domenica 21 dicembre 2025

In San Clemente, la sera della prima, martedì 20 febbraio 1781

La Vedova Scaltra, al Politeama di Prato il 20 dicembre 2025 

Martedì grasso. Fra poco avrei compiuto cinquantun anni, eppure il cuore mi batteva come a una ragazzina alla vigilia del suo primo ballo. Un'eccitazione fanciullesca, ridicola per una donna della mia età, per una monaca che aveva trascorso trentacinque anni dietro queste mura. Trentacinque anni di celle, refettori, preghiere scandite dalle campane, giorni tutti uguali che si rincorrevano in una monotonia spietata. Trentacinque anni di sbarre invisibili ma più solide del ferro.

Eppure stasera – tra poche ore – avrei potuto evadere. Non fisicamente, certo. Ma sul palcoscenico, vestita da Conte di Bosco Nero, avrei potuto essere qualcun altro. Avrei potuto muovermi, parlare, agire come se quelle sbarre non esistessero. Come se fossi libera. Libera come un uomo.

L'entusiasmo mi rendeva quasi sciocca, lo sapevo. Una donna matura che tremava d'emozione per una commedia, come una bambina eccitata per un gioco. Ma quando hai vissuto tutta la vita in una gabbia, anche solo l'illusione di aprire la porta – anche se per poco – ti fa sentire viva come mai prima. O forse, più esattamente, mi sentivo come una dannata in attesa del giudizio. Perché sapevo che quella evasione avrebbe avuto un prezzo.

Dalla finestra della mia cella potevo vedere la via sotto al convento di San Clemente. Era buia, illuminata solo da qualche lanterna tremolante, e la neve sporca di pochi giorni prima si intravedeva accumulata ai lati del lastricato, indurita dal gelo. L'inverno era rigido e sembrava non voler allentare la sua morsa. Il freddo entrava dalle fessure delle imposte, penetrava nelle ossa, si insinuava nel cuore.

Guardavo quella strada deserta e pensavo a tutte le vie che non avevo mai percorso, a tutti i luoghi dove non ero mai stata. Pensavo a Venezia, la città di Rosaura che Clodesinda avrebbe interpretato quella sera. Venezia che non avevo mai visto, con i suoi canali, le sue maschere, la sua libertà. Libertà. Quella parola mi bruciava dentro più del gelo di febbraio.

Se fossi stata libera, avrei potuto amare Clodesinda alla luce del sole. Avremmo potuto fuggire insieme, cambiare nome, vivere altrove come due donne sole, forse spacciandoci per sorelle o cugine. Ma invece eravamo qui, prigioniere di voti pronunciati contro la nostra volontà, costrette a nasconderci, a vivere nell'ombra, a rubare momenti di amore come ladre nella notte. Il gelo della sera mi penetrava dentro, raffreddava anche l'entusiasmo per lo spettacolo. O forse era solo paura. Paura di quello che stavamo per fare, di quello che avremmo rivelato.

Mi allontanai dalla finestra quando sentii bussare alla porta. Era Clodesinda, avvolta nel suo mantello scuro.

"È ora," disse. "Dobbiamo andare al magazzino."

Il magazzino era quello delle granaglie del vicino convento di San Domenico. I Padri Domenicani erano i nostri responsabili spirituali – o almeno, così si supponeva – e avevano messo a disposizione quello spazio ampio per la nostra rappresentazione. Era più capiente del refettorio, e soprattutto più vicino al loro convento, così che potessero controllarci meglio. O forse, pensavo con amara ironia, così che potessero partecipare più comodamente allo scandalo.

L'idea di questa rappresentazione era nata quasi per caso, come spesso accadono le cose che poi cambiano il destino. Padre Angiolo Niccolini, il nostro confessore e padre spirituale, era un domenicano che sotto l'austera tonaca nascondeva passioni ben poco monastiche. Si recava in incognito a Firenze, al teatro, dove aveva sviluppato una vera ossessione per le commedie di Carlo Goldoni. Questa sua debolezza era rimasta segreta fino a quando – come talvolta accadeva nei conventi con grande scandalo delle gerarchie ecclesiastiche – non era venuta alla luce la sua frequentazione con suor Maddalena Ricci, una delle converse più giovani.

Il Padre non si limitava a vedere suor Maddalena intra muros, fermandosi spesso a passare la notte con lei. Più di una volta l'aveva fatta vestire con abiti profani che portava di nascosto in convento, costumi teatrali con cui la ragazza doveva impersonare per lui i personaggi delle commedie goldoniane che tanto amava: Mirandolina, Rosaura, Giacinta, Corallina... La faceva recitare nel buio della sacrestia, o in qualche angolo nascosto del convento, sussurrando le battute come se stessero commettendo il peccato più dolce del mondo.

Quando noi monache scoprimmo questo segreto – e nei conventi i segreti durano poco – l'idea prese forma quasi naturalmente. Perché non mettere in scena una vera rappresentazione?  Io, Suor Caterina – questo era il mio nome monastico, anche se dentro di me ero sempre rimasta Irene Bonamici – rivestivo la carica di Vicaria, praticamente la seconda autorità del convento dopo la Badessa. Tra i miei compiti c'era anche quello di istruire le converse, quindi avevo una certa influenza. La Badessa, Madonna Lucrezia Altoviti, era donna di carattere debole e poco interessata alla conduzione quotidiana del monastero, più dedita alle sue devozioni private che ai problemi pratici. Non fu difficile convincerla.

"Reverenda Madre," le dissi un giorno, "le monache hanno bisogno di un'attività che elevi lo spirito. Il teatro è forma d'arte sacra, quando è usato per scopi edificanti." Lei annuì distrattamente, già pensando ad altro.

Fu più complicato con Padre Niccolini. Dovevo fingermi scandalizzata dalla sua relazione con suor Maddalena, ma al tempo stesso fargli capire che conoscevo il suo segreto e che potevo usarlo. Gli proposi l'idea della rappresentazione teatrale come una sorta di... riparazione. Un modo per sublimare la sua passione profana in qualcosa di più accettabile. Lui fece finta di resistere, naturalmente. "Suor Caterina, è assolutamente improponibile. La Chiesa vieta esplicitamente alle monache di recitare."

"Eppure," risposi con un sorriso appena accennato, "voi stesso fate recitare suor Maddalena. E immagino che la gerarchia ecclesiastica non approverebbe nemmeno quello."

Il Padre arrossì, poi si schiarì la voce. "Quella è... una questione diversa."

"Diversa come?"

Ci fu un lungo silenzio. Poi finalmente cedette, o meglio, smise di fingere resistenza. "Quale testo avreste in mente?"

Sorridevo già quando risposi. Un legatore tipografo che veniva a riparare i nostri messali – un certo Bernardo che aveva bottega in città – mi aveva procurato qualche settimana prima, dietro mia richiesta, un volume che conteneva diverse commedie del Goldoni. L'avevo nascosto nella mia cella, leggendolo di notte alla luce di una candela.

"La Vedova Scaltra", dissi.

Gli occhi di Padre Niccolini si illuminarono immediatamente. La conosceva, ovviamente. L'aveva vista al teatro di Firenze, forse più di una volta. E in quel momento capii che era perduto – o meglio, che non aveva mai opposto vera resistenza. Si buttò nell'impresa con tutto se stesso, anzi, divenne nei mesi lui il promotore più entusiasta, procurando tessuti per i costumi, aiutandoci a trovare il magazzino delle granaglie come sede della rappresentazione, invitando personalmente confratelli da Pistoia e Siena.

Ci era voluto quasi un anno, ed adesso quella che era nata come una trasgressione privata – il Padre e la sua conversa che giocavano al teatro nel buio – sarebbe diventata uno scandalo pubblico. E io, Suor Caterina, Vicaria del convento, avevo orchestrato tutto. Non per il teatro in sé. O comunque, non solo per quello.

Uscimmo nel freddo della sera, avvolte nei mantelli, attraversando il breve tratto che separava San Clemente da San Domenico. La strada era gelida, scivolosa per i residui di neve e ghiaccio. Il nostro respiro formava nuvolette di vapore nell'aria. Intorno a noi, il buio era rotto solo dalle luci delle lucerne delle altre monache che si muovevano come lucciole imprigionate, puntini di luce tremolante in cerca di una libertà che quella sera avremmo almeno finto di possedere.

Quando entrammo, il contrasto fu stridente. Dentro faceva caldo – avevano acceso bracieri per riscaldare l'ambiente – e le molte candele illuminavano i fondali che suor Apollonia Nardi e suor Lucrezia Martini avevano dipinto con tanta cura: palazzi veneziani, salotti della Serenissima, balconi da cui affacciarsi per le scene d'amore. Quelle scene d'amore che io conoscevo fin troppo bene, ma che per la prima volta avremmo recitato davanti agli occhi del mondo.

Davanti agli occhi di Dio.

Clodesinda mi aiutò con il costume e il trucco mentre le altre monache si preparavano. Le sue dita tremavano nell'allacciare la giubba damascata che suor Caterina Dei aveva cucito per me.

"Irene," sussurrò, "hai paura?"

Paura. Che parola insufficiente. Ero terrorizzata. Non dei Padri Domenicani venuti da Pistoia, Siena e persino luoghi più distanti. Non dei nobili pratesi con le loro dame ingioiellate. Ero terrorizzata di me stessa, di quello che avrei fatto, di quello che volevamo fare.

"Dovremmo avere paura," risposi, guardandola negli occhi. Quegli occhi che dodici anni prima, quando lei aveva appena pronunciato i suoi voti, mi avevano guardata con tale innocente ammirazione. Quell'innocenza l'avevo corrotta io, io con le mie eresie, con le mie teorie elaborate attraverso lunghe notti di lettura e meditazione.

Iddio non è altro che la natura, pensai, ripetendo a me stessa le parole che avevo sussurrato tante volte a Clodesinda nelle nostre conversazioni notturne. Pertanto noi dobbiamo seguitare in ogni suo istinto, e la nostra perfezione è l'unione con Dio e siccome tutti partecipano della natura ch'è Dio ogni carnale unione tra gli uomini è una unione con Dio quindi questa è la maniera la più perfetta di unirsi a Dio.

Parole bellissime, che avevo costruito leggendo Bruno, Molinos, tutti quei filosofi che la Chiesa condannava ma che a me sembravano più vicini alla verità di qualsiasi teologo ortodosso. Parole in cui credevo davvero, con tutta l'anima. Ma erano anche parole che mi tormentavano. Perché se era vero – se davvero l'amore fisico era unione con Dio, se davvero seguire la natura era la nostra perfezione – allora perché dovevamo nasconderci? Perché vivere nell'ombra, come criminali, come peccatrici? Perché non potevo prendere Clodesinda per mano e andarmene, fuggire in qualche città lontana dove nessuno ci conoscesse, vivere il nostro amore alla luce del sole?

Ma sapevo la risposta. Perché eravamo donne. Perché eravamo monache. Perché il mondo – quel mondo fatto di uomini che parlavano in nome di Dio – non avrebbe mai tollerato la nostra libertà.

"Irene," disse Clodesinda prendendomi le mani, come se avesse letto i miei pensieri, "smetti di tormentarti. Credi in quello che mi hai insegnato, o no?"

"Credo..." iniziai, poi mi fermai. "Credo che sia vero. Ma credo anche che sia impossibile viverlo davvero. Non qui. Non così."

"Ma se è vero," insistette lei con quella determinazione che mi faceva impazzire e disperare allo stesso tempo, "allora quello che sentiamo non è peccato. È grazia. È Dio che si manifesta attraverso di noi."

Volevo crederle. Oh, quanto lo volevo. Ma mentre la guardavo – così giovane, così bella, così piena di fede nelle mie parole – mi chiedevo se non l'avessi semplicemente ingannata. Se tutto il mio elaborato ragionamento filosofico non fosse stato altro che una giustificazione elegante per il desiderio. Se non avessi usato Dio per legittimare quello che era, in fondo, solo fame carnale.

"Tu non sai cosa dici—"

"So esattamente cosa dico. E so quello in cui credo. Me lo hai insegnato tu, Irene. Ogni carnale unione è unione con Dio. E io voglio unirmi a Dio. Voglio unirmi a te."

Fu come una pugnalata. Lei, così convinta, così sicura delle mie eresie. Mentre io, che le avevo elaborate, che le avevo studiate per anni, ero piena di dubbi. Perché credere in quella filosofia significava anche accettare la gabbia in cui eravamo rinchiuse. Significava rinunciare alla fuga, al sogno di una vita diversa, di una libertà vera.

Se ogni unione era sacra, allora anche quella clandestina, rubata, nascosta poteva bastare. Ma io volevo di più. Volevo strade aperte, viaggi, Venezia, il mondo. Volevo Clodesinda non nell'ombra di una cella ma alla luce del giorno. E questo desiderio di libertà, questo rifiuto della gabbia, non contraddiceva forse la mia stessa filosofia? Se dovevamo seguire ogni istinto della natura, allora anche l'istinto di fuggire, di essere libere, era sacro. Ma come potevamo fuggire? Dove potevamo andare?

Suor Agnese Vannucci, che avrebbe fatto Arlecchino, ci interruppe: "Sono arrivati! Almeno sessanta persone! C'è persino il Padre Priore di San Domenico di Montepulciano!"

Il mio cuore accelerò. Quella sera avremmo fatto qualcosa di irreparabile. Non solo recitare la commedia del Goldoni – già di per sé uno scandalo per monache di stretta clausura. No. Avevamo pianificato qualcosa di molto più pericoloso. Quando la sera prima Clodesinda mi aveva guardata con quegli occhi pieni di fuoco e mi aveva detto: "Domani sera, voglio che sia vero. Voglio che tutti lo vedano. Voglio che sappiano," io avevo cercato di dissuaderla. Ma lei era stata irremovibile.

"Da anni viviamo nell'ombra, Irene. Da anni ci nascondiamo come criminali. Domani sera, per una volta, voglio essere libera."

"Ci distruggerai," avevo risposto.

"Siamo già distrutte," aveva replicato lei. "Almeno facciamolo per una buona ragione."

E ora il momento era arrivato. Attraverso una fessura nella tenda che faceva da sipario, vidi il pubblico che prendeva posto nel magazzino trasformato in teatro. I Padri Domenicani nelle prime file, austeri nei loro abiti neri. I nobili pratesi con le loro dame, curiosi e un po' scandalizzati già solo dall'idea di vedere monache recitare. Le candele moltiplicavano le ombre, creando un'atmosfera insieme festosa e inquietante.

Il sipario si aprì, le candele illuminarono il palcoscenico, e Clodesinda entrò in scena.

Dio mio, era magnifica. Il vestito di broccato verde smeraldo la faceva sembrare una dea veneziana, i suoi occhi brillavano, i suoi movimenti erano grazia pura. Era davvero Rosaura Lombardi, la vedova che tutti desideravano e nessuno poteva conquistare. Esattamente come Clodesinda Spighi nella vita reale: desiderata da me, posseduta da me, dannata da me.

La commedia prese vita. Suor Maddalena Guicciardini nel ruolo di Milord Runebif faceva ridere il pubblico, suor Francesca Doni era un perfetto Monsieur Le Bleau, suor Teresa Baldi - Don Alvaro -sfoggiava una prosopopea spagnola che strappava sorrisi persino ai Padri più austeri. Ma io vedevo solo Clodesinda. Ogni battuta che pronunciavo era vera. Quando declamavo versi d'amore come il Conte, erano i miei. Quando fingevo gelosia, la sentivo davvero nelle viscere. Quando guardavo Clodesinda sul palco, non vedevo Rosaura ma la donna che da dodici anni era il mio tormento e la mia gioia, il mio peccato e la mia preghiera.

Poi venne la scena finale. Rosaura doveva scegliere tra i suoi quattro pretendenti. E Clodesinda, magnifica nel suo ruolo, scelse me, il Conte di Bosco Nero, l'unico che le era rimasto fedele.

"Conte," disse Clodesinda, e la sua voce tremava impercettibilmente, "accettate la mia mano e il mio cuore?"

"Con tutta l'anima," risposi, e quelle parole erano vere come nessuna preghiera che avessi mai pronunciato.

Nel libro del Goldoni che avevo usato, la commedia si concludeva lì. Con parole, congratulazioni, battute finali. Ma io e Clodesinda avevamo deciso altro. Una modifica non concordata con nessuno, nemmeno con Padre Niccolini. Un'aggiunta che avevamo pianificato in segreto, nelle nostre conversazioni notturne. Ci avvicinammo. Il pubblico si aspettava che ci dessimo la mano, che ci inchinassimo l'uno all'altra, che ci congratulassimo con dignità. Invece ci baciammo.

Il bacio durò. Durò troppo. Le mie mani si posarono sui suoi fianchi, le sue si aggrapparono alla mia giubba, e per un momento infinito ci baciammo davvero. Con passione. Con disperazione. Con amore.

Un sussulto percorse il pubblico. Lo sentii, quel momento in cui l'atmosfera cambiò. Lo shock, lo scandalo, l'incredulità. Qualcuno tratteneva il respiro, altri mormoravano tra loro. Ma noi continuammo a baciarci, perché in quel momento non c'erano più Padre Priori o nobili pratesi o dame scandalizzate. C'eravamo solo noi due, finalmente libere per un istante di essere quello che eravamo.

Quando ci separammo, negli occhi di Clodesinda vidi lacrime. Di gioia o di dolore? Forse entrambe. E vidi anche fede – fede assoluta in quello che le avevo insegnato, fede nell'idea che quel bacio fosse sacro, fosse Dio che si manifestava attraverso di noi. Ma io, guardandola, sentii solo il gelo. Lo stesso gelo della strada fuori, dell'inverno che non voleva finire. Il gelo del dubbio, della paura, della consapevolezza che forse avevo costruito un castello di parole per giustificare l'ingiustificabile.

Gli applausi furono esitanti, imbarazzati. Niente a che vedere con il trionfo che avevamo sperato. Suor Maddalena e suor Francesca recitarono le loro battute finali – Runebif e Le Bleau che si congratulavano col Conte, Don Alvaro che se ne andava indispettito – ma la magia si era rotta. Il pubblico era inquieto, confuso, turbato.

Quando ci inchinammo per l'ultima volta, i volti dei Padri Domenicani erano pietra. Alcune dame si schermavano dietro i ventagli, sussurrando. I nobili pratesi evitavano di guardarci direttamente. Lo scandalo era servito. Padre Girolamo da Montepulciano, si avvicinò alla Badessa con un'espressione che oscillava tra il divertimento forzato e il disagio.

"Reverenda Madre," disse il padre con voce controllata, rivolgendosi alla Badessa, "debbo ammettere che le vostre monache hanno molto talento scenico. Forse fin troppo talento. Viene da chiedersi se certe... interpretazioni... non siano più adatte a palcoscenici profani."

La battuta cadde in un silenzio imbarazzato tra gli ecclesiastici. Ma i laici e le dame, dopo un momento di esitazione, scoppiarono in risate e applausi. Alcune signore si avvicinavano già chiedendo quando ci sarebbe stata la prossima rappresentazione, quali altre commedie avremmo messo in scena. "È stato meraviglioso!" esclamava una nobildonna pratese agitando il ventaglio. "Così audace, così francese!"

Ma tra i Padri Domenicani l'atmosfera era ben diversa. Alcuni sussurravano tra loro, scuotendo la testa. "Si sono prese qualche licenza," diceva uno. "È teatro, dopo tutto. Un po' di enfasi è comprensibile." "Licenza?" ribatteva un altro con tono severo. "Quello che abbiamo visto ha superato ogni limite del decoro. Quelle due si sono... baciate. Come... come..." Non finì la frase, ma tutti capirono.

Fu allora che il Padre Generale dell'Ordine Domenicano, venuto appositamente da Firenze, si alzò in piedi. Il suo volto era una maschera di preoccupazione.

"Confratelli, signori, signore," disse con voce che cercava di sembrare leggera ma tradiva inquietudine, "è stata una serata... memorabile. Tuttavia spero vivamente che questo avvenimento non giunga alle orecchie di Sua Eccellenza il Vescovo de' Ricci. Come tutti sappiamo, il nostro vescovo è assai contrario a questo genere di rappresentazioni, specialmente quando coinvolgono religiose."

Un brivido percorse la sala. Il nome di Scipione de' Ricci bastava a gelare qualsiasi entusiasmo. Tutti conoscevano il suo zelo riformatore, la sua intransigenza, il suo desiderio di riportare ordine e disciplina nei conventi.

Le suore cominciarono a circolare con i cesti per raccogliere gli oboli per il convento. Fu un momento stranamente fuori posto, quasi grottesco. Le dame vi depositavano monete sorridendo ancora, complimentandosi per lo spettacolo. Ma i Padri Domenicani contribuivano con espressioni cupe, come se stessero pagando non per un intrattenimento ma per l'assoluzione da un peccato collettivo. Il tintinnio delle monete nel silenzio teso sembrava il rintocco di una campana funebre.

La serata finiva in modo agrodolce. Gli applausi dei laici echeggiavano ancora nell'aria, ma sotto di essi percepivo un altro suono: il sussurro cupo dei Padri, il loro disappunto, la loro paura. E soprattutto, quella frase del Padre Generale che continuava a rimbombarmi nella testa: "spero che non giunga alle orecchie del Vescovo de' Ricci". Ma sapevo – lo sapevamo tutte – che sarebbe arrivato alle sue orecchie. Come avrebbe potuto non farlo? Sessanta persone avevano assistito. Sessanta testimoni di quello che avevamo fatto.

Avevamo aperto una porta che non avremmo mai potuto richiudere. Per un attimo restammo sole, Clodesinda mi cercò. Ci nascondemmo dietro uno dei fondali dipinti. "Irene," sussurrò, e c'era paura nella sua voce ora. Paura vera, non l'eccitazione trasgressiva di prima. "Cosa abbiamo fatto?"

"Quello che volevi," risposi amaramente. "Ci siamo mostrate al mondo."

"Cosa ci succederà?"

La abbracciai, sentendo il suo corpo tremare contro il mio. "Non lo so. Ma qualunque cosa sia, l'affronteremo insieme."

"Hai detto che ogni unione carnale è unione con Dio," sussurrò lei. "Hai detto che seguire la natura è perfezione. Allora quello che abbiamo fatto non può essere peccato."

Hai detto, ripetei nella mia mente. Tu hai detto. Come se quelle parole fossero solo mie, come se io fossi la sola responsabile di quella filosofia che ci aveva portate fino a quel punto.

"Lo so cosa ho detto," risposi. "Ma forse... forse avrei dovuto dire anche altro."

"Cosa?"

"Che avremmo dovuto fuggire. Anni fa, quando ancora potevamo. Avremmo dovuto lasciare tutto e andarcene, trovare un posto dove vivere libere. Invece siamo rimaste qui, in questa gabbia, nascondendoci, rubando momenti di amore come ladre. E ora..."

"Ora cosa?"

"Ora è troppo tardi."

Clodesinda mi guardò negli occhi. "Non è mai troppo tardi. Possiamo ancora fuggire."

"E andare dove? Siamo due monache senza un soldo, senza protezione, senza famiglia che ci accolga. Due eretiche, due peccatrici. Chi ci darebbe rifugio?"

"Non lo so. Ma preferirei morire libera per strada che vivere prigioniera qui."

La guardai, e in quel momento capii che aveva più coraggio di me. Lei, che era più giovane, che aveva seguito le mie idee con fede cieca, era pronta a rischiare tutto per la libertà. Mentre io, che avevo elaborato quelle idee, che avevo passato anni a leggere e studiare, ero paralizzata dalla paura.

"Anche l'Inferno?" chiesi.

"Anche l'Inferno. Se posso viverlo con te."

Ma mentre la tenevo stretta, sapevo che l'Inferno era già qui. Non nelle fiamme eterne, ma in questo: amare qualcuno che hai condannato, desiderare qualcuno che hai corrotto, volere qualcuno che hai trascinato con te nella dannazione. E soprattutto, dubitare della filosofia stessa che avevi costruito per giustificare quell'amore.

Tornai nella mia cella quella notte attraversando di nuovo quella strada buia e gelida. La neve scricchiolava sotto i miei piedi. Il freddo mi penetrava nelle ossa, mi stringeva il cuore. Era lo stesso freddo che avevo sentito prima dello spettacolo, ma ora era peggio. Perché ora non era più solo inverno fuori, ma anche dentro.

Non dormii. Fissai il soffitto nell'oscurità, ripensando a tutto: ai dodici anni con Clodesinda, alle notti rubate, alle eresie sussurrate, alle tre abiure che avevamo fatto solo per poter continuare a peccare. E pensai al bacio di quella sera, a come era stato insieme la cosa più bella e più terribile della mia vita. Sapevo che sarebbero venuti a cercarci. Il Vescovo Scipione de' Ricci, di cui si diceva fosse un riformatore implacabile, avrebbe sicuramente saputo di quella sera. E sapevo anche, con una certezza che mi ghiacciava il sangue, qual era la punizione per donne come noi.

Lo Spedale di San Bonifazio a Firenze. Il manicomio. Dove rinchiudevano gli eretici, i pazzi, i dannati.

Portai le dita alle labbra, sentendo ancora il sapore del bacio di Clodesinda. Quel bacio che ci era costato tutto. Quel bacio che valeva tutto. E mentre l'alba cominciava a schiarire il cielo oltre la finestra della cella, mi chiesi ancora una volta: se Dio è la natura, se ogni carnale unione è unione con Dio, se seguire gli istinti è perfezione... perché questo amore ci condannava? O forse non era Dio a condannarci, ma gli uomini che parlavano in suo nome?

O forse ancora, sussurrò la voce del dubbio, forse era tutto falso. Forse avevo costruito un'eresia per giustificare il desiderio. Forse avevo tradito Dio, tradito Clodesinda, tradito me stessa. Non avevo risposte. Avevo solo domande, dubbi, tormenti. E Clodesinda. Sempre Clodesinda.

La mia condanna e la mia salvezza.

Il mio peccato e la mia preghiera.

Il mio Inferno e il mio Paradiso.

O forse, semplicemente, la mia gabbia.


Postscriptum

Tre mesi dopo quella sera del 20 febbraio, il Vescovo de' Ricci chiuse i conventi domenicani di Pistoia e Prato. Io e Clodesinda fummo interrogate, giudicate, condannate. Le nostre famiglie rifiutarono di riaccoglierci – due eretiche, due peccatrici, due donne che si amavano contro ogni legge divina e umana.

Fummo rinchiuse nello Spedale di San Bonifazio.

Ma anche lì, nelle celle dei pazzi, tra le grida e la disperazione, io e Clodesinda trovammo il modo di vederci. Di parlarci. Di toccarci, quando le guardie non guardavano.

Perché questo era il nostro destino: amarci nell'ombra, nasconderci, soffrire, essere condannate.

Ma amarci comunque.

Sempre.

Anche se non sapevo più se quell'amore era unione con Dio o solo un'illusione che ci aveva condannate entrambe.


Magazzino delle granaglie, Convento di San Domenico, Prato
Martedì grasso, 20 febbraio 1781

Spedale di San Bonifazio, Firenze
1782-1784

lunedì 15 dicembre 2025

Le donne di Boldini, quando un ritratto racconta un’epoca

Ritratto di signora, 1889

Sono stato alla Cavallerizza di Lucca a vedere la mostra dedicata a Giovanni Boldini e ai pittori del suo tempo. Ne sono uscito con quella sensazione rara: come se qualcuno ti avesse preso per il bavero e, senza chiedere permesso, ti avesse trascinato in un’epoca che non è più la tua — ma che, improvvisamente, senti vicinissima.

Boldini non dipinge semplicemente donne eleganti. Dipinge il tempo che scorre su di loro. I suoi ritratti non sono pose, sono attimi colti mentre stanno per sfuggire. Un gesto che si scioglie, un busto che ruota, un abito che vibra come se fosse ancora in movimento. La pennellata corre, scarta, graffia la tela con una sicurezza quasi sfrontata. Eppure, dentro quella velocità c’è una precisione chirurgica: ogni volto è riconoscibile, ogni sguardo è un carattere.

Signora con il cagnolino, 1890, Vittorio Corcos

Quelle donne — aristocratiche, borghesi, attrici, amanti, mogli — sembrano vivere su un confine sottile. Da una parte la maschera sociale, l’abito, il ruolo; dall’altra una persona vera, colta nel momento in cui abbassa la guardia. Boldini riesce in qualcosa di rarissimo: fa vedere insieme entrambe le cose. Non smaschera, ma lascia intravedere. Non giudica, ma osserva con una lucidità affettuosa, talvolta ironica.

Guardando questi ritratti viene voglia di conoscere le storie dietro i volti. Ma soprattutto viene voglia di capire l’epoca che li ha prodotti. La Belle Époque qui non è cartolina né nostalgia zuccherosa: è un mondo elegante e nervoso, sicuro di sé e al tempo stesso inconsciamente in bilico. Un mondo che corre — come corre la pennellata di Boldini — verso qualcosa che ancora non sa di chiamarsi fine.

La contessa de Rasty in abito nero, 1879

Accanto ai suoi quadri, le opere dei contemporanei aiutano a capire quanto Boldini fosse, in realtà, un corpo celeste a parte. Gli altri osservano, descrivono, talvolta idealizzano. Lui accelera. Anticipa il Novecento senza rinnegare l’Ottocento. È mondano, ma mai superficiale. È decorativo solo in apparenza: sotto la seta, sotto i nastri, sotto i guanti, c’è sempre una psicologia vigile.

C’è anche un dettaglio che colpisce più di quanto sembri: la postura. Le donne di Boldini non stanno mai davvero ferme. Sono inclinate, sbilanciate, appoggiate appena. Come se la stabilità fosse una concessione noiosa, e la vita vera stesse tutta in quell’instabilità elegante.

Mademoiselle de Nemidoff, 1908 

Uscendo dalla mostra resta una strana nostalgia per qualcosa che non abbiamo vissuto. Non tanto per i salotti o per i vestiti, ma per quell’idea di ritratto come incontro profondo tra chi guarda e chi è guardato. Boldini non dipinge “belle donne”. Dipinge persone immerse nel loro tempo. Ed è forse per questo che, guardandole oggi, continuiamo a sentirle così sorprendentemente vive.

venerdì 5 dicembre 2025

Valiano, 21 febbraio 1971: una foto, una cascina, una piccola tribù felice

Festa di Carnevale, 21 febbraio 1971

Ci sono immagini che non raccontano solo un istante, ma tutto un mondo. Questa – Carnevale 1971, festa grande nel “salone delle feste” di Valiano – è una di quelle. Mia mamma, le sue amiche, i bambini vestiti da cowboy, e dietro le loro spalle quel patchwork meravigliosamente improvvisato di manifesti pubblicitari: Piaggio, “chi Vespa mangia la mela”, colori pop che stridono contro il vecchio intonaco della cascina. È il contrasto che fa nascere il ricordo: un’Italia che stava diventando moderna, dentro una casa che moderna non era per nulla.

A Valiano mio babbo e un gruppetto di amici, verso la fine degli anni Sessanta del Novecento, decisero di fare una cosa che oggi sembrerebbe quasi un esperimento sociologico: affittare una vecchia casa colonica abbandonata e riportarla in vita. La cascina, costruita nel 1717, si era svuotata quando i contadini erano scesi nella piana per lavorare nell’industria tessile. Al tempo non c’era né luce né acqua. Così gli uomini si misero a tirare tubi, scavare, costruire perfino un acquedotto artigianale con pompe e un serbatoio in eternit nella torretta della casa. Sembrava la frontiera, quella vera, non quella dei nostri costumini da cowboy.

Dentro quelle stanze si tornò a vivere come in una piccola comunità. Gli uomini facevano legna, aggiustavano, giocavano a carte; le donne chiacchieravano, cucinavano, badavano ai figli; e poi c’erano le fatiche comuni – la raccolta delle olive, il vinsanto, l’odore di mosto e di legna umida che impregnava tutto. Ognuno portava un pezzetto di sé; in cambio, riceveva un luogo che diventava casa anche se casa non era.

Il grande lavoro, quello che per tutti segnò una svolta, fu il rinforzo del solaio con due longarine d’acciaio messe di traverso, come due binari. Sopra c’era il vecchio granaio, con le stuoie da vinsanto. Con noi, invece, diventò il “salone delle feste”: un nome un po’ altisonante per una stanza col pavimento imperfetto e le correnti d’aria, ma per noi bambini era il regno del divertimento, spesso teatro di quegli eventi misteriosi che accadevano dopo Carosello, quando noi stavamo già a letto. Ci si festeggiavano Capodanni, compleanni, perfino matrimoni… come quello in cui il fotografo – parente degli sposi – si accorse troppo tardi di aver “scattato senza pellicola”. Gli sposi dovettero rifare le foto la domenica dopo. Da soli. Una cosa che oggi farebbe trending su TikTok in dieci secondi.

E poi - con i proventi di una riffa - arrivò il jukebox “amatoriale”, in un trionfo di 45 giri che sputavano a tutto volume la colonna sonora di un’Italia giovane. Durò poco: una notte sparì, rubato insieme ad altre cose, in uno dei tanti furti che alla fine ci convinsero a lasciare la cascina. Ma per un po’, quel jukebox fu il cuore del salone. Nella foto lo si sente ancora, sotto pelle.

Ecco perché questa immagine colorizzata mi smuove tanto. Non è nostalgia semplice. È vedere le persone della mia infanzia nel pieno della loro energia, della loro bellezza quotidiana, di quell’incoscienza adulta che si ha solo tra i trenta e i quarant’anni. È sentire la voce di mia madre che ride, vedere la mano di mio babbo sporca di terra, avere la sensazione di appartenere a qualcosa di più grande della nostra famiglia: una piccola tribù, un microcosmo dove ognuno di noi aveva un posto.

Guardare questa foto oggi significa rendersi conto di quanto un luogo possa tenere insieme le vite. E che, in fondo, certi posti non si lasciano mai davvero. Rimangono attaccati, come quei manifesti pubblicitari che dovevano durare un carnevale e invece sono sopravvissuti, incollati nella memoria, mezzo secolo dopo.

lunedì 1 dicembre 2025

Il "brand" di San Bernardino

Cristogramma di San Bernardino, Neri di Bicci, San Francesco di Prato, 1424 

Ci sono momenti in cui la storia non fa rumore, e altri in cui arriva qualcuno capace di scuotere una città come una tovaglia piena di briciole. Quando San Bernardino da Siena arrivò a Prato – siamo negli anni Venti del Quattrocento – la città era tutt’altro che un borgo addormentato: lanifici, commerci, botteghe, banchieri improvvisati, qualche furbetto, qualche santo, e una marea di anime in cerca di orientamento. Insomma: la solita Prato, solo con più sai francescani in giro.

Bernardino era già allora un fenomeno nazionale. Non aveva alle spalle alcun “ufficio stampa”, e nemmeno la fortuna di internet, ma riempiva piazze come fosse una rockstar medievale. La sua voce era potente, la sua presenza magnetica, e soprattutto parlava una lingua moderna: niente teologie astratte, niente prediche fumose. Parlava dei problemi veri della gente. Usura, discordie familiari, imbrogli nei commerci, lusso sfrenato, invidie tra famiglie rivali. Le stesse cose che oggi riempiono i talk show, con la differenza che Bernardino non aveva bisogno di urlare per farsi capire.

La chiesa di San Francesco, a Prato, lo accolse per una serie di predicazioni quaresimali. Immaginiamola piena all’inverosimile: lanaioli con le mani ancora impolverate di fibra, donne con lo scialle ben stretto, commercianti in bilico tra devozione e timore di essere messi alla berlina dal frate, confraternite, artigiani, curiosi. Tutti stretti, tutti in ascolto. Una città raccolta in un unico sguardo.

Ma il vero colpo di genio Bernardino lo giocò con un’immagine. Lo chiameremmo “branding”, oggi, e lui fu davvero il primo a capirne il potenziale: il cristogramma IHS, le prime lettere del nome di Gesù in greco, inscritte in un sole dorato dai raggi fitti e luminosi. Lo mostrava alla fine delle prediche come un vessillo di pace, un modo per unire ciò che le fazioni e l’ambizione dividevano. Una specie di logo spirituale: semplice, riconoscibile, immediato. Più efficace di qualunque discorso politico.

E non era un simbolo astratto: Bernardino lo portava con sé, lo mostrava alla folla, lo faceva baciare, lo esponeva sulle porte delle case come antidoto alle tensioni cittadine. A Prato quel pannello c’è ancora, e la tradizione lo attribuisce a Neri di Bicci, il pittore fiorentino che per i Francescani lavorò spesso. Sta oggi vicino all’altare di San Francesco come una reliquia di comunicazione ante litteram, un pezzo di storia vissuta — non tanto perché “antico”, ma perché racconta un momento di partecipazione collettiva quasi dimenticato.

Pensiamoci un attimo: un frate che solleva un simbolo luminoso e lo offre alla folla come rimedio contro odi, corruzione e disordine urbano. È bello ricordare che anche il Medioevo – quello vero, quello senza retorica – sapeva produrre momenti di autentica innovazione sociale. Bernardino non era uno che giudicava dall’alto: era uno che entrava nel vivo della città, che sapeva parlare alla pancia e alla testa. Un “Savonarola ante litteram”? In parte sì, ma con molta più grazia e molta meno propensione a bruciare il mondo intero per farlo “più puro”. Il suo scopo non era la punizione, ma la riforma morale e civile.

E la città, in quelle settimane, cambiò davvero ritmo. Ci sono cronache che ricordano conversioni improvvise, riconciliazioni famigliari, restituzioni di denaro usurato, persino qualche guarigione ritenuta miracolosa. Non importa stabilire se tutti questi racconti siano cronaca o ricamo: ciò che conta è capire quanto forte fosse la percezione che qualcosa stava accadendo nella vita cittadina.

A distanza di sei secoli, il cristogramma pratese non è soltanto un manufatto d’arte sacra. È un documento visivo di quel momento: la prova che un’idea – quando è semplice, luminosa, condivisibile – può davvero modificare il modo in cui una comunità si percepisce. Anche oggi, quando scattiamo una foto a quel pannello, non stiamo solo osservando un oggetto artistico: stiamo guardando un frammento di una città che si è lasciata cambiare da un predicatore venuto da lontano, con il saio consumato e una sola parola d’ordine: unità.

Bernardino comprese che la fede – e forse qualunque idea forte – ha bisogno di simboli. E che un simbolo, se ben usato, sa attraversare i secoli meglio di qualunque discorso. Quel sole dorato che ancora oggi brilla a San Francesco è un ponte sottile tra passato e presente: ci ricorda che la città, nei suoi momenti migliori, sa ancora riconoscersi in qualcosa di più grande di sé stessa.

sabato 29 novembre 2025

Quando il passato riprende colore

 
Il passato è in bianco e nero, il presente è a colori.

E forse è proprio per questo che le vecchie foto “voltate a colori” dall’IA ci mettono così a disagio: tolgono al passato la sua distanza di sicurezza e ce lo riportano sotto al naso, vivo, insistente.

In questa foto del luglio 1952 ci sono mia mamma e suo fratello Fiorenzo, in spiaggia a Viareggio. Lei ha 19 anni, lui qualcuno di più. Nello scatto originale sono due figure di sabbia e argento; appena il computer ci mette mano, però, la scena cambia all’improvviso: la pelle prende calore, il costume diventa nero lucido, il vestitino bianco si accende di piccoli disegni colorati, gli ombrelloni esplodono di righe blu, arancio, verdi. E loro, da “personaggi storici”, tornano di colpo persone vere.

Quello che mi colpisce è lo sguardo. Non guardano indietro, ma avanti. Non sanno niente di ciò che verrà: amori, figli, lavori, fatiche, malattie, dolori e gioie insperate. Hanno solo davanti un futuro che sembra infinito, come il mare dietro di loro. E noi, che questo futuro lo conosciamo già, restiamo a metà tra tenerezza e vertigine: vorremmo quasi avvertirli di qualcosa, ma non si può. Il tempo è testardo.

Settantatré anni dopo, quella giornata di mare è diventata un battito di ciglia. La tecnologia ci permette di colorarla, di avvicinarla, di illuderci per un istante che quella ragazza e quel giovane uomo siano ancora lì, pronti a fare un tuffo. In realtà non stiamo riportando in vita loro: stiamo riportando in vita la parte di noi che ha bisogno di sentirli vicini, di credere che tra la spiaggia del ’52 e noi, oggi, non ci sia in mezzo un abisso, ma solo una lunga onda che continua a tornare a riva.

Forse questo è il vero potere di queste “magie” digitali: non tanto il realismo del colore, quanto la possibilità di rivedere le nostre radici con occhi nuovi. Scoprire che il tempo passa, sì, ma certe presenze continuano a camminare accanto a noi, sorridenti, a piedi nudi sulla sabbia.

mercoledì 26 novembre 2025

Il Miserere di Gregorio Allegri, ovvero il canto delle tenebre

Cliccare per ascoltare il brano


Ci sono musiche che appartengono ai luoghi più di quanto appartengano ai loro compositori. 

Il Miserere di Gregorio Allegri, composto a Roma intorno al 1630, è una di queste: fragile, sospeso, costruito per vivere nell’ombra e per invitare chi lo ascolta a far parte della penombra. Non è una partitura “geniale” nel senso moderno del termine; è un organismo che respira con lo spazio che lo contiene. E lo spazio perfetto era – e resta – la Cappella Sistina durante l’Ufficio delle Tenebre del Mercoledì Santo.

Immaginare quella sera è sempre un piccolo viaggio: quindici candele sul candelabro triangolare, una che si spegne dopo l’altra, il chiaroscuro che avanza, i volti del Papa e dei Cardinali che emergono appena dalla penombra, gli affreschi di Michelangelo che sembrano galleggiare in un crepuscolo che non è naturale ma liturgico. In questo teatro sacro, il Miserere scivolava come un soffio: alternanza di canto piano e polifonia, un richiamo sottile che ancora oggi sembra arrivare da un punto preciso ma inafferrabile della cappella.

C’è un altro aspetto che oggi rischiamo di dimenticare: quanto questa musica dovesse apparire sovrannaturale a chi la ascoltava nel Seicento. Noi abbiamo orecchie allenate alla complessità: viviamo in un mondo in cui la musica è parte del panorama, dove anche le armonie più audaci passano ovunque, dalla radio dell’auto allo streaming del cellulare fino alla diffusione acustica dei centri commerciali. Ma un ascoltatore dell’epoca, seduto sotto gli affreschi della Sistina e immerso nella penombra del rito, percepiva il Miserere in un modo completamente diverso.

Era polifonia pura: voci che si rincorrevano, fioriture leggere come filigrana, linee che si intrecciavano e si separavano come se avessero un’intelligenza propria. E soprattutto, nessuno strumento. Nessun organo, nessuna viola da gamba, nessuna tiorba a fare da sostegno. Solo il fiato umano – addestrato per anni, disciplinato come un corpo unico – che riempiva lo spazio con note perfette, limpide, sospese.

Per molti, doveva sembrare di sentire gli angeli.

Perché non era una musica che “veniva eseguita”, era una musica che accadeva, che nasceva nell’aria, viveva per pochi minuti e poi si dissolveva nel buio come un’apparizione. Una cosa così raffinata, così matematica nel suo contrappunto e allo stesso tempo così emotiva nella resa, era un prodigio acustico: la prova tangibile che l’uomo, almeno per un istante, poteva sfiorare il divino.

E nel silenzio della Cappella Sistina, quando l’ultima cadenza si posava come un respiro trattenuto, la reazione doveva essere sempre la stessa: una frazione di secondo di incredulità, un istante in cui nessuno osava muoversi. Poi soltanto il buio, la candela che si spegneva e quella sensazione vertiginosa di aver ascoltato qualcosa che non apparteneva del tutto alla terra.

Gregorio Allegri 

Nel tardo Seicento, l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo – musicista competente e assai sensibile al prestigio – volle assolutamente il Miserere per la sua cappella imperiale di Vienna. Chiese a papa Innocenzo XI una copia. La ottenne. Tutto sembrava semplice… fino all’esecuzione viennese.

Quello che risuonò nel palazzo imperiale non era un capolavoro mistico: era un corale moscio. Un disastro. Un Miserere che sembrava uscito da una parrocchia annoiata della periferia boema.

Leopoldo, convinto di essere stato ingannato, perse le staffe: accusò il maestro di cappella della Sistina di avergli rifilato un altro Miserere, una specie di tarocco musicale ante litteram. E siccome ai sovrani piacciono i gesti teatrali, fece sapere al Papa di ritenersi truffato. Innocenzo XI, che non capiva molto di musica ma teneva moltissimo alla reputazione della sua cappella, si indignò al punto da cacciare il maestro senza ascoltare spiegazioni.

Il pover’uomo rimase per mesi nell’ombra, provando a dire che no, non aveva mandato alcun falso. A salvarlo fu un cardinale che si prese a cuore la sua causa e spiegò al Papa – con tatto e un pizzico di verità scomoda – che il Miserere non era replicabile fuori dalla Sistina. Non perché fosse “magico”, ma perché i cantori romani avevano una competenza tecnica fuori dal comune e, soprattutto, perché l’intero rito delle Tenebre era costruito per esaltare quel brano specifico. In altre parole: le stesse note, in un altro luogo e con altre voci, risultavano irriconoscibili.

Innocenzo XI, ancora scettico ma un po’ meno furente, si convinse e scrisse una lunga lettera di autodifesa a Leopoldo I, spiegando che non c’era stata alcuna truffa: era la natura stessa del brano a non sopportare il trasferimento.

L’imperatore allora tentò la via più pratica: “Se la partitura non basta, mandatemi almeno qualcuno dei vostri cantori.” Il Papa acconsentì, i musicisti prepararono le valigie… ma nel 1683 la guerra contro i turchi travolse ogni progetto. Leopoldo dovette abbandonare Vienna, e il Miserere restò dove aveva sempre voluto restare.

Un canto che rifiuta di essere posseduto. Un canto nato per le tenebre e custodito dalle tenebre. Forse il frammento più fragile – e più luminoso – di ciò che siamo, capace di emergere solo nel buio della Cappella Sistina, quando le candele si spengono e la musica sembra ricordarci che l’incanto, a volte, dura un soffio soltanto.

martedì 25 novembre 2025

Le geometrie della Badia Fiesolana

Decorazioni geometriche sulla facciata della Badia Fiesolana 

Se vi capita di passare davanti alla facciata della Badia Fiesolana, vale la pena fermarsi un attimo a guardare quelle decorazioni geometriche – cerchi, rosoni, stelle di marmo bianco e serpentino verde – che sembrano solo il vezzo ornamentale di una facciata rimasta incompleta. A prima vista paiono un esercizio di bravura degli scalpellini, e invece dentro quelle forme c’è un mondo intero.

Sono lavori dell’XI-XII secolo, nel pieno della stagione romanica toscana. Un’epoca in cui Firenze e Fiesole si divertivano a creare facciate che erano una specie di codice in pietra: ordine, perfezione, ritmo. Le forme vengono dalla tarda Roma imperiale – quegli intarsi geometrici non sono altro che una rielaborazione medievale delle tecniche dell’opus sectile. E il verde? Quel serpentino scuro delle cave del Monteferrato pratese, che oggi associamo a Firenze, nel mondo romano era materiale di lusso, da palazzi imperiali. Metterlo qui, su una badia, era un modo elegante per dire: “non siamo affatto periferia”.

Rimane impressionante la coerenza: i cerchi come simbolo della perfezione divina, le stelle come luce e creazione, gli intrecci come continuità e ritmo cosmico. E sotto a tutto, quel respiro romano che passa dal marmo antico alla fantasia medievale.

Poi arriva il Rinascimento, che fa il suo solito trucco da prestigiatore: guarda queste geometrie, finge di “tornare all’antico”, e in realtà ricompone tutto secondo una nuova logica di proporzioni e di ordine mentale. Brunelleschi, Alberti, Michelozzo… tutti riprendono i moduli dell’antichità, ma solo per creare qualcosa che gli antichi non avevano mai immaginato. Roma usata come specchio, Firenze come cervello.

E così, davanti alla Badia Fiesolana, ci si rende conto che il dialogo tra Medioevo, Roma imperiale e Rinascimento non è una bella teoria da manuale: è inciso qui, a colpi di scalpello, in un mosaico di pietre che continuano a raccontare la loro storia a chi ha voglia di ascoltarla.

lunedì 24 novembre 2025

Il vero volto di Vibia Sabina

Vibia Sabina 

Oggi nel piccolo museo archeologico che sta accanto al Teatro Romano di Fiesole mi sono ritrovato davanti a un volto che ha attraversato i secoli con una calma un po’ enigmatica: quello di Vibia Sabina, moglie dell’imperatore Adriano per quasi quarant'anni. Una donna elegante, riservata, con un matrimonio non proprio da romanzo rosa (pare che tra lei e Adriano ci fossero più cerimoniali che tenerezze…), ma che nella ritrattistica ufficiale appare sempre impeccabile, serena e perfetta.

Adriano dopo la morte la divinizzò, forse per riconoscenza, forse per decoro imperiale, forse per lavarsi la coscienza dopo una vita di ignoranze e tradimenti coniugali. Guardandola così, scolpita nel marmo bianco, sembra davvero una divinità pagana. In realtà, all’epoca era tutto tranne che bianca.

La statuaria romana – come quella greca – era infatti vivacemente colorata. Non “tinte pastello”, ma colori pieni, dettagliati, studiati per rendere vivi gli occhi, i capelli e perfino le sfumature della pelle. Per decenni abbiamo creduto all’estetica del “bianco puro” solo perché i pigmenti, col tempo, sono spariti. Un gigantesco equivoco culturale, insomma.

Gli studi degli ultimi anni – imaging multispettrale, microscopia, analisi dei residui di pigmento – hanno rivelato come dovevano apparire queste sculture in origine. Nel caso di Sabina, possiamo immaginare qualcosa del genere:

I suoi riccioli – quei volumi quasi architettonici che si arrampicano sulla sommità del capo – erano dipinti, perché le romane non si accontentavano del marmo: volevano i colori. Castani caldi, biondi ramati, persino riflessi dorati per far scintillare la pettinatura alla luce del sole. La sua acconciatura fu imitata dalle dame dell’élite romana, un po’ come quando una first lady lancia una moda senza volerlo… o forse proprio volendolo.

Gli occhi, che oggi ci appaiono vuoti, un tempo erano tutto tranne che inespressivi. Iridi e pupille venivano tracciate con pigmenti scuri, e nelle opere più pregiate si usavano addirittura paste vitree, in modo che lo sguardo avesse una lucentezza quasi inquietante, da persona viva. 

Le labbra erano ravvivate da un rosso pieno, di solito ottenuto col cinabro, niente di eccessivo ma abbastanza da dare al volto un’aria presente, umana. La pelle restava chiara, certo, perché il marmo era già una buona base, ma veniva velata da sfumature rosate sulle guance e intorno agli occhi, come un trucco leggero steso con mano esperta. E poi c’era quella fascia che teneva insieme la massa dei capelli: anche quella era colorata, spesso in tinte decise come il blu, il rosso o perfino l’oro, perché a Roma – soprattutto a corte – la sobrietà non era una virtù poi così gettonata.

L’aspetto complessivo? Molto più realistico e sorprendentemente “vivo”, ben lontano dal marmo pallido che siamo abituati a vedere.

Insomma, la Sabina che vediamo oggi è solo lo scheletro visivo di ciò che era. Quella di allora - a colori - era un personaggio pieno, vivo, costruito per colpire lo sguardo e raccontare un ruolo, un rango, una storia. E guardandola così, sapendo tutto questo, il marmo non sembra più freddo. Sembra solo che il tempo abbia spento le luci, e che finalmente possiamo rivederle accese, almeno nella nostra immaginazione.

sabato 15 novembre 2025

San Sebastiano, Benozzo Gozzoli, e la peste

Affresco Votivo di San Sebastiano, Benozzo Gozzoli

Nella chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano c’è un affresco che porta addosso le ferite – e la speranza – di un anno preciso: il 1464. La peste non era un’ombra astratta, era lì, feroce, e la città cercava protezione ovunque potesse. Proprio in quei mesi Benozzo Gozzoli stava lavorando nel coro della chiesa al grande ciclo con le Storie della vita di sant’Agostino, commissionato dal colto frate agostiniano Domenico Strambi. Ma all’improvvisa nuova esplosione del morbo, nel giugno di quell’anno, gli agostiniani lo fermano: lascia il coro, abbiamo bisogno di un’immagine che ci salvi.

Gozzoli, obbediente e velocissimo, dipinge così il grande San Sebastiano votivo a metà della navata centrale. È completato il 28 luglio 1464. Tempi strettissimi: la città non poteva permettersi esitazioni. Anche il Comune, l’anno prima, aveva deliberato un affresco analogo nella Collegiata: segno che la peste stava colpendo forte almeno dal 1462, e che il santo-protettore era diventato un’ossessione collettiva.

Il San Sebastiano di Benozzo non è quello tradizionale, nudo e trafitto: qui è vestito, solido, quasi un principe. Con il suo grande mantello ripara il popolo dalle frecce dell’ira divina, un motivo antico della tradizione umbra che il pittore trasforma in una scena di tenerezza e potenza insieme. Gozzoli immagina il santo come uno scudo umano, calato in mezzo alla gente di San Gimignano, che agli inizi degli anni Sessanta del Quattrocento aveva già visto morire amici e parenti.

Sopra, il cielo si apre in un turbine di angeli. Cristo mostra le piaghe, la Madonna scopre il seno: è la doppia intercessione tipica della tradizione toscana, un gesto semplice e struggente, quasi familiare, per ricordare che la misericordia passa anche attraverso simboli corporei e quotidiani. A sorreggere l’intera scena c’è il colore: quei blu e quei rossi che solo Gozzoli sapeva far brillare così, come se l’affresco fosse illuminato da dentro.

Sotto, nella predella, appare Cristo crocifisso tra san Nicola da Tolentino, la Vergine, Giovanni Evangelista e sant’Agostino. In ginocchio, discretissimo, c’è proprio lui: Fra Domenico Strambi, il committente, che affida alla pittura la speranza della città. Nei tondi laterali compaiono santi a raffica: Giuliano, Antonio Abate, Giovanni Battista, Domenico, Giusto, Agata. Una piccola corte celeste chiamata in rinforzo, non si sa mai. E poi la folla vera: uomini, donne, bambini, volti seri, teste chine. È San Gimignano stessa, quella reale, che guarda il santo sperando di scamparla.

Entrare oggi a Sant’Agostino e trovarsi davanti questo affresco è un’esperienza strana: senti ancora l’urgenza con cui è stato dipinto, la paura che ne ha guidato la mano, ma anche la fiducia testarda di una comunità che non voleva arrendersi. In mezzo a tutto quel terrore, Benozzo trova il modo di creare un’immagine che consola: un santo che non soffre, ma protegge. Un uomo che si mette tra te e la tempesta.

E San Gimignano, con le sue torri vigilanti, continua a custodire quella scena come un promemoria di quanto fragile – e straordinaria – sia sempre stata la vita umana.

giovedì 13 novembre 2025

"Guardati": Giuseppe Giusti e l'arte di diffidare













  

Ci sono testi che sembrano usciti dalla Toscana granducale come da un cassetto dimenticato. È il caso dei Proverbi Toscani che Giuseppe Giusti cominciò a raccogliere ben prima del 1853, quando ancora Canapone regnava e l’Italia unita era un’idea che fumava solo nelle teste più ardite. Giusti, satirico fino al midollo ma anche osservatore lucidissimo del suo popolo, aveva messo insieme negli anni una straordinaria raccolta di proverbi, modi di dire, sentenze che circolavano tra campagne, osterie, mercati, controlli di gabella e strade di terra tutte sconquassate.

La maggior parte di questi proverbi sono brevi come stilettate: un verso, un lampo, una punzecchiatura. A volte comici, a volte spietati, sempre tagliati con quella lama sottile che è la lingua toscana quando non ha voglia di far complimenti. Giusti li raccolse, li sistemò, li commentò qua e là e restituì una fotografia antropologica del popolo prima che la parola “antropologia” entrasse nei libri.

In mezzo a questa miniera di frasi asciutte e folgoranti, però, c’è un pezzo che non assomiglia a nessun altro. È una specie di decalogo… a 24 comandamenti: una lista serrata di ammonizioni, una cascata di “guardati da…” che procede come una cantilena e insieme come un manuale di autodifesa popolare.

È talmente assertivo da sembrare il prontuario ufficiale del buon senso granducale: non un proverbio, ma un inventario di pericoli umani, animali, sociali, morali e professionali.

E dentro ci trovi tutto:
  • il medico ammalato, che è già un paradosso vivente;
  • il matto attizzato, forza incontrollabile;
  • la femmina disperata, che rompe gli argini di ogni convenzione;
  • il cane che non abbaia, che non avvisa;
  • i giudici dall’opinione ballerina;
  • gli speziali con ricette dubbie;
  • i notai con il loro micidiale “eccetere”;
  • il fatale “far quistione di notte”, precetto che oggi dovrebbe essere appeso sopra ogni chat di gruppo e ogni post di social media.

E tra gli altri c’è lei, la puttana vecchia, avvertimento fulminante. Non moralismo, ma lucidità: la professionista navigata, che non si illude più, non sbaglia più, conosce le debolezze altrui come un contabile conosce i numeri. È Machiavelli in sottoveste, ed è proprio per questo che il proverbio ti dice di starne lontano.

Questo “decalogo” è un unicum nella raccolta: lungo, ritmato, implacabile, quasi una litania laica recitata per non farsi beccare impreparati dal mondo. E più lo guardi, più capisci che non c’è psicologia, non c’è sociologia, non c’è teoria. C’è solo la realtà, nuda e toscana, che sa riconoscere i caratteri pericolosi a cento metri di distanza.

Il Granducato non c’è più, Giusti ormai è solo polvere e inchiostro, le osterie nuove si chiamano “bistrot” e gli speziali hanno la faccia dei farmacisti da banco. Eppure questo elenco di ventiquattro avvertimenti continua a guardarti come uno che ne ha viste tante e non si fa fregare da un sorriso.

Forse è questo il punto: siamo moderni solo finché non ci troviamo davanti un medico malato, un notaio con l’eccetera, o una puttana vecchia che ci squadra da capo a piedi. A quel punto la modernità svanisce, e restiamo identici ai toscani del 1853: diffidenti, un po’ furbi, un po’ ingenui… e eternamente vulnerabili alle stesse vecchie trappole.

Il mondo cambia, sì.
Le persone molto meno.
E Giusti se la ride, da qualche parte.