nella stessa rete simbolica che da Prato e Firenze irradiava tutta la Toscana centrale.

Nel Medioevo, possedere una reliquia importante significava porsi al centro del mondo. Le reliquie generavano pellegrinaggi, i pellegrinaggi generavano economie, e le economie consolidavano poteri. La reliquia era insieme motore economico, garanzia teologica e segno civico. Prato, Siena, Pisa, Bari — tutte costruirono la propria identità sulla presenza di un corpo santo o di un oggetto miracoloso.

Il culto delle reliquie non nasce con il cristianesimo, ma rappresenta in esso una straordinaria trasformazione culturale di un impulso molto più antico: quello di dare corpo al sacro, di renderlo tangibile. Nel mondo pagano esistevano già oggetti di contatto con il divino, "reliquie" in senso lato. Ad esempio nel Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina il contatto col divino passava attraverso oggetti oracolari, offerte, sortes estratte a caso in una sorta di proto-lotteria sacra e pietre considerate “abitate” dalla divinità. Erano reperti di potenza, non tanto simboli quanto presenze fisiche del dio nel mondo. Analogamente, nei templi greci si veneravano resti eroici — ossa di eroi, armi, perfino pietre cadute dal cielo — e si riteneva che custodissero la dynamis, la forza divina. Quando gli Spartani o gli Ateniesi traslavano le ossa di un eroe nel proprio territorio, non era solo un gesto religioso, ma un atto politico: portavano dentro le mura il favore divino, esattamente come le città medievali facevano con le reliquie dei santi.

Il cristianesimo, arrivando in questo mondo saturo di simboli materiali, non eliminò quella sensibilità, la sublimò. Il corpo del martire, la veste della Vergine, la cintura di Maria — tutto diventava mediazione concreta del trascendente. Le reliquie erano il modo per dire: “Dio è davvero stato qui, in carne e ossa.” Questo filo di continuità spiega perché i santuari medievali funzionassero, in fondo, come i templi pagani: luoghi dove il fedele poteva “incontrare” la divinità nel mondo sensibile. L’esperienza diretta del sacro era ciò che contava: non il dogma, ma la presenza. Nel Rinascimento, quella stessa logica si tradusse nel linguaggio delle immagini. Le opere dei Della Robbia, con la loro materia lucente e pura, non erano solo decorazioni ma veri strumenti di devozione: la terracotta invetriata come reliquia visiva, destinata a perpetuare la memoria del miracolo.

La terracotta di Santa Fiora, dunque, non è soltanto una bella opera rinascimentale: è una finestra aperta sul cuore di una civiltà. Racconta come un borgo montano cercò di collegarsi, attraverso l’arte, a quella grande rete culturale che da Prato e Firenze irradiava simboli e modelli. Ma racconta anche qualcosa di più universale: il bisogno costante dell’uomo di trattenere il sacro nel mondo sensibile, di toccarlo, di farne esperienza.

Così la Madonna della Cintola, che porge la sua fascia a Tommaso, è l’immagine perfetta di questa tensione. Un gesto di misericordia e di prova, ma anche di relazione. Un filo che lega Maria a Tommaso, il cielo alla terra, e — nel suo piccolo — Prato a Santa Fiora, e Santa Fiora al resto del mondo.

martedì 7 ottobre 2025

Paesaggi di parole

Isola di Hvar
Le parole non vivono solo nei libri o sui nostri schermi: abitano lo spazio, si fanno pietra, metallo, pigmento. Da secoli ci osservano dai muri delle città, dalle lapidi, dalle pale d’altare, dalle cornici di un affresco. Sono tracce lasciate perché non fossero dimenticate, ma sono anche architetture visive, forme che scolpiscono l’aria tanto quanto il significato che veicolano.
Pala Strozzi, 1432-34
Quando ci fermiamo davanti a un’iscrizione, non leggiamo soltanto: camminiamo in un paesaggio. Le lettere sono colline e solchi, curve e orizzonti. La geometria di un carattere romano inciso nel marmo ha la stessa forza di una catena montuosa: linee che si stagliano contro il tempo. Le dorature delle lettere gotiche vibrano come acque al tramonto. Ogni parola incisa è un rilievo da esplorare.

Celerina, Engadina  

Questi “paesaggi di parole” ci dicono che il linguaggio non è mai astratto: ha corpo, peso, materia. È una geografia che si dispiega davanti a noi, invitandoci a entrare. Le iscrizioni ci mostrano la potenza originaria della scrittura: fissare, imprimere, rendere eterno ciò che rischia di svanire.

Cimitero di Monsummano Alto  

Eppure, accanto alla loro funzione di memoria, resta l’incanto estetico: il piacere puro delle forme, il ritmo delle lettere, il dialogo fra testo e supporto. Ogni iscrizione è un microcosmo in cui la parola non è soltanto da decifrare, ma da contemplare.

Montecassino  

Osservare questi paesaggi significa accettare di lasciarsi attraversare da voci lontane. Non sempre ne comprendiamo tutto il messaggio, ma intuiamo l’eco. Sono le tracce di chi ha voluto dire: “Io sono stato qui. Questo conta. Questo deve restare”.

Cattedrale di Pisa  

In un mondo dove la parola corre veloce e si dissolve nello spazio digitale, fermarsi davanti a una parola incisa è come respirare profondamente: ci ricorda che il linguaggio non è solo suono o informazione, ma anche forma, bellezza, materia. Un paesaggio da abitare.

Moustiers Sainte Marie, Provenza



giovedì 15 maggio 2025

Sopra le nubi tossiche

Fioritura di narcisi sotto alla vetta del monte Croce 

C'è un racconto nella saga di Hyperion di Dan Simmons che non mi ha mai lasciato davvero. Il protagonista vive su un pianeta - T'ien Shan - dove solo le vette delle montagne sono abitabili: le basse quote, immerse in un’atmosfera densa di fosgene, sono diventate letali. Le persone si rifugiano in alto, sopra le nubi tossiche, come se la salvezza fosse ormai confinata all’apice del mondo.

Mi è tornata in mente questa storia stamattina, camminando lungo il sentiero 109 che dall'Albergo Rifugio Alto Matanna conduce alla vetta del Monte Croce, poco più di 1300 metri. Davanti a me si apriva il profilo delle Panie, ma erano i miei passi a essere immersi in un’altra meraviglia: un'immensa fioritura di narcisi e asfodeli che ammantava prati e pendii. Un tripudio bianco e verde che sembrava una benedizione. E lì, nel silenzio profumato del mattino, ho capito che anche quella bellezza, così pura e apparente, raccontava una storia più complessa.

Panorama da sotto la vetta del monte Croce  

Le Apuane meridionali, da lontano, sembrano un rifugio incontaminato sopra una pianura ormai satura: fabbriche, capannoni, centri commerciali, asfalto, automobili, logistica. Tutti i feticci della nostra epoca. Ma questo isolamento montano non è frutto di un miracolo: è la conseguenza di scelte umane, o più spesso di non-scelte. Di abbandoni. Di economie che si sono sgonfiate, di borghi svuotati, di sentieri dimenticati. L’agricoltura di quota, la pastorizia, le attività forestali: tutte ritirate, lasciando spazio a una rinaturalizzazione che oggi ci appare “vergine” ma che, in realtà, è il volto più recente di un paesaggio plasmato per secoli dall’uomo.

A ogni passo, lungo il crinale, si incontrano le tracce di quel mondo perduto: mulattiere, muretti, terrazzamenti, ruderi di case in pietra, carbonaie ormai avvolte nel muschio. Non era wilderness. Era civiltà.

E allora quel che vediamo oggi – e che tendiamo a mitizzare come un ritorno all’eden – è in realtà un tempo sospeso. L’uomo ha sempre avuto la tendenza a mitizzare il passato e la natura, a evocare un’età dell’oro in cui tutto era armonia. Ma quella nostalgia rischia di essere un alibi.

Forse il punto non è tornare indietro, ma imparare a guardare avanti con consapevolezza. Con la stessa cura con cui i nostri nonni sistemavano un muro a secco, o tracciavano un sentiero tra le rocce. Perché anche il futuro – come le vette di Hyperion – dipenderà da dove e come decideremo di abitare.

sabato 10 maggio 2025

La poesia venne a cercarmi

Il Settimo Sigillo, foto di Bart Ramakers 
In un tempo come il nostro, in cui il rumore di fondo sembra inghiottire ogni silenzio e la prosa del mondo sembra aver vinto su ogni stupore, rileggere versi come questi di Pablo Neruda è come ricevere un soffio d’aria in una stanza che sta chiusa da troppo tempo.

La poesia non arriva con clamore, non irrompe come una certezza: “venne a cercarmi… non so da dove sia uscita, da inverno o fiume”. È un’apparizione, una chiamata misteriosa che non chiede spiegazioni ma ascolto. Ed è proprio in questa sua natura sfuggente e irriducibile che risiede la sua forza: ci strappa all’indifferenza, risveglia quello che credevamo sopito, ci ricorda che siamo parte di qualcosa di più grande e segreto.

Neruda racconta la scoperta della poesia come una trasformazione: il mondo si dischiude, la realtà si accende di presenze invisibili, il cielo si sgrana come una costellazione appena nata. È la scoperta della bellezza come necessità, come svelamento di senso nel caos. Non è un rifugio, ma un atto di resistenza contro il vuoto e il male che nel vuoto si nasconde.

In questo “minimo essere” che ruota con le stelle c’è ciascuno di noi, ogni volta che permettiamo alla poesia – e più in generale alla bellezza – di toccarci, di rivelarci che non tutto è perduto, che la vita resta degna anche nelle sue oscurità.

Forse è davvero questa la salvezza di cui parlava Dostoevskij: non una redenzione astratta, ma la capacità di vedere ancora il cielo spalancarsi sopra di noi. E sentirci, per un attimo, parte pura dell’abisso. Vivi. Umani.

 


La Poesia

Accadde in quell’età... La poesia
venne a cercarmi. Non so da dove
sia uscita, da inverno o fiume.
Non so come né quando,
no, non erano voci, non erano
parole né silenzio,
ma da una strada mi chiamava,
dai rami della notte,
bruscamente fra gli altri,
fra violente fiamme
o ritornando solo,
era lì senza volto
e mi toccava.

Non sapevo che dire, la mia bocca
non sapeva nominare,
i miei occhi erano ciechi,
e qualcosa batteva nel mio cuore,
febbre o ali perdute,
e mi feci da solo,
decifrando
quella bruciatura,
e scrissi la prima riga incerta,
vaga, senza corpo, pura
sciocchezza,
pura saggezza
di chi non sa nulla,
e vidi all’improvviso
il cielo
sgranato
e aperto,
pianeti,
piantagioni palpitanti,
ombra ferita,
crivellata
da frecce, fuoco e fiori,
la notte travolgente, l’universo.

Ed io, minimo essere,
ebbro del grande vuoto
costellato,
a somiglianza, a immagine
del mistero,
mi sentii parte pura
dell’abisso,
ruotai con le stelle,
il mio cuore si sparpagliò nel vento.

Pablo Neruda, Memoriale di Isla Negra, 1964

giovedì 8 maggio 2025

Patroni e quattrini a San Giusto in Piazzanese

La targa del 1665 posta a memoria dell'accordo 

Chi giunge oggi alla chiesa di San Giusto in Piazzanese ci arriva attraversando la periferia di Prato: una periferia che sa di cemento e di lavoro, fatta di capannoni tessili, strade trafficate, e con quella sensazione tipica delle zone dove la città ha divorato pian piano la campagna. Eppure, basta voltare lo sguardo, o camminare pochi passi per ritrovare i campi, i filari, le vecchie case coloniche. È una terra di confine, dove l’anima contadina convive con l’identità industriale.

La chiesa sta in una piccola oasi verde, preceduta da un viale di grandi platani piantati per commemorare i caduti della Grande Guerra: è un edificio semplice dalle forme settecentesche, che solo nell'alto campanile gotico dimostra la sua antichità. Dentro, in una penombra silenziosa, si può trovare - con un po' di attenzione - una lapide in latino datata 1665. Non è una semplice iscrizione, ma il sigillo su una contesa che agitò due famiglie nobili e che venne risolta grazie all’intervento di uno degli uomini più influenti della Toscana di allora. 

Di seguito la traduzione:

A Dio Ottimo Massimo 

Riguardo al diritto di patronato di questa parrocchia di San Giusto in Piazzanese, dopo la morte di Roberto Francesco Martelli, uno dei patroni, nell’anno 1660 sorse una controversia tra l’abate Ieronimo, pievano, e il cavaliere Francesco Lelio Martelli, figlio del fratello del suddetto Roberto, e il cavaliere Camillo da Verrazzano, erede del medesimo Roberto per testamento. Per risolvere questa questione, fui incaricato dal Serenissimo Principe di Toscana Leopoldo, e dopo aver esaminato la causa, come arbitro nominato, pronunciai la sentenza a favore dell’abate Ieronimo e infine anche del cavaliere Francesco. Tale decisione fu registrata negli atti della curia episcopale di Pistoia e riferita al consigliere di Firenze il 21 novembre 1661.A compimento di ciò, si aggiunse anche la donazione dello stesso Verrazzano, come risulta dagli atti di Carlo Novelli. Affinché la memoria del fatto non svanisse, l’abate Ieronimo e il cavaliere Francesco, fratelli e figli di Lelio Martelli, unanimemente si presero cura di far porre questo monumento. Nell’anno della salvezza 1665.

Tutto ebbe inizio nel 1660, alla morte di Roberto Francesco Martelli, uno dei patroni della pieve. Da quel momento si scatenò una disputa giuridica e familiare sul diritto di patronato: un privilegio concesso nel 1463 da Papa Pio II alla famiglia Martelli, che dava diritto a scegliere il pievano e influenzare la vita religiosa e sociale del borgo. I contendenti erano da una parte l’abate Ieronimo, pievano della chiesa insieme a Francesco Lelio Martelli, figlio del fratello del defunto Roberto. Dall’altra parte c’era Camillo da Verrazzano, nominato erede testamentario di Roberto. La questione si trascinò per diversi anni, probabilmente percorrendo tutte le tappe possibili della giustizia ecclesiastica e civile, fino ad arrivare al vertice del potere: il Granduca.

Fu proprio il principe Leopoldo de’ Medici, fratello del Granduca Ferdinando II, a essere incaricato della mediazione. Colto, raffinato, appassionato d’arte e fondatore dell’Accademia del Cimento, Leopoldo era l’uomo giusto per districare una matassa tanto delicata. Alla fine, dopo una attenta valutazione, stabilì che il diritto spettava all’abate Ieronimo e al cavaliere Francesco Martelli. Camillo, per evitare ulteriori tensioni, accettò la sentenza e offrì una donazione riconciliatoria. Ma fu davvero solo un gesto di pace? È verosimile immaginare che dietro quella “donazione” si celasse un accordo più complesso: forse Camillo ottenne compensi, benefici o terre. Non lo sapremo mai con certezza, perché la lapide, pur celebrando l’accordo, tace sui dettagli più pratici. Tuttavia, sappiamo che la soluzione trovata fu solenne e definitiva e fu incisa nella pietra, a testimonianza dell’intesa e dell’onore salvato. A volerlo furono gli stessi protagonisti: l’abate Ieronimo e il cavaliere Francesco, fratelli e figli di Lelio Martelli. Uniti, posero quella lapide “perché la memoria del fatto non svanisse”.

La famiglia Martelli era una delle più antiche e autorevoli casate nobiliari di Firenze, da sempre intrecciata con la storia civile e religiosa della città. I rami cadetti, come quello insediato nel territorio di Prato, continuavano a esercitare potere e prestigio anche fuori dai confini cittadini. Anche se mancano prove genealogiche inconfutabili che colleghino direttamente i Martelli di Piazzanese a quelli della “Casa Martelli” oggi museo a Firenze, il cognome, lo stemma araldico e soprattutto il privilegio del patronato concesso dalla Chiesa, parlano chiaro: c’era un legame, se non di sangue, certamente di rango e influenza. 

La chiesa di San Giusto in Piazzanese, oggi 

Quel che rende ancora più interessante il caso di San Giusto è che questa pieve non era nata a servizio del villaggio, ma è venuta prima del villaggio stesso. Documentata già nell’anno 779, San Giusto in Piazzanese fu sicuramente un punto di riferimento per una comunità sparsa, fatta di poderi, piccoli insediamenti agricoli e pievi minori. In effetti, risulta coeva – se non più antica – dello stesso abitato di Borgo al Cornio, che nel tempo avrebbe dato origine alla città di Prato. Si può dire, senza esagerare, che San Giusto è uno dei cuori originari della civiltà pratese, un presidio di culto, ma anche di organizzazione sociale e difesa del territorio. Non a caso, il campanile - in quello stile gotico ancora oggi visibile - fungeva da torre di avvistamento in epoche in cui le incursioni, le guerre tra signorie o le razzie rappresentavano un pericolo concreto. Dal suo punto più alto si dominava tutta la piana circostante, da cui si potevano scrutare i movimenti di eserciti, viandanti e nemici.

Il campanile gotico 

Possedere il diritto di patronato su una chiesa del genere nel Seicento non era solo questione d’onore o di prestigio: era anche, e soprattutto, un ottimo investimento. La parrocchia di San Giusto in Piazzanese, con le sue rendite, i terreni annessi e le offerte dei fedeli, poteva garantire entrate considerevoli, paragonabili a quelle di una media azienda agricola dell’epoca. Le stime più attendibili parlano di rendite annuali che potevano oscillare tra le 100 e le 500 lire toscane, una somma affatto trascurabile in un’epoca in cui:

  • un servo o un contadino a giornata veniva pagato circa 10–20 lire l’anno;
  • una dote media per una figlia da maritare si aggirava intorno alle 150–300 lire;
  • con 200 lire, si poteva acquistare un piccolo podere collinare o un’intera annata di raccolto;
  • un'opera d’arte devozionale, magari commissionata a un pittore locale, poteva costare tra le 30 e le 100 lire, a seconda della fama dell’artista;
  • una famiglia nobile di provincia poteva vivere decorosamente per un anno con una rendita di 400 lire, mantenendo carrozza, servitori e frequentando la vita ecclesiastica e sociale.

Il giuspatronato era, insomma, una fonte di reddito regolare, un simbolo di dominio territoriale e un modo per rafforzare i legami politici con la curia e con le famiglie locali. Chi lo deteneva non solo nominava il pievano, ma spesso determinava le scelte architettoniche, artistiche e pastorali della parrocchia. In certi casi, poteva addirittura intervenire nella destinazione delle offerte e nella gestione dei beni ecclesiastici. In un contesto dove potere religioso e potere economico andavano spesso a braccetto, il patronato era un'arma affilata in mano alla nobiltà terriera, tanto da scatenare dispute lunghe e complesse come quella tra i Martelli e il Verrazzano.

La lapide in cui le ultime eredi Martelli rinunciano al loro diritto 

Quasi tre secoli dopo la famosa disputa, un’altra lapide venne murata nella stessa chiesa. Era il 6 marzo del 1961, e portava i nomi di Francesca e Caterina Martelli, ultime eredi della casata. Con un gesto solenne e volontario, le due sorelle rinunciarono al diritto di patronato, restituendolo alla Curia vescovile di Prato. Non fu solo un gesto formale: fu, di fatto, la fine di un’epoca. Un atto che chiudeva una storia durata quasi cinquecento anni e che segnava il passaggio da un mondo in cui la religione e il potere camminavano a braccetto, a uno in cui la fede ha cominciato — finalmente — a camminare da sola.

E queste lapidi, silenziose ma eloquenti, ce lo ricordano ancora oggi.