giovedì 23 ottobre 2025

Il filo del cielo: dalla cintura di Afrodite alla Cintola della Vergine di Prato

La Madonna dona la sua cintura all'Apostolo Tommaso
Santa Fiora, Pieve di Flora e Lucilla, Andrea della Robbia, circa 1470
Molto prima che la Madonna consegnasse la sua Cintola all’apostolo Tommaso, l’umanità aveva già immaginato oggetti simili — segni lasciati dal divino come pegni di presenza. Il mito della cintura sacra attraversa i millenni, cambiando solo linguaggio: da strumento di potere o desiderio nelle religioni antiche, a simbolo di fede e grazia nel cristianesimo.


Nell’Iliade (XIV, 214–221), Afrodite scioglie dal petto la sua
kestos himas, la cintura incantata, e la porge a Era, che la userà per sedurre Zeus e distoglierlo dalla guerra di Troia. Il passo recita:
“E la dea sciolse da sotto il petto
la cintura ricamata, variegata, in cui si trovano
tutte le seduzioni: amore, desiderio, dolcezza di parole,
e l’incanto che ammorbidisce i cuori, dono di Afrodite.”

In quella cintura — “in cui tutto è racchiuso”, parafrasando il testo — risiede l’essenza stessa del potere divino: l’unione tra corpo e spirito, eros e armonia cosmica. È un oggetto femminile che fa da tramite fra la sfera celeste e quella terrena, capace di trasmettere forza vitale. Non a caso, molti studiosi (da Mircea Eliade a Károly Kerényi) hanno visto nella kestos himas un archetipo remoto di quella cintura mariana che, più di un millennio dopo, avrebbe unito cielo e terra in chiave cristiana.

Nel mondo antico il tema ritorna in mille varianti: la cintura di Ippolita, conquistata da Eracle come segno di dominio e iniziazione; il velo di Ino-Leucotea, donato a Ulisse come protezione divina; la fascia di Ishtar, simbolo del potere riproduttivo e cosmico della dea babilonese; e persino gli exuviae eroici, le armi o le ossa degli eroi che le città greche veneravano come contenitori della loro dynamis, la forza divina. In tutte queste storie, la logica è la stessa: un frammento materiale che custodisce la presenza del sacro, una pars pro toto del divino. La cintura, il velo o la reliquia diventano il tramite fisico di un legame che unisce gli dèi agli uomini.

Quando il cristianesimo si diffonde nel Mediterraneo, non cancella questa sensibilità: la sublima. La cintura di Maria è la risposta spirituale alla cintura di Afrodite. Dove la dea dell’amore offre un pegno di desiderio, la Vergine offre un pegno di fede. Dove l’una spegne la guerra con l’eros, l’altra placa il dubbio con la grazia. Il gesto è identico: un essere divino che, nell’atto di elevarsi o di agire sul mondo, lascia un segno del proprio corpo come promessa di unione. Il simbolo si trasforma, ma la struttura mitica resta intatta. In entrambi i casi, è la cintura come archetipo del contatto con il divino: ciò che lega, ciò che unisce, ciò che fa dell’invisibile qualcosa di percepibile.

Nella Pieve delle Sante Flora e Lucilla, a Santa Fiora, si trova una delle opere più sorprendenti dell’arte robbiana: una grande terracotta invetriata che raffigura la Madonna nell’atto di donare la propria cintura all’apostolo Tommaso. È un’immagine che, a prima vista, sembra appartenere alla devozione fiorentina o pratese del Quattrocento. Eppure si trova qui, sull’Amiata, ben lontano dalle grandi città. Una presenza tanto insolita quanto eloquente. 

L’iconografia della Madonna della Cintola nasce da una leggenda apocrifa antichissima, la cui stesura più antica sembra essere una versione in siriaco del Transitus Mariae, risalente al IV secolo, probabilmente di ambiente giudeo-cristiano palestinese. Questo testo racconta che al momento della sua assunzione al cielo, Maria apparve all’apostolo Tommaso — l’unico assente al momento della sua morte — e, per rassicurarlo, lasciò cadere verso di lui la propria cintura come segno tangibile della sua glorificazione. Quel gesto, di intensa umanità, divenne presto un simbolo potentissimo: la prova concreta del passaggio della Vergine dal mondo terreno a quello celeste. Un filo di stoffa che univa il visibile all’invisibile, un gesto di misericordia e di prova, ma anche di relazione. Un filo che legando Maria a Tommaso legava anche il cielo alla terra.

Proprio da questa leggenda nacque uno dei culti più radicati della Toscana: quello della Sacra Cintola di Prato. Secondo la tradizione, un mercante pratese, Michele Dagomari, la portò in patria nel XII secolo dopo un pellegrinaggio in Terra Santa. Alla sua morte, la reliquia fu affidata alla Pieve di Santo Stefano e divenne presto il cuore spirituale e identitario della città. Le ostensioni pubbliche della Cintola — ancora oggi celebrate — scandirono i momenti solenni della vita civica. Non era solo un oggetto di fede: era la bandiera sacra di un’intera comunità, una sorta di “sigillo divino” della città sul suo stesso destino.

Il prestigio di Prato crebbe a dismisura. La Cintola attirava pellegrini, mercanti, artisti e donazioni, trasformando la città in una piccola capitale della devozione mariana. Quando Donatello e Michelozzo scolpirono il celebre pulpito esterno del Duomo, da cui la reliquia veniva mostrata al popolo, resero visibile la funzione civile e politica di quel culto: l’arte come strumento di mediazione fra cielo e terra, ma anche fra fede e potere.

Peraltro la Cintola non era solo pratese. Esistevano ed esistono altre reliquie simili sparse nel mondo cristiano: al Monastero di Vatopedi sul Monte Athos, dove una cintura di lana di cammello è venerata come “Santa Zoni”; nella Chiesa di Santa Maria in Soonoro, a Homs, in Siria, centro della tradizione siriaco-ortodossa; nel Monastero di Trooditissa, a Cipro, dove la cintura è invocata come aiuto per la fertilità; nelle collegiate francesi di Le Puy-Notre-Dame e Quintin, legate ai ritorni crociati; nella Cattedrale di Tortosa, in Catalogna, dove la “Santa Cinta” è simbolo cittadino; e perfino, in epoca medievale, in Inghilterra, nelle abbazie di Somerset, prima che la Riforma cancellasse il culto. Sono tutte varianti dello stesso mito: la Vergine che lascia un segno tangibile della propria presenza nel mondo. Ogni luogo ne fece un simbolo di protezione e di identità. Ma il filo originario, almeno in ambito occidentale — tanto per restare nella metafora — parte proprio dalla Toscana e da Prato.

Ecco allora che la terracotta invetriata di Andrea della Robbia nella pieve di Santa Flora e Lucilla acquista un significato che va ben oltre la devozione locale. La famiglia Sforza-Conti di Santa Fiora, signori del borgo, aveva stretti legami con Firenze e ne condivideva i modelli artistici e religiosi. Commissionare un rilievo robbiano con la Madonna della Cintola significava aderire a un linguaggio figurativo fiorentino-pratese, a quella raffinata religiosità visiva che univa bellezza, fede e identità politica. In un certo senso, la Pieve delle Sante Flora e Lucilla si inseriva così nella stessa rete simbolica che da Prato e Firenze irradiava tutta la Toscana centrale.

Nel Medioevo, possedere una reliquia importante significava porsi al centro del mondo. Le reliquie generavano pellegrinaggi, i pellegrinaggi generavano economie, e le economie consolidavano poteri. La reliquia era insieme motore economico, garanzia teologica e segno civico. Prato, Siena, Pisa, Bari — tutte costruirono la propria identità sulla presenza di un corpo santo o di un oggetto miracoloso.

Il culto delle reliquie non nasce con il cristianesimo, ma rappresenta in esso una straordinaria trasformazione culturale di un impulso molto più antico: quello di dare corpo al sacro, di renderlo tangibile. Nel mondo pagano esistevano già oggetti di contatto con il divino, "reliquie" in senso lato. Ad esempio nel Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina il contatto col divino passava attraverso oggetti oracolari, offerte, sortes estratte a caso in una sorta di proto-lotteria sacra e pietre considerate “abitate” dalla divinità. Erano reperti di potenza, non tanto simboli quanto presenze fisiche del dio nel mondo. Analogamente, nei templi greci si veneravano resti eroici — ossa di eroi, armi, perfino pietre cadute dal cielo — e si riteneva che custodissero la dynamis, la forza divina. Quando gli Spartani o gli Ateniesi traslavano le ossa di un eroe nel proprio territorio, non era solo un gesto religioso, ma un atto politico: portavano dentro le mura il favore divino, esattamente come le città medievali facevano con le reliquie dei santi.

Il cristianesimo, arrivando in questo mondo saturo di simboli materiali, non eliminò quella sensibilità, la sublimò. Il corpo del martire, la veste della Vergine, la cintura di Maria — tutto diventava mediazione concreta del trascendente. Le reliquie erano il modo per dire: “Dio è davvero stato qui, in carne e ossa.” Questo filo di continuità spiega perché i santuari medievali funzionassero, in fondo, come i templi pagani: luoghi dove il fedele poteva “incontrare” la divinità nel mondo sensibile. L’esperienza diretta del sacro era ciò che contava: non il dogma, ma la presenza. Nel Rinascimento, quella stessa logica si tradusse nel linguaggio delle immagini. Le opere dei Della Robbia, con la loro materia lucente e pura, non erano solo decorazioni ma veri strumenti di devozione: la terracotta invetriata come reliquia visiva, destinata a perpetuare la memoria del miracolo.

La terracotta di Santa Fiora, dunque, non è soltanto una bella opera rinascimentale: è una finestra aperta sul cuore di una civiltà. Racconta come un borgo montano cercò di collegarsi, attraverso l’arte, a quella grande rete culturale che da Prato e Firenze irradiava simboli e modelli. Ma racconta anche qualcosa di più universale: il bisogno costante dell’uomo di trattenere il sacro nel mondo sensibile, di toccarlo, di farne esperienza.

Così la Madonna della Cintola, che porge la sua fascia a Tommaso, è l’immagine perfetta di questa tensione. Un gesto di misericordia e di prova, ma anche di relazione. Un filo che lega Maria a Tommaso, il cielo alla terra, e — nel suo piccolo — Prato a Santa Fiora, e Santa Fiora al resto del mondo.

martedì 7 ottobre 2025

Paesaggi di parole

Isola di Hvar
Le parole non vivono solo nei libri o sui nostri schermi: abitano lo spazio, si fanno pietra, metallo, pigmento. Da secoli ci osservano dai muri delle città, dalle lapidi, dalle pale d’altare, dalle cornici di un affresco. Sono tracce lasciate perché non fossero dimenticate, ma sono anche architetture visive, forme che scolpiscono l’aria tanto quanto il significato che veicolano.
Pala Strozzi, 1432-34
Quando ci fermiamo davanti a un’iscrizione, non leggiamo soltanto: camminiamo in un paesaggio. Le lettere sono colline e solchi, curve e orizzonti. La geometria di un carattere romano inciso nel marmo ha la stessa forza di una catena montuosa: linee che si stagliano contro il tempo. Le dorature delle lettere gotiche vibrano come acque al tramonto. Ogni parola incisa è un rilievo da esplorare.

Celerina, Engadina  

Questi “paesaggi di parole” ci dicono che il linguaggio non è mai astratto: ha corpo, peso, materia. È una geografia che si dispiega davanti a noi, invitandoci a entrare. Le iscrizioni ci mostrano la potenza originaria della scrittura: fissare, imprimere, rendere eterno ciò che rischia di svanire.

Cimitero di Monsummano Alto  

Eppure, accanto alla loro funzione di memoria, resta l’incanto estetico: il piacere puro delle forme, il ritmo delle lettere, il dialogo fra testo e supporto. Ogni iscrizione è un microcosmo in cui la parola non è soltanto da decifrare, ma da contemplare.

Montecassino  

Osservare questi paesaggi significa accettare di lasciarsi attraversare da voci lontane. Non sempre ne comprendiamo tutto il messaggio, ma intuiamo l’eco. Sono le tracce di chi ha voluto dire: “Io sono stato qui. Questo conta. Questo deve restare”.

Cattedrale di Pisa  

In un mondo dove la parola corre veloce e si dissolve nello spazio digitale, fermarsi davanti a una parola incisa è come respirare profondamente: ci ricorda che il linguaggio non è solo suono o informazione, ma anche forma, bellezza, materia. Un paesaggio da abitare.

Moustiers Sainte Marie, Provenza



giovedì 15 maggio 2025

Sopra le nubi tossiche

Fioritura di narcisi sotto alla vetta del monte Croce 

C'è un racconto nella saga di Hyperion di Dan Simmons che non mi ha mai lasciato davvero. Il protagonista vive su un pianeta - T'ien Shan - dove solo le vette delle montagne sono abitabili: le basse quote, immerse in un’atmosfera densa di fosgene, sono diventate letali. Le persone si rifugiano in alto, sopra le nubi tossiche, come se la salvezza fosse ormai confinata all’apice del mondo.

Mi è tornata in mente questa storia stamattina, camminando lungo il sentiero 109 che dall'Albergo Rifugio Alto Matanna conduce alla vetta del Monte Croce, poco più di 1300 metri. Davanti a me si apriva il profilo delle Panie, ma erano i miei passi a essere immersi in un’altra meraviglia: un'immensa fioritura di narcisi e asfodeli che ammantava prati e pendii. Un tripudio bianco e verde che sembrava una benedizione. E lì, nel silenzio profumato del mattino, ho capito che anche quella bellezza, così pura e apparente, raccontava una storia più complessa.

Panorama da sotto la vetta del monte Croce  

Le Apuane meridionali, da lontano, sembrano un rifugio incontaminato sopra una pianura ormai satura: fabbriche, capannoni, centri commerciali, asfalto, automobili, logistica. Tutti i feticci della nostra epoca. Ma questo isolamento montano non è frutto di un miracolo: è la conseguenza di scelte umane, o più spesso di non-scelte. Di abbandoni. Di economie che si sono sgonfiate, di borghi svuotati, di sentieri dimenticati. L’agricoltura di quota, la pastorizia, le attività forestali: tutte ritirate, lasciando spazio a una rinaturalizzazione che oggi ci appare “vergine” ma che, in realtà, è il volto più recente di un paesaggio plasmato per secoli dall’uomo.

A ogni passo, lungo il crinale, si incontrano le tracce di quel mondo perduto: mulattiere, muretti, terrazzamenti, ruderi di case in pietra, carbonaie ormai avvolte nel muschio. Non era wilderness. Era civiltà.

E allora quel che vediamo oggi – e che tendiamo a mitizzare come un ritorno all’eden – è in realtà un tempo sospeso. L’uomo ha sempre avuto la tendenza a mitizzare il passato e la natura, a evocare un’età dell’oro in cui tutto era armonia. Ma quella nostalgia rischia di essere un alibi.

Forse il punto non è tornare indietro, ma imparare a guardare avanti con consapevolezza. Con la stessa cura con cui i nostri nonni sistemavano un muro a secco, o tracciavano un sentiero tra le rocce. Perché anche il futuro – come le vette di Hyperion – dipenderà da dove e come decideremo di abitare.

sabato 10 maggio 2025

La poesia venne a cercarmi

Il Settimo Sigillo, foto di Bart Ramakers 
In un tempo come il nostro, in cui il rumore di fondo sembra inghiottire ogni silenzio e la prosa del mondo sembra aver vinto su ogni stupore, rileggere versi come questi di Pablo Neruda è come ricevere un soffio d’aria in una stanza che sta chiusa da troppo tempo.

La poesia non arriva con clamore, non irrompe come una certezza: “venne a cercarmi… non so da dove sia uscita, da inverno o fiume”. È un’apparizione, una chiamata misteriosa che non chiede spiegazioni ma ascolto. Ed è proprio in questa sua natura sfuggente e irriducibile che risiede la sua forza: ci strappa all’indifferenza, risveglia quello che credevamo sopito, ci ricorda che siamo parte di qualcosa di più grande e segreto.

Neruda racconta la scoperta della poesia come una trasformazione: il mondo si dischiude, la realtà si accende di presenze invisibili, il cielo si sgrana come una costellazione appena nata. È la scoperta della bellezza come necessità, come svelamento di senso nel caos. Non è un rifugio, ma un atto di resistenza contro il vuoto e il male che nel vuoto si nasconde.

In questo “minimo essere” che ruota con le stelle c’è ciascuno di noi, ogni volta che permettiamo alla poesia – e più in generale alla bellezza – di toccarci, di rivelarci che non tutto è perduto, che la vita resta degna anche nelle sue oscurità.

Forse è davvero questa la salvezza di cui parlava Dostoevskij: non una redenzione astratta, ma la capacità di vedere ancora il cielo spalancarsi sopra di noi. E sentirci, per un attimo, parte pura dell’abisso. Vivi. Umani.

 


La Poesia

Accadde in quell’età... La poesia
venne a cercarmi. Non so da dove
sia uscita, da inverno o fiume.
Non so come né quando,
no, non erano voci, non erano
parole né silenzio,
ma da una strada mi chiamava,
dai rami della notte,
bruscamente fra gli altri,
fra violente fiamme
o ritornando solo,
era lì senza volto
e mi toccava.

Non sapevo che dire, la mia bocca
non sapeva nominare,
i miei occhi erano ciechi,
e qualcosa batteva nel mio cuore,
febbre o ali perdute,
e mi feci da solo,
decifrando
quella bruciatura,
e scrissi la prima riga incerta,
vaga, senza corpo, pura
sciocchezza,
pura saggezza
di chi non sa nulla,
e vidi all’improvviso
il cielo
sgranato
e aperto,
pianeti,
piantagioni palpitanti,
ombra ferita,
crivellata
da frecce, fuoco e fiori,
la notte travolgente, l’universo.

Ed io, minimo essere,
ebbro del grande vuoto
costellato,
a somiglianza, a immagine
del mistero,
mi sentii parte pura
dell’abisso,
ruotai con le stelle,
il mio cuore si sparpagliò nel vento.

Pablo Neruda, Memoriale di Isla Negra, 1964

giovedì 8 maggio 2025

Patroni e quattrini a San Giusto in Piazzanese

La targa del 1665 posta a memoria dell'accordo 

Chi giunge oggi alla chiesa di San Giusto in Piazzanese ci arriva attraversando la periferia di Prato: una periferia che sa di cemento e di lavoro, fatta di capannoni tessili, strade trafficate, e con quella sensazione tipica delle zone dove la città ha divorato pian piano la campagna. Eppure, basta voltare lo sguardo, o camminare pochi passi per ritrovare i campi, i filari, le vecchie case coloniche. È una terra di confine, dove l’anima contadina convive con l’identità industriale.

La chiesa sta in una piccola oasi verde, preceduta da un viale di grandi platani piantati per commemorare i caduti della Grande Guerra: è un edificio semplice dalle forme settecentesche, che solo nell'alto campanile gotico dimostra la sua antichità. Dentro, in una penombra silenziosa, si può trovare - con un po' di attenzione - una lapide in latino datata 1665. Non è una semplice iscrizione, ma il sigillo su una contesa che agitò due famiglie nobili e che venne risolta grazie all’intervento di uno degli uomini più influenti della Toscana di allora. 

Di seguito la traduzione:

A Dio Ottimo Massimo 

Riguardo al diritto di patronato di questa parrocchia di San Giusto in Piazzanese, dopo la morte di Roberto Francesco Martelli, uno dei patroni, nell’anno 1660 sorse una controversia tra l’abate Ieronimo, pievano, e il cavaliere Francesco Lelio Martelli, figlio del fratello del suddetto Roberto, e il cavaliere Camillo da Verrazzano, erede del medesimo Roberto per testamento. Per risolvere questa questione, fui incaricato dal Serenissimo Principe di Toscana Leopoldo, e dopo aver esaminato la causa, come arbitro nominato, pronunciai la sentenza a favore dell’abate Ieronimo e infine anche del cavaliere Francesco. Tale decisione fu registrata negli atti della curia episcopale di Pistoia e riferita al consigliere di Firenze il 21 novembre 1661.A compimento di ciò, si aggiunse anche la donazione dello stesso Verrazzano, come risulta dagli atti di Carlo Novelli. Affinché la memoria del fatto non svanisse, l’abate Ieronimo e il cavaliere Francesco, fratelli e figli di Lelio Martelli, unanimemente si presero cura di far porre questo monumento. Nell’anno della salvezza 1665.

Tutto ebbe inizio nel 1660, alla morte di Roberto Francesco Martelli, uno dei patroni della pieve. Da quel momento si scatenò una disputa giuridica e familiare sul diritto di patronato: un privilegio concesso nel 1463 da Papa Pio II alla famiglia Martelli, che dava diritto a scegliere il pievano e influenzare la vita religiosa e sociale del borgo. I contendenti erano da una parte l’abate Ieronimo, pievano della chiesa insieme a Francesco Lelio Martelli, figlio del fratello del defunto Roberto. Dall’altra parte c’era Camillo da Verrazzano, nominato erede testamentario di Roberto. La questione si trascinò per diversi anni, probabilmente percorrendo tutte le tappe possibili della giustizia ecclesiastica e civile, fino ad arrivare al vertice del potere: il Granduca.

Fu proprio il principe Leopoldo de’ Medici, fratello del Granduca Ferdinando II, a essere incaricato della mediazione. Colto, raffinato, appassionato d’arte e fondatore dell’Accademia del Cimento, Leopoldo era l’uomo giusto per districare una matassa tanto delicata. Alla fine, dopo una attenta valutazione, stabilì che il diritto spettava all’abate Ieronimo e al cavaliere Francesco Martelli. Camillo, per evitare ulteriori tensioni, accettò la sentenza e offrì una donazione riconciliatoria. Ma fu davvero solo un gesto di pace? È verosimile immaginare che dietro quella “donazione” si celasse un accordo più complesso: forse Camillo ottenne compensi, benefici o terre. Non lo sapremo mai con certezza, perché la lapide, pur celebrando l’accordo, tace sui dettagli più pratici. Tuttavia, sappiamo che la soluzione trovata fu solenne e definitiva e fu incisa nella pietra, a testimonianza dell’intesa e dell’onore salvato. A volerlo furono gli stessi protagonisti: l’abate Ieronimo e il cavaliere Francesco, fratelli e figli di Lelio Martelli. Uniti, posero quella lapide “perché la memoria del fatto non svanisse”.

La famiglia Martelli era una delle più antiche e autorevoli casate nobiliari di Firenze, da sempre intrecciata con la storia civile e religiosa della città. I rami cadetti, come quello insediato nel territorio di Prato, continuavano a esercitare potere e prestigio anche fuori dai confini cittadini. Anche se mancano prove genealogiche inconfutabili che colleghino direttamente i Martelli di Piazzanese a quelli della “Casa Martelli” oggi museo a Firenze, il cognome, lo stemma araldico e soprattutto il privilegio del patronato concesso dalla Chiesa, parlano chiaro: c’era un legame, se non di sangue, certamente di rango e influenza. 

La chiesa di San Giusto in Piazzanese, oggi 

Quel che rende ancora più interessante il caso di San Giusto è che questa pieve non era nata a servizio del villaggio, ma è venuta prima del villaggio stesso. Documentata già nell’anno 779, San Giusto in Piazzanese fu sicuramente un punto di riferimento per una comunità sparsa, fatta di poderi, piccoli insediamenti agricoli e pievi minori. In effetti, risulta coeva – se non più antica – dello stesso abitato di Borgo al Cornio, che nel tempo avrebbe dato origine alla città di Prato. Si può dire, senza esagerare, che San Giusto è uno dei cuori originari della civiltà pratese, un presidio di culto, ma anche di organizzazione sociale e difesa del territorio. Non a caso, il campanile - in quello stile gotico ancora oggi visibile - fungeva da torre di avvistamento in epoche in cui le incursioni, le guerre tra signorie o le razzie rappresentavano un pericolo concreto. Dal suo punto più alto si dominava tutta la piana circostante, da cui si potevano scrutare i movimenti di eserciti, viandanti e nemici.

Il campanile gotico 

Possedere il diritto di patronato su una chiesa del genere nel Seicento non era solo questione d’onore o di prestigio: era anche, e soprattutto, un ottimo investimento. La parrocchia di San Giusto in Piazzanese, con le sue rendite, i terreni annessi e le offerte dei fedeli, poteva garantire entrate considerevoli, paragonabili a quelle di una media azienda agricola dell’epoca. Le stime più attendibili parlano di rendite annuali che potevano oscillare tra le 100 e le 500 lire toscane, una somma affatto trascurabile in un’epoca in cui:

  • un servo o un contadino a giornata veniva pagato circa 10–20 lire l’anno;
  • una dote media per una figlia da maritare si aggirava intorno alle 150–300 lire;
  • con 200 lire, si poteva acquistare un piccolo podere collinare o un’intera annata di raccolto;
  • un'opera d’arte devozionale, magari commissionata a un pittore locale, poteva costare tra le 30 e le 100 lire, a seconda della fama dell’artista;
  • una famiglia nobile di provincia poteva vivere decorosamente per un anno con una rendita di 400 lire, mantenendo carrozza, servitori e frequentando la vita ecclesiastica e sociale.

Il giuspatronato era, insomma, una fonte di reddito regolare, un simbolo di dominio territoriale e un modo per rafforzare i legami politici con la curia e con le famiglie locali. Chi lo deteneva non solo nominava il pievano, ma spesso determinava le scelte architettoniche, artistiche e pastorali della parrocchia. In certi casi, poteva addirittura intervenire nella destinazione delle offerte e nella gestione dei beni ecclesiastici. In un contesto dove potere religioso e potere economico andavano spesso a braccetto, il patronato era un'arma affilata in mano alla nobiltà terriera, tanto da scatenare dispute lunghe e complesse come quella tra i Martelli e il Verrazzano.

La lapide in cui le ultime eredi Martelli rinunciano al loro diritto 

Quasi tre secoli dopo la famosa disputa, un’altra lapide venne murata nella stessa chiesa. Era il 6 marzo del 1961, e portava i nomi di Francesca e Caterina Martelli, ultime eredi della casata. Con un gesto solenne e volontario, le due sorelle rinunciarono al diritto di patronato, restituendolo alla Curia vescovile di Prato. Non fu solo un gesto formale: fu, di fatto, la fine di un’epoca. Un atto che chiudeva una storia durata quasi cinquecento anni e che segnava il passaggio da un mondo in cui la religione e il potere camminavano a braccetto, a uno in cui la fede ha cominciato — finalmente — a camminare da sola.

E queste lapidi, silenziose ma eloquenti, ce lo ricordano ancora oggi.


martedì 25 marzo 2025

L'uomo custode dell'ordine cosmico nella lunetta di San Cassiano di Controni

La lunetta di San Cassiano 

Arroccata nell'antico territorio della Controneria, oggi parte del comune di Bagni di Lucca, la chiesa di San Cassiano di Controni rappresenta uno dei gioielli più antichi della Lucchesia. Le sue radici affondano nel lontano 772 d.C., data della sua prima testimonianza scritta. Edificata durante la dominazione longobarda, probabilmente sopra un preesistente luogo sacro, fu poi rinnovata nel XII secolo secondo i canoni del romanico. La sua posizione privilegiata, panoramica e strategica lungo la via di crinale che univa la valle del Serchio alla montagna pistoiese, la rese un fulcro religioso e sociale per le comunità circostanti. Dedicata a San Cassiano, martire di Imola il cui culto prosperò nei territori longobardi, la pieve conserva intatto un fascino primordiale, visibile nelle sculture della facciata e nell'interno a tre navate scandite da colonne con capitelli cubici.

Sulla facciata, il portale d'ingresso è coronato da una lunetta scolpita che cattura lo sguardo del visitatore: tre figure umane con le braccia protese verso l'alto emergono sotto un arco decorato con motivi floreali. La figura centrale si distingue per due peculiari sporgenze ai lati della testa, forse un copricapo rituale o simboliche "orecchie" tese ad ascoltare il divino. La posa degli oranti, archetipo che riecheggia le antiche incisioni preistoriche della Valcamonica, trasforma le braccia sollevate in un gesto ancestrale di invocazione, un ponte invisibile che unisce la terra al cielo.

Gli oranti di Naquane in Valcamonica 

Questa immagine dell'orante, sorprendentemente persistente nel tempo, in provincia di Prato compare anche nella lunetta dell'abbazia di Santa Maria a Montepiano, dove è addirittura raffigurata una figura femminile che esegue lo stesso gesto rituale. Tale postura richiama pratiche cultuali molto più antiche del cristianesimo: in molte culture precristiane, l'orante era colui (o colei) che, con il corpo, imitava l'atto cosmico di collegamento tra l'alto e il basso, tra il cielo e la terra. Era insomma una figura sciamanica, sacerdotale, chiamata a fare da tramite tra il visibile e l'invisibile.

L'orante donna a Santa Maria a Montepiano 

L'iconografia dell'orante, figura frontale, eretta, con le braccia e i palmi delle mani protese verso il cielo, è infatti antichissima e come tante altre è stata ripresa e reinterpretata anche in ambito cristiano. Il gesto della preghiera con le mani alzate è trasversale a molte culture e religioni, ed è profondamente radicato anche nella tradizione ebraica, come attestano vari Salmi: «Alzate le mani verso il santuario e benedite il Signore» (Salmo 134, 2), o ancora: «Le mie mani alzate come sacrificio della sera» (Salmo 141, 2). È il gesto di Mosè, che durante la battaglia contro gli Amaleciti sostiene il popolo con le mani levate verso il cielo. Nell’iconografia paleocristiana, l’orante è raffigurato nei sarcofagi e nelle catacombe, spesso in ambito funerario, come simbolo di speranza nella vita oltre la morte.

Chiesa e campanile di San Cassiano

A sovrastare le figure della lunetta, sei grandi fiori stilizzati – simili a margherite – si irradiano in modo simmetrico. La loro forma radiale richiama antichi simboli solari, cosmici, vitali, e suggerisce un'intenzionalità simbolica profonda. Il numero sei è carico di significati: nella simbologia sacra, rappresenta l'armonia, l'equilibrio perfetto tra mondo spirituale e materiale (non a caso il mondo, secondo la Genesi, fu creato in sei giorni). Sei è anche numero della creazione ordinata, della bellezza geometrica e dell'unità raggiunta attraverso la diversità.

Il gesto dell'orante che tocca o sostiene questi fiori può essere letto come un atto sacro: l'essere umano che attinge all'armonia celeste e la porta sulla terra, diventando mediatore e custode dell'ordine universale. Un gesto che evoca il mito, la preghiera e la sacralità della natura, ma anche l'idea che il cosmo stesso fiorisca in risposta al contatto con l'umano. Sotto la lunetta, un fregio a intreccio celtico-longobardo simboleggia l'eternità e la connessione tra i mondi. Ai lati del portale, due leoni accovacciati custodiscono l'ingresso: simboli di forza e vigilanza, ma anche di transizione tra dimensioni spirituali. La ghiera dell'arco, decorata con animali fantastici e motivi vegetali, compone un vero e proprio bestiario scolpito, un universo parallelo dove il caos è domato dalla fede.

Intrecci sulla facciata di San Cassiano

La chiesa di San Cassiano, quindi, non è solo un monumento ma un luogo simbolico; ogni dettaglio racconta una storia, ogni pietra parla un linguaggio arcaico e sacro. In epoca medievale, entrare in chiesa significava attraversare una soglia tra visibile e invisibile. Ancora oggi, questo portale ci ricorda che l'essere umano è chiamato a custodire l'armonia del cosmo, ascoltarne il respiro, riconoscere e onorare i segni della bellezza e della vita che ancora oggi fioriscono nel mondo.

I simboli, pur appartenendo a epoche remote, continuano a parlarci con forza. Essi rappresentano energie, tensioni spirituali e aspirazioni universali che, sotto forme diverse, animano ancora oggi la nostra ricerca di senso, bellezza e connessione con il tutto. La figura dell’orante, i fiori solari, gli animali guardiani: nulla è davvero passato, perché queste immagini archetipiche toccano ancora corde profonde dell’animo umano. In un tempo che spesso dimentica le radici, San Cassiano ci invita a ritrovare il filo che ci lega all’universo, e a riconoscere che quei segni antichi vivono ancora – dentro di noi.

"Il simbolo è la migliore possibile espressione di qualcosa di essenzialmente sconosciuto." Carl Gustav Jung, Tipi psicologici


sabato 22 marzo 2025

Resurrezione liquida: la sorgente del Borro di Cavagliano a Travalle

Il Rio Camerella a poca distanza dalla sorgente

Quando si osservano i Monti della Calvana, situati tra Prato e il Mugello, ci si accorge immediatamente di quanto questo massiccio sia diverso dalle altre montagne toscane. Il paesaggio che si presenta agli occhi del visitatore è caratterizzato da un'apparente assenza d'acqua: poche sorgenti in quota e nessun ruscello che scende visibilmente dai pendii. In passato, quando le praterie avevano un'estensione maggiore rispetto a quella odierna, chi attraversava in estate i crinali assolati della Calvana si trovava davanti a uno scenario quasi lunare: vaste distese di praterie pietrose, doline scavate nella roccia e rarissime tracce d'acqua in superficie.

Questa caratteristica peculiare nasconde però una verità affascinante: l'acqua nella Calvana è abbondante, ma scorre invisibile sotto i nostri piedi. I Monti della Calvana rappresentano infatti il secondo complesso carsico della Toscana per dimensioni, superato solo dalle più note Alpi Apuane. La loro formazione geologica, denominata "formazione di Monte Morello" e risalente al periodo compreso tra il Paleocene e l'Eocene medio (circa 66-40 milioni di anni fa), è costituita principalmente da argille e dal caratteristico calcare Alberese. Queste rocce, con la loro particolare composizione, hanno dato origine nel corso dei millenni a un sistema idrologico complesso e articolato.

La Marinella vicino alla villa di Travalle 

Il calcare, elemento predominante del massiccio, agisce come un gigantesco filtro naturale: l'acqua piovana, anziché scorrere in superficie formando torrenti e ruscelli, si infiltra nelle innumerevoli fratture e nelle doline che punteggiano i crinali e i pascoli sommitali. Una volta penetrata nella roccia, l'acqua intraprende lunghi e tortuosi viaggi sotterranei, muovendosi lentamente attraverso cunicoli e gallerie scavate dalla sua stessa azione chimica. Nel corso dei millenni, questo processo continuo ha progressivamente eroso la roccia calcarea, creando un articolato sistema di cavità sotterranee.

Il viaggio dell'acqua all'interno del massiccio prosegue fino all'incontro con strati di roccia più impermeabile o con barriere geologiche naturali, come le marne o altre formazioni meno permeabili che si trovano a quote inferiori. È proprio in questi punti, generalmente posizionati tra i 300 e i 400 metri di altitudine, significativamente più in basso rispetto alla dorsale montuosa principale, che avviene la "risorgenza": l'acqua riemerge in superficie dando vita a sorgenti perenni.

La distribuzione di queste sorgenti non è uniforme lungo tutto il massiccio. Ne sono state censite ben 97, concentrate principalmente nella parte settentrionale e in quella centrale della catena montuosa, molte delle quali situate proprio nella fascia altimetrica compresa tra i 300 e i 400 metri. La parte meridionale, invece, presenta un numero significativamente inferiore di sorgenti, prevalentemente localizzate in prossimità dei fondovalle. Una caratteristica importante di queste sorgenti è la notevole variabilità della loro portata, strettamente legata all'intensità delle precipitazioni. Questa particolarità evidenzia la rapidità con cui l'acqua piovana attraversa il sistema carsico, riemergendo dopo percorsi relativamente brevi ma complessi.

Rio Camerella 

Nonostante la natura carsica del territorio, la densità del drenaggio superficiale nella Calvana è sorprendentemente abbondante rispetto ad altre aree con caratteristiche geologiche simili. Tuttavia, solo alcuni dei piccoli torrenti che discendono dalla dorsale mantengono un flusso perenne durante tutto l'anno, mentre la maggior parte si secca nei periodi di siccità prolungata; tutti, in generale, vengono alimentati dalle risorgenze presenti a varie quote, alcune delle quali particolarmente copiose.

Tra le tante sorgenti della Calvana, una spicca in modo particolare: quella del Borro di Cavagliano a Travalle. Qui l’acqua, dopo aver percorso il suo misterioso viaggio sotterraneo, riemerge con tale forza da generare l’intero Rio Camerella, che dopo un breve corso va a gettarsi nella Marinella. Dal punto di vista idrogeologico, la sorgente del Borro di Cavagliano presenta una conformazione peculiare: una bocca principale alimenta direttamente il rio, mentre un serbatoio creato artificialmente è collegato a un antico lavatoio e a una presa d'acqua. Questa doppia struttura ha permesso, nei secoli, un uso razionale e sostenibile della risorsa: da un lato, il nutrimento continuo del corso d’acqua; dall’altro, il supporto alle attività quotidiane della comunità locale.

La sorgente del Borro di Cavagliano 

Grazie alla sua portata costante, anche nei periodi più siccitosi, la sorgente è stata per secoli un riferimento vitale per gli abitanti della zona, garantendo acqua per uso domestico, agricolo e per l’abbeveraggio del bestiame. La sua importanza è testimoniata dalle opere di sistemazione idraulica realizzate nel tempo, che hanno permesso di ottimizzare la fruizione della sorgente senza comprometterne l’equilibrio naturale.

Ma la sorgente non è solo una risorsa idrica: la sua storia è intrecciata a un universo culturale e simbolico di rara suggestione. A pochissima distanza si ergono antiche murature che racchiudono una collinetta lobiforme di origine quasi certamente artificiale. Oggi questo luogo ospita la casa colonica nota come "podere Castelluccio", ma alcuni studiosi ritengono che queste strutture costituissero originariamente la base di un tempio probabilmente dedicato al culto delle acque. La presenza di un edificio sacro in prossimità di una sorgente così abbondante non è casuale. Il culto delle acque rappresenta infatti uno degli elementi più antichi e persistenti nelle religioni mediterranee, e in particolare nella cultura etrusca, che aveva sviluppato una profonda connessione spirituale con le manifestazioni naturali dell'acqua.

Il lavatoio-abbeveratoio 

Le sorgenti, in particolare quelle che emergevano misteriosamente dal sottosuolo dopo percorsi invisibili attraverso le viscere della terra, erano infatti considerate manifestazioni divine, punti di contatto tra il mondo terreno e quello ctonio. L'acqua che sgorgava dalle profondità della terra portava con sé non solo fertilità e vita, ma anche conoscenza e potere purificatore. Non sorprende quindi che attorno a queste sorgenti si sviluppassero luoghi di culto e rituali specifici.

Gli Etruschi, popolo che ha abitato queste terre prima della dominazione romana, avevano elaborato una complessa teologia in cui le divinità legate alle acque occupavano un ruolo primario. Numerose sono le testimonianze archeologiche di culti legati alle sorgenti in tutta l'Etruria, con ritrovamenti di ex voto, strutture rituali e santuari dedicati a divinità acquatiche. A Pizzidimonte, a poca distanza da qui, sono state ritrovati diversi reperti di epoca etrusca collegati a frequentazioni sacrali di questo tipo, mentre la collina del podere Castelluccio, finora, non è mai stata oggetto di indagine archeologica e verosimilmente potrebbe celare altri ritrovamenti dello stesso genere.

Il punto in cui riemerge la sorgente 

Il ciclo delle acque carsiche – che si perdono nel sottosuolo per poi riemergere – ha nutrito, fin dall’antichità, un immaginario legato ai temi della morte e della rinascita. Il viaggio sotterraneo dell’acqua, che scompare nell’oscurità per poi riapparire pura e rinnovata, era interpretato come una metafora del percorso dell’anima nel mondo dei morti e del suo ritorno alla vita. Nelle culture arcaiche del Mediterraneo – e in quella etrusca in particolare – questo ciclo naturale assumeva un significato sacrale. Le sorgenti carsiche venivano viste come varchi tra il mondo visibile e l’aldilà, e non a caso i luoghi sacri sorgevano spesso in prossimità di questi fenomeni.

L’antico tempio di Castelluccio, collocato su una collinetta sopraelevata rispetto alla sorgente, probabilmente rievocava simbolicamente questo viaggio, dall’acqua che risorge dalle profondità ctonie al tempio che si eleva verso la luce. Era un cammino rituale, un’ascesa carica di significati spirituali e di legami con i cicli stagionali e il culto degli antenati, con pratiche di purificazione, riti propiziatori e offerte votive alle divinità delle acque. L’acqua della sorgente – ritenuta rigenerante e guaritrice – veniva utilizzata sia per scopi cerimoniali che terapeutici.

Il getto che cade nel lavatoio 

Oggi, mentre l'acqua continua il suo eterno ciclo attraverso le rocce calcaree della Calvana, emergendo copiosa dalla sorgente del Borro di Cavagliano, possiamo solo immaginare i rituali e le credenze che per millenni hanno accompagnato questo fenomeno naturale. Ma le antiche murature del podere Castelluccio rimangono, a testimoniare quella sacralità del luogo che i millenni non hanno completamente cancellato.

Oggi la sorgente è molto più di un fenomeno idrogeologico: è un crocevia di storie e conoscenze dove geologia, archeologia, storia e mito si incontrano e si mescolano, dando forma a un racconto affascinante che attraversa i millenni e ci parla ancora, toccando le nostre radici più profonde.

Per chi voglia visitare questo luogo di seguito posto una cartina (cliccate per aprirla in modo interattivo); nel caso raccomando di fare attenzione perché la sorgente si trova dentro campi coltivati che non vanno calpestati né percorsi con mezzi diversi dalle gambe. Le coordinate GPS della sorgente sono 43.8881086N, 11.1538936E.

La conca di Travalle

domenica 9 marzo 2025

"Ostium non Hostium", La Scola dei Parisi

L'ingresso del borgo 

Giungere al borgo di La Scola è come arrivare in un angolo intatto del Medioevo. Situato nell'Appennino Bolognese, tra la Rocchetta Mattei e il Santuario di Montovolo, questo villaggio rappresenta uno degli esempi meglio conservati dell'architettura medievale appenninica. Le sue origini risalgono al VI secolo d.C., quando la sua posizione strategica sul crinale segnava il confine tra il regno longobardo e l'Esarcato di Ravenna. Il nome "Scola" deriva infatti dal termine longobardo "Sculca", che significa posto di guardia o vedetta, riflettendo la funzione militare originaria del borgo come avamposto difensivo del vicino centro monastico di Montovolo.

La meridiana di Palazzo Parisi 

La maggior parte degli edifici presenti risale al periodo tra il 1400 e il 1500, frutto dell'opera dei Maestri Comacini, artigiani provenienti da Milano e Como, noti per la loro maestria nella lavorazione della pietra. Questi artigiani trasformarono le antiche torri militari in abitazioni civili, mantenendo però l'aspetto fortificato del borgo. La struttura urbanistica di La Scola è infatti caratterizzata da edifici e torri addossate, integrate in un sistema difensivo naturale che sfrutta la conformazione del terreno per renderlo meno vulnerabile agli attacchi nemici. Un elemento distintivo del borgo è un maestoso cipresso, alto 25 metri e con un'età stimata di oltre 700 anni, riconosciuto come monumento naturale, con un fusto che raggiunge più di 5 metri di circonferenza.

L'antico forno comunitario

La storia del borgo è strettamente legata alla famiglia Parisi, originaria di Prato, che si stabilì a La Scola alla fine del XIV secolo; all'inizio svolgevano la professione di basiglieri (commercianti di lana grezza). Il primo membro noto, Parisio, è menzionato negli estimi del 1385 come proprietario di una casa nel borgo. Nel tempo, la famiglia si espanse e acquisì prestigio, tanto che nel 1451 i suoi discendenti possedevano tre abitazioni a La Scola. La famiglia Parisi si suddivise in tre rami: Parisi, Pelagalli e Bruni, che insieme mantennero la proprietà dell'intero borgo fino all'Ottocento. I Parisi, in particolare, divennero una delle casate più influenti della valle del Limentra, distinguendosi in vari ambiti professionali come notai, prelati, dottori in legge e capitani, garantendosi una posizione economica e sociale di rilievo nella zona.

Entrando nel borgo 

Il Palazzo Parisi, completato nel 1638, rappresenta l'edificio principale e il nucleo centrale del borgo. Sull'architrave dell'ingresso è incisa la frase latina "Ostium non hostium", che significa "Aperti agli amici, chiusi ai nemici", un gioco di parole basato sui termini latini "Ostium" (porta) e "Hostium" (genitivo di "nemici"). Il palazzo presenta collegamenti aerei verso gli edifici vicini, oltre a feritoie, balestriere, logge architravate, porticati, finestre decorate e fregi dipinti. All'interno, un ampio salone ospita un camino in pietra datato 1575, un grande tavolo seicentesco dalle gambe a forma di stivale di fante su cui i notai Parisi rogavano i loro atti, e un fregio affrescato raffigurante le fatiche d'Ercole. La famiglia Parisi mantenne la sua presenza a La Scola fino alla metà del XX secolo, quando si estinse con Irene Parisi. 

Decorazione in legno sulla facciata di una casa
Oltre al Palazzo Parisi, la famiglia contribuì alla costruzione di edifici religiosi nel borgo, tra cui l'Oratorio di San Pietro, edificato nel 1616, che conserva una pala d'altare raffigurante la Madonna della Cintola, recentemente restaurata. È curioso come proprio in questo piccolo oratorio si trovi un'immagine mariana così strettamente legata alla città di Prato, dove la Madonna della Cintola è al centro della devozione popolare e oggetto di una delle più importanti reliquie conservate nella cattedrale della città. Questo legame iconografico è certamente dovuto alla presenza della famiglia Parisi, che, pur avendo messo radici a La Scola, conservava forti legami con la città d'origine, testimoniati anche da tracce artistiche e culturali come questa. Anche in occasione del restauro, promosso nel 2018, all'inaugurazione del quadro rinnovato vennero da Prato diversi membri della confraternita del Sacro Cingolo.

Oratorio di San Pietro

Passeggiando per le strette vie acciottolate di La Scola, si possono ammirare diversi edifici storici; un'altra peculiarità è rappresentata dai "corridoi pensili", passaggi sopraelevati che collegano tra loro vari edifici, permettendo movimenti sicuri all'interno del borgo in caso di assedio. Grazie all'impegno dell'Associazione Culturale Sculca, fondata nel 1993, il borgo è stato preservato nella sua integrità e valorizzato attraverso eventi culturali e restauri mirati. Questo, apparentemente, ha permesso a La Scola di mantenere intatto il suo fascino antico in un luogo dove storia e natura sembrano fondersi armoniosamente.

Il cipresso secolare

Eppure, ciò che oggi percepiamo come autentico e immutabile è il frutto di un processo selettivo, talvolta inconsapevole, altre volte intenzionale. La memoria dei luoghi, come quella delle tradizioni, è stata tramandata attraverso scelte arbitrarie: ciò che oggi ammiriamo è solo una parte di un passato più vasto, di cui molte tracce sono andate perdute. Gli edifici rimasti, i dettagli architettonici preservati, perfino le storie che ci vengono raccontate, sono frutto di un'eredità che ha subito incessantemente trasformazioni, cancellazioni e riscritture nel corso del tempo. Ogni pietra, ogni struttura, ogni documento è parte di una storia più grande, ma non per questo completa. Il borgo che oggi visitiamo è una finestra su un passato che, per quanto affascinante e suggestivo, è solo un frammento della sua vera essenza.

Entrando dal basso nel nucleo abitato

Pertanto, quando ci immergiamo nella contemplazione di un luogo come questo, dovremmo farlo con la consapevolezza che stiamo osservando non solo ciò che è sopravvissuto, ma anche le ombre di ciò che è scomparso. Ogni spazio racconta storie multiple: quelle che possiamo ancora leggere e quelle ormai silenziate dal tempo. La bellezza di questi luoghi risiede infatti proprio nella loro incompletezza, nel mistero di ciò che è andato perduto, nelle domande che suscitano più che nelle risposte che offrono.

Legnaia e cantine

Viaggiare attraverso questi frammenti di memoria collettiva significa accettare l'imperfezione della nostra comprensione storica e, paradossalmente, arricchirla attraverso questa stessa consapevolezza. Significa rispettare non solo l'autenticità di ciò che vediamo, ma anche l'invisibile autenticità di ciò che non c'è più. In questo modo, il nostro rapporto con il passato diventa un dialogo continuo, un'interpretazione sempre aperta e mai definitiva, un esercizio di immaginazione oltre che di osservazione.

Il borgo dai prati sottostanti

Ed è forse proprio questa tensione tra presenza e assenza, tra conservazione e perdita, a conferire ai luoghi storici il loro fascino più profondo: essi ci invitano a riconoscere che ogni patrimonio è, per sua natura, incompleto e frammentario, e che la vera ricchezza sta nell'accettare questa incompletezza come parte essenziale della nostra eredità culturale.