venerdì 5 dicembre 2025

Valiano, 21 febbraio 1971: una foto, una cascina, una piccola tribù felice

Festa di Carnevale, 21 febbraio 1971

Ci sono immagini che non raccontano solo un istante, ma tutto un mondo. Questa – Carnevale 1971, festa grande nel “salone delle feste” di Valiano – è una di quelle. Mia mamma, le sue amiche, i bambini vestiti da cowboy, e dietro le loro spalle quel patchwork meravigliosamente improvvisato di manifesti pubblicitari: Piaggio, “chi Vespa mangia la mela”, colori pop che stridono contro il vecchio intonaco della cascina. È il contrasto che fa nascere il ricordo: un’Italia che stava diventando moderna, dentro una casa che moderna non era per nulla.

A Valiano mio babbo e un gruppetto di amici, verso la fine degli anni Sessanta del Novecento, decisero di fare una cosa che oggi sembrerebbe quasi un esperimento sociologico: affittare una vecchia casa colonica abbandonata e riportarla in vita. La cascina, costruita nel 1717, si era svuotata quando i contadini erano scesi nella piana per lavorare nell’industria tessile. Al tempo non c’era né luce né acqua. Così gli uomini si misero a tirare tubi, scavare, costruire perfino un acquedotto artigianale con pompe e un serbatoio in eternit nella torretta della casa. Sembrava la frontiera, quella vera, non quella dei nostri costumini da cowboy.

Dentro quelle stanze si tornò a vivere come in una piccola comunità. Gli uomini facevano legna, aggiustavano, giocavano a carte; le donne chiacchieravano, cucinavano, badavano ai figli; e poi c’erano le fatiche comuni – la raccolta delle olive, il vinsanto, l’odore di mosto e di legna umida che impregnava tutto. Ognuno portava un pezzetto di sé; in cambio, riceveva un luogo che diventava casa anche se casa non era.

Il grande lavoro, quello che per tutti segnò una svolta, fu il rinforzo del solaio con due longarine d’acciaio messe di traverso, come due binari. Sopra c’era il vecchio granaio, con le stuoie da vinsanto. Con noi, invece, diventò il “salone delle feste”: un nome un po’ altisonante per una stanza col pavimento imperfetto e le correnti d’aria, ma per noi bambini era il regno del divertimento, spesso teatro di quegli eventi misteriosi che accadevano dopo Carosello, quando noi stavamo già a letto. Ci si festeggiavano Capodanni, compleanni, perfino matrimoni… come quello in cui il fotografo – parente degli sposi – si accorse troppo tardi di aver “scattato senza pellicola”. Gli sposi dovettero rifare le foto la domenica dopo. Da soli. Una cosa che oggi farebbe trending su TikTok in dieci secondi.

E poi - con i proventi di una riffa - arrivò il jukebox “amatoriale”, in un trionfo di 45 giri che sputavano a tutto volume la colonna sonora di un’Italia giovane. Durò poco: una notte sparì, rubato insieme ad altre cose, in uno dei tanti furti che alla fine ci convinsero a lasciare la cascina. Ma per un po’, quel jukebox fu il cuore del salone. Nella foto lo si sente ancora, sotto pelle.

Ecco perché questa immagine colorizzata mi smuove tanto. Non è nostalgia semplice. È vedere le persone della mia infanzia nel pieno della loro energia, della loro bellezza quotidiana, di quell’incoscienza adulta che si ha solo tra i trenta e i quarant’anni. È sentire la voce di mia madre che ride, vedere la mano di mio babbo sporca di terra, avere la sensazione di appartenere a qualcosa di più grande della nostra famiglia: una piccola tribù, un microcosmo dove ognuno di noi aveva un posto.

Guardare questa foto oggi significa rendersi conto di quanto un luogo possa tenere insieme le vite. E che, in fondo, certi posti non si lasciano mai davvero. Rimangono attaccati, come quei manifesti pubblicitari che dovevano durare un carnevale e invece sono sopravvissuti, incollati nella memoria, mezzo secolo dopo.

lunedì 1 dicembre 2025

Il "brand" di San Bernardino

Cristogramma di San Bernardino, Neri di Bicci, San Francesco di Prato, 1424 

Ci sono momenti in cui la storia non fa rumore, e altri in cui arriva qualcuno capace di scuotere una città come una tovaglia piena di briciole. Quando San Bernardino da Siena arrivò a Prato – siamo negli anni Venti del Quattrocento – la città era tutt’altro che un borgo addormentato: lanifici, commerci, botteghe, banchieri improvvisati, qualche furbetto, qualche santo, e una marea di anime in cerca di orientamento. Insomma: la solita Prato, solo con più sai francescani in giro.

Bernardino era già allora un fenomeno nazionale. Non aveva alle spalle alcun “ufficio stampa”, e nemmeno la fortuna di internet, ma riempiva piazze come fosse una rockstar medievale. La sua voce era potente, la sua presenza magnetica, e soprattutto parlava una lingua moderna: niente teologie astratte, niente prediche fumose. Parlava dei problemi veri della gente. Usura, discordie familiari, imbrogli nei commerci, lusso sfrenato, invidie tra famiglie rivali. Le stesse cose che oggi riempiono i talk show, con la differenza che Bernardino non aveva bisogno di urlare per farsi capire.

La chiesa di San Francesco, a Prato, lo accolse per una serie di predicazioni quaresimali. Immaginiamola piena all’inverosimile: lanaioli con le mani ancora impolverate di fibra, donne con lo scialle ben stretto, commercianti in bilico tra devozione e timore di essere messi alla berlina dal frate, confraternite, artigiani, curiosi. Tutti stretti, tutti in ascolto. Una città raccolta in un unico sguardo.

Ma il vero colpo di genio Bernardino lo giocò con un’immagine. Lo chiameremmo “branding”, oggi, e lui fu davvero il primo a capirne il potenziale: il cristogramma IHS, le prime lettere del nome di Gesù in greco, inscritte in un sole dorato dai raggi fitti e luminosi. Lo mostrava alla fine delle prediche come un vessillo di pace, un modo per unire ciò che le fazioni e l’ambizione dividevano. Una specie di logo spirituale: semplice, riconoscibile, immediato. Più efficace di qualunque discorso politico.

E non era un simbolo astratto: Bernardino lo portava con sé, lo mostrava alla folla, lo faceva baciare, lo esponeva sulle porte delle case come antidoto alle tensioni cittadine. A Prato quel pannello c’è ancora, e la tradizione lo attribuisce a Neri di Bicci, il pittore fiorentino che per i Francescani lavorò spesso. Sta oggi vicino all’altare di San Francesco come una reliquia di comunicazione ante litteram, un pezzo di storia vissuta — non tanto perché “antico”, ma perché racconta un momento di partecipazione collettiva quasi dimenticato.

Pensiamoci un attimo: un frate che solleva un simbolo luminoso e lo offre alla folla come rimedio contro odi, corruzione e disordine urbano. È bello ricordare che anche il Medioevo – quello vero, quello senza retorica – sapeva produrre momenti di autentica innovazione sociale. Bernardino non era uno che giudicava dall’alto: era uno che entrava nel vivo della città, che sapeva parlare alla pancia e alla testa. Un “Savonarola ante litteram”? In parte sì, ma con molta più grazia e molta meno propensione a bruciare il mondo intero per farlo “più puro”. Il suo scopo non era la punizione, ma la riforma morale e civile.

E la città, in quelle settimane, cambiò davvero ritmo. Ci sono cronache che ricordano conversioni improvvise, riconciliazioni famigliari, restituzioni di denaro usurato, persino qualche guarigione ritenuta miracolosa. Non importa stabilire se tutti questi racconti siano cronaca o ricamo: ciò che conta è capire quanto forte fosse la percezione che qualcosa stava accadendo nella vita cittadina.

A distanza di sei secoli, il cristogramma pratese non è soltanto un manufatto d’arte sacra. È un documento visivo di quel momento: la prova che un’idea – quando è semplice, luminosa, condivisibile – può davvero modificare il modo in cui una comunità si percepisce. Anche oggi, quando scattiamo una foto a quel pannello, non stiamo solo osservando un oggetto artistico: stiamo guardando un frammento di una città che si è lasciata cambiare da un predicatore venuto da lontano, con il saio consumato e una sola parola d’ordine: unità.

Bernardino comprese che la fede – e forse qualunque idea forte – ha bisogno di simboli. E che un simbolo, se ben usato, sa attraversare i secoli meglio di qualunque discorso. Quel sole dorato che ancora oggi brilla a San Francesco è un ponte sottile tra passato e presente: ci ricorda che la città, nei suoi momenti migliori, sa ancora riconoscersi in qualcosa di più grande di sé stessa.

sabato 29 novembre 2025

Quando il passato riprende colore

 
Il passato è in bianco e nero, il presente è a colori.

E forse è proprio per questo che le vecchie foto “voltate a colori” dall’IA ci mettono così a disagio: tolgono al passato la sua distanza di sicurezza e ce lo riportano sotto al naso, vivo, insistente.

In questa foto del luglio 1952 ci sono mia mamma e suo fratello Fiorenzo, in spiaggia a Viareggio. Lei ha 19 anni, lui qualcuno di più. Nello scatto originale sono due figure di sabbia e argento; appena il computer ci mette mano, però, la scena cambia all’improvviso: la pelle prende calore, il costume diventa nero lucido, il vestitino bianco si accende di piccoli disegni colorati, gli ombrelloni esplodono di righe blu, arancio, verdi. E loro, da “personaggi storici”, tornano di colpo persone vere.

Quello che mi colpisce è lo sguardo. Non guardano indietro, ma avanti. Non sanno niente di ciò che verrà: amori, figli, lavori, fatiche, malattie, dolori e gioie insperate. Hanno solo davanti un futuro che sembra infinito, come il mare dietro di loro. E noi, che questo futuro lo conosciamo già, restiamo a metà tra tenerezza e vertigine: vorremmo quasi avvertirli di qualcosa, ma non si può. Il tempo è testardo.

Settantatré anni dopo, quella giornata di mare è diventata un battito di ciglia. La tecnologia ci permette di colorarla, di avvicinarla, di illuderci per un istante che quella ragazza e quel giovane uomo siano ancora lì, pronti a fare un tuffo. In realtà non stiamo riportando in vita loro: stiamo riportando in vita la parte di noi che ha bisogno di sentirli vicini, di credere che tra la spiaggia del ’52 e noi, oggi, non ci sia in mezzo un abisso, ma solo una lunga onda che continua a tornare a riva.

Forse questo è il vero potere di queste “magie” digitali: non tanto il realismo del colore, quanto la possibilità di rivedere le nostre radici con occhi nuovi. Scoprire che il tempo passa, sì, ma certe presenze continuano a camminare accanto a noi, sorridenti, a piedi nudi sulla sabbia.

mercoledì 26 novembre 2025

Il Miserere di Gregorio Allegri, ovvero il canto delle tenebre

Cliccare per ascoltare il brano


Ci sono musiche che appartengono ai luoghi più di quanto appartengano ai loro compositori. 

Il Miserere di Gregorio Allegri, composto a Roma intorno al 1630, è una di queste: fragile, sospeso, costruito per vivere nell’ombra e per invitare chi lo ascolta a far parte della penombra. Non è una partitura “geniale” nel senso moderno del termine; è un organismo che respira con lo spazio che lo contiene. E lo spazio perfetto era – e resta – la Cappella Sistina durante l’Ufficio delle Tenebre del Mercoledì Santo.

Immaginare quella sera è sempre un piccolo viaggio: quindici candele sul candelabro triangolare, una che si spegne dopo l’altra, il chiaroscuro che avanza, i volti del Papa e dei Cardinali che emergono appena dalla penombra, gli affreschi di Michelangelo che sembrano galleggiare in un crepuscolo che non è naturale ma liturgico. In questo teatro sacro, il Miserere scivolava come un soffio: alternanza di canto piano e polifonia, un richiamo sottile che ancora oggi sembra arrivare da un punto preciso ma inafferrabile della cappella.

C’è un altro aspetto che oggi rischiamo di dimenticare: quanto questa musica dovesse apparire sovrannaturale a chi la ascoltava nel Seicento. Noi abbiamo orecchie allenate alla complessità: viviamo in un mondo in cui la musica è parte del panorama, dove anche le armonie più audaci passano ovunque, dalla radio dell’auto allo streaming del cellulare fino alla diffusione acustica dei centri commerciali. Ma un ascoltatore dell’epoca, seduto sotto gli affreschi della Sistina e immerso nella penombra del rito, percepiva il Miserere in un modo completamente diverso.

Era polifonia pura: voci che si rincorrevano, fioriture leggere come filigrana, linee che si intrecciavano e si separavano come se avessero un’intelligenza propria. E soprattutto, nessuno strumento. Nessun organo, nessuna viola da gamba, nessuna tiorba a fare da sostegno. Solo il fiato umano – addestrato per anni, disciplinato come un corpo unico – che riempiva lo spazio con note perfette, limpide, sospese.

Per molti, doveva sembrare di sentire gli angeli.

Perché non era una musica che “veniva eseguita”, era una musica che accadeva, che nasceva nell’aria, viveva per pochi minuti e poi si dissolveva nel buio come un’apparizione. Una cosa così raffinata, così matematica nel suo contrappunto e allo stesso tempo così emotiva nella resa, era un prodigio acustico: la prova tangibile che l’uomo, almeno per un istante, poteva sfiorare il divino.

E nel silenzio della Cappella Sistina, quando l’ultima cadenza si posava come un respiro trattenuto, la reazione doveva essere sempre la stessa: una frazione di secondo di incredulità, un istante in cui nessuno osava muoversi. Poi soltanto il buio, la candela che si spegneva e quella sensazione vertiginosa di aver ascoltato qualcosa che non apparteneva del tutto alla terra.

Gregorio Allegri 

Nel tardo Seicento, l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo – musicista competente e assai sensibile al prestigio – volle assolutamente il Miserere per la sua cappella imperiale di Vienna. Chiese a papa Innocenzo XI una copia. La ottenne. Tutto sembrava semplice… fino all’esecuzione viennese.

Quello che risuonò nel palazzo imperiale non era un capolavoro mistico: era un corale moscio. Un disastro. Un Miserere che sembrava uscito da una parrocchia annoiata della periferia boema.

Leopoldo, convinto di essere stato ingannato, perse le staffe: accusò il maestro di cappella della Sistina di avergli rifilato un altro Miserere, una specie di tarocco musicale ante litteram. E siccome ai sovrani piacciono i gesti teatrali, fece sapere al Papa di ritenersi truffato. Innocenzo XI, che non capiva molto di musica ma teneva moltissimo alla reputazione della sua cappella, si indignò al punto da cacciare il maestro senza ascoltare spiegazioni.

Il pover’uomo rimase per mesi nell’ombra, provando a dire che no, non aveva mandato alcun falso. A salvarlo fu un cardinale che si prese a cuore la sua causa e spiegò al Papa – con tatto e un pizzico di verità scomoda – che il Miserere non era replicabile fuori dalla Sistina. Non perché fosse “magico”, ma perché i cantori romani avevano una competenza tecnica fuori dal comune e, soprattutto, perché l’intero rito delle Tenebre era costruito per esaltare quel brano specifico. In altre parole: le stesse note, in un altro luogo e con altre voci, risultavano irriconoscibili.

Innocenzo XI, ancora scettico ma un po’ meno furente, si convinse e scrisse una lunga lettera di autodifesa a Leopoldo I, spiegando che non c’era stata alcuna truffa: era la natura stessa del brano a non sopportare il trasferimento.

L’imperatore allora tentò la via più pratica: “Se la partitura non basta, mandatemi almeno qualcuno dei vostri cantori.” Il Papa acconsentì, i musicisti prepararono le valigie… ma nel 1683 la guerra contro i turchi travolse ogni progetto. Leopoldo dovette abbandonare Vienna, e il Miserere restò dove aveva sempre voluto restare.

Un canto che rifiuta di essere posseduto. Un canto nato per le tenebre e custodito dalle tenebre. Forse il frammento più fragile – e più luminoso – di ciò che siamo, capace di emergere solo nel buio della Cappella Sistina, quando le candele si spengono e la musica sembra ricordarci che l’incanto, a volte, dura un soffio soltanto.

martedì 25 novembre 2025

Le geometrie della Badia Fiesolana

Decorazioni geometriche sulla facciata della Badia Fiesolana 

Se vi capita di passare davanti alla facciata della Badia Fiesolana, vale la pena fermarsi un attimo a guardare quelle decorazioni geometriche – cerchi, rosoni, stelle di marmo bianco e serpentino verde – che sembrano solo il vezzo ornamentale di una facciata rimasta incompleta. A prima vista paiono un esercizio di bravura degli scalpellini, e invece dentro quelle forme c’è un mondo intero.

Sono lavori dell’XI-XII secolo, nel pieno della stagione romanica toscana. Un’epoca in cui Firenze e Fiesole si divertivano a creare facciate che erano una specie di codice in pietra: ordine, perfezione, ritmo. Le forme vengono dalla tarda Roma imperiale – quegli intarsi geometrici non sono altro che una rielaborazione medievale delle tecniche dell’opus sectile. E il verde? Quel serpentino scuro delle cave del Monteferrato pratese, che oggi associamo a Firenze, nel mondo romano era materiale di lusso, da palazzi imperiali. Metterlo qui, su una badia, era un modo elegante per dire: “non siamo affatto periferia”.

Rimane impressionante la coerenza: i cerchi come simbolo della perfezione divina, le stelle come luce e creazione, gli intrecci come continuità e ritmo cosmico. E sotto a tutto, quel respiro romano che passa dal marmo antico alla fantasia medievale.

Poi arriva il Rinascimento, che fa il suo solito trucco da prestigiatore: guarda queste geometrie, finge di “tornare all’antico”, e in realtà ricompone tutto secondo una nuova logica di proporzioni e di ordine mentale. Brunelleschi, Alberti, Michelozzo… tutti riprendono i moduli dell’antichità, ma solo per creare qualcosa che gli antichi non avevano mai immaginato. Roma usata come specchio, Firenze come cervello.

E così, davanti alla Badia Fiesolana, ci si rende conto che il dialogo tra Medioevo, Roma imperiale e Rinascimento non è una bella teoria da manuale: è inciso qui, a colpi di scalpello, in un mosaico di pietre che continuano a raccontare la loro storia a chi ha voglia di ascoltarla.

lunedì 24 novembre 2025

Il vero volto di Vibia Sabina

Vibia Sabina 

Oggi nel piccolo museo archeologico che sta accanto al Teatro Romano di Fiesole mi sono ritrovato davanti a un volto che ha attraversato i secoli con una calma un po’ enigmatica: quello di Vibia Sabina, moglie dell’imperatore Adriano per quasi quarant'anni. Una donna elegante, riservata, con un matrimonio non proprio da romanzo rosa (pare che tra lei e Adriano ci fossero più cerimoniali che tenerezze…), ma che nella ritrattistica ufficiale appare sempre impeccabile, serena e perfetta.

Adriano dopo la morte la divinizzò, forse per riconoscenza, forse per decoro imperiale, forse per lavarsi la coscienza dopo una vita di ignoranze e tradimenti coniugali. Guardandola così, scolpita nel marmo bianco, sembra davvero una divinità pagana. In realtà, all’epoca era tutto tranne che bianca.

La statuaria romana – come quella greca – era infatti vivacemente colorata. Non “tinte pastello”, ma colori pieni, dettagliati, studiati per rendere vivi gli occhi, i capelli e perfino le sfumature della pelle. Per decenni abbiamo creduto all’estetica del “bianco puro” solo perché i pigmenti, col tempo, sono spariti. Un gigantesco equivoco culturale, insomma.

Gli studi degli ultimi anni – imaging multispettrale, microscopia, analisi dei residui di pigmento – hanno rivelato come dovevano apparire queste sculture in origine. Nel caso di Sabina, possiamo immaginare qualcosa del genere:

I suoi riccioli – quei volumi quasi architettonici che si arrampicano sulla sommità del capo – erano dipinti, perché le romane non si accontentavano del marmo: volevano i colori. Castani caldi, biondi ramati, persino riflessi dorati per far scintillare la pettinatura alla luce del sole. La sua acconciatura fu imitata dalle dame dell’élite romana, un po’ come quando una first lady lancia una moda senza volerlo… o forse proprio volendolo.

Gli occhi, che oggi ci appaiono vuoti, un tempo erano tutto tranne che inespressivi. Iridi e pupille venivano tracciate con pigmenti scuri, e nelle opere più pregiate si usavano addirittura paste vitree, in modo che lo sguardo avesse una lucentezza quasi inquietante, da persona viva. 

Le labbra erano ravvivate da un rosso pieno, di solito ottenuto col cinabro, niente di eccessivo ma abbastanza da dare al volto un’aria presente, umana. La pelle restava chiara, certo, perché il marmo era già una buona base, ma veniva velata da sfumature rosate sulle guance e intorno agli occhi, come un trucco leggero steso con mano esperta. E poi c’era quella fascia che teneva insieme la massa dei capelli: anche quella era colorata, spesso in tinte decise come il blu, il rosso o perfino l’oro, perché a Roma – soprattutto a corte – la sobrietà non era una virtù poi così gettonata.

L’aspetto complessivo? Molto più realistico e sorprendentemente “vivo”, ben lontano dal marmo pallido che siamo abituati a vedere.

Insomma, la Sabina che vediamo oggi è solo lo scheletro visivo di ciò che era. Quella di allora - a colori - era un personaggio pieno, vivo, costruito per colpire lo sguardo e raccontare un ruolo, un rango, una storia. E guardandola così, sapendo tutto questo, il marmo non sembra più freddo. Sembra solo che il tempo abbia spento le luci, e che finalmente possiamo rivederle accese, almeno nella nostra immaginazione.

sabato 15 novembre 2025

San Sebastiano, Benozzo Gozzoli, e la peste

Affresco Votivo di San Sebastiano, Benozzo Gozzoli

Nella chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano c’è un affresco che porta addosso le ferite – e la speranza – di un anno preciso: il 1464. La peste non era un’ombra astratta, era lì, feroce, e la città cercava protezione ovunque potesse. Proprio in quei mesi Benozzo Gozzoli stava lavorando nel coro della chiesa al grande ciclo con le Storie della vita di sant’Agostino, commissionato dal colto frate agostiniano Domenico Strambi. Ma all’improvvisa nuova esplosione del morbo, nel giugno di quell’anno, gli agostiniani lo fermano: lascia il coro, abbiamo bisogno di un’immagine che ci salvi.

Gozzoli, obbediente e velocissimo, dipinge così il grande San Sebastiano votivo a metà della navata centrale. È completato il 28 luglio 1464. Tempi strettissimi: la città non poteva permettersi esitazioni. Anche il Comune, l’anno prima, aveva deliberato un affresco analogo nella Collegiata: segno che la peste stava colpendo forte almeno dal 1462, e che il santo-protettore era diventato un’ossessione collettiva.

Il San Sebastiano di Benozzo non è quello tradizionale, nudo e trafitto: qui è vestito, solido, quasi un principe. Con il suo grande mantello ripara il popolo dalle frecce dell’ira divina, un motivo antico della tradizione umbra che il pittore trasforma in una scena di tenerezza e potenza insieme. Gozzoli immagina il santo come uno scudo umano, calato in mezzo alla gente di San Gimignano, che agli inizi degli anni Sessanta del Quattrocento aveva già visto morire amici e parenti.

Sopra, il cielo si apre in un turbine di angeli. Cristo mostra le piaghe, la Madonna scopre il seno: è la doppia intercessione tipica della tradizione toscana, un gesto semplice e struggente, quasi familiare, per ricordare che la misericordia passa anche attraverso simboli corporei e quotidiani. A sorreggere l’intera scena c’è il colore: quei blu e quei rossi che solo Gozzoli sapeva far brillare così, come se l’affresco fosse illuminato da dentro.

Sotto, nella predella, appare Cristo crocifisso tra san Nicola da Tolentino, la Vergine, Giovanni Evangelista e sant’Agostino. In ginocchio, discretissimo, c’è proprio lui: Fra Domenico Strambi, il committente, che affida alla pittura la speranza della città. Nei tondi laterali compaiono santi a raffica: Giuliano, Antonio Abate, Giovanni Battista, Domenico, Giusto, Agata. Una piccola corte celeste chiamata in rinforzo, non si sa mai. E poi la folla vera: uomini, donne, bambini, volti seri, teste chine. È San Gimignano stessa, quella reale, che guarda il santo sperando di scamparla.

Entrare oggi a Sant’Agostino e trovarsi davanti questo affresco è un’esperienza strana: senti ancora l’urgenza con cui è stato dipinto, la paura che ne ha guidato la mano, ma anche la fiducia testarda di una comunità che non voleva arrendersi. In mezzo a tutto quel terrore, Benozzo trova il modo di creare un’immagine che consola: un santo che non soffre, ma protegge. Un uomo che si mette tra te e la tempesta.

E San Gimignano, con le sue torri vigilanti, continua a custodire quella scena come un promemoria di quanto fragile – e straordinaria – sia sempre stata la vita umana.

giovedì 13 novembre 2025

"Guardati": Giuseppe Giusti e l'arte di diffidare













  

Ci sono testi che sembrano usciti dalla Toscana granducale come da un cassetto dimenticato. È il caso dei Proverbi Toscani che Giuseppe Giusti cominciò a raccogliere ben prima del 1853, quando ancora Canapone regnava e l’Italia unita era un’idea che fumava solo nelle teste più ardite. Giusti, satirico fino al midollo ma anche osservatore lucidissimo del suo popolo, aveva messo insieme negli anni una straordinaria raccolta di proverbi, modi di dire, sentenze che circolavano tra campagne, osterie, mercati, controlli di gabella e strade di terra tutte sconquassate.

La maggior parte di questi proverbi sono brevi come stilettate: un verso, un lampo, una punzecchiatura. A volte comici, a volte spietati, sempre tagliati con quella lama sottile che è la lingua toscana quando non ha voglia di far complimenti. Giusti li raccolse, li sistemò, li commentò qua e là e restituì una fotografia antropologica del popolo prima che la parola “antropologia” entrasse nei libri.

In mezzo a questa miniera di frasi asciutte e folgoranti, però, c’è un pezzo che non assomiglia a nessun altro. È una specie di decalogo… a 24 comandamenti: una lista serrata di ammonizioni, una cascata di “guardati da…” che procede come una cantilena e insieme come un manuale di autodifesa popolare.

È talmente assertivo da sembrare il prontuario ufficiale del buon senso granducale: non un proverbio, ma un inventario di pericoli umani, animali, sociali, morali e professionali.

E dentro ci trovi tutto:
  • il medico ammalato, che è già un paradosso vivente;
  • il matto attizzato, forza incontrollabile;
  • la femmina disperata, che rompe gli argini di ogni convenzione;
  • il cane che non abbaia, che non avvisa;
  • i giudici dall’opinione ballerina;
  • gli speziali con ricette dubbie;
  • i notai con il loro micidiale “eccetere”;
  • il fatale “far quistione di notte”, precetto che oggi dovrebbe essere appeso sopra ogni chat di gruppo e ogni post di social media.

E tra gli altri c’è lei, la puttana vecchia, avvertimento fulminante. Non moralismo, ma lucidità: la professionista navigata, che non si illude più, non sbaglia più, conosce le debolezze altrui come un contabile conosce i numeri. È Machiavelli in sottoveste, ed è proprio per questo che il proverbio ti dice di starne lontano.

Questo “decalogo” è un unicum nella raccolta: lungo, ritmato, implacabile, quasi una litania laica recitata per non farsi beccare impreparati dal mondo. E più lo guardi, più capisci che non c’è psicologia, non c’è sociologia, non c’è teoria. C’è solo la realtà, nuda e toscana, che sa riconoscere i caratteri pericolosi a cento metri di distanza.

Il Granducato non c’è più, Giusti ormai è solo polvere e inchiostro, le osterie nuove si chiamano “bistrot” e gli speziali hanno la faccia dei farmacisti da banco. Eppure questo elenco di ventiquattro avvertimenti continua a guardarti come uno che ne ha viste tante e non si fa fregare da un sorriso.

Forse è questo il punto: siamo moderni solo finché non ci troviamo davanti un medico malato, un notaio con l’eccetera, o una puttana vecchia che ci squadra da capo a piedi. A quel punto la modernità svanisce, e restiamo identici ai toscani del 1853: diffidenti, un po’ furbi, un po’ ingenui… e eternamente vulnerabili alle stesse vecchie trappole.

Il mondo cambia, sì.
Le persone molto meno.
E Giusti se la ride, da qualche parte.

mercoledì 12 novembre 2025

Il silenzio di Camaldoli

Le casette dei monaci 

Oggi sono stato all’Eremo di Camaldoli.

È un luogo che non sembra stare nel tempo in cui viviamo. Ci arrivi attraversando la foresta del Casentino, un bosco che non fa da sfondo: ti assorbe. L’aria è più scura, più silenziosa, come se si camminasse dentro un pensiero antico.

L'ingresso dell'Eremo 

L’Eremo nacque attorno all’anno Mille per volontà di san Romualdo, che sosteneva una cosa semplice e radicale: per incontrare Dio bisogna prima imparare a stare soli con se stessi. Non una solitudine triste, ma una solitudine piena, attenta, scavata.

Qui le “celle” non sono stanzette.

L'altare di San Romualdo, nella cella

Sono piccole case in pietra, ognuna con un minuscolo orto davanti. Ce ne sono venti, ma quasi mai nella storia sono state tutte occupate. Oggi i monaci sono pochi, circa nove, dai 35 ai 70 anni più o meno. Vivono ciascuno nella propria casetta, con lo stretto necessario: uno scaldabagno, una stufa a legna come nei secoli passati (e qui gli inverni non sono uno scherzo), una scrivania, un letto, la cappellina privata.

L'ingresso della cella di San Romualdo  

La vita è solitaria: si chiama eremitaggio, ed è diverso dalla clausura. La clausura è una comunità chiusa al mondo esterno, ma comunque comunità, cioè convivenza. L’eremitaggio, invece, è essere separati anche tra loro. Ci si incontra per la preghiera e per pochi momenti comuni, ma la porta della propria cella resta chiusa. Il silenzio non è un accessorio: è lo strumento.

Il letto di San Romualdo  

Le concessioni alla modernità sono minime, essenziali, mai invadenti: una piccola lavanderia con la lavatrice che usano a turno, un refettorio comune dove da qualche anno pranzano e cenano insieme, e una governante, che vive nella foresteria fuori dal recinto dell’Eremo. Non entra: passa il cibo, nient’altro. Per il resto, niente televisione, niente internet. Zero rumore. Zero distrazioni.

Badessa, la gatta dei monaci 

A mantenere il controllo dell’ordine e della misura c’è un Priore dalla disciplina ferma ma non ottusa. E a vigilare su tutto il complesso, un personaggio importante: Badessa, la gatta. Lei non fa voto di silenzio, ma di solito parla poco lo stesso. È la vera autorità morale, inutile negarlo.

La facciata della chiesa 

La chiesa dell’Eremo non è più quella originaria voluta da san Romualdo: andò distrutta in un incendio nel 1698. Quella attuale è una chiesa barocca, piena di stucchi, cornici, dorature — un contrasto quasi sorprendente rispetto all’essenzialità delle celle: come se il cuore fosse austero e la voce splendesse.

L’Eremo è in parte visitabile: una breve visita guidata di circa mezz’ora racconta ciò che questo luogo è oggi. Nel nostro caso, a condurla è stata una signora bravissima, capace di spiegare con semplicità perché una vita come questa, che a molti pare impossibile, per loro invece è ancora piena, viva, pensata.

L'interno barocco della chiesa 

Visitare l’Eremo significa sbattere contro una domanda che non sempre abbiamo voglia di farci: che cosa resta quando togli tutto? Quando non ci sono rumori, distrazioni, notifiche, discorsi, richieste?

E capisci che non si tratta di “fuga dal mondo”. È piuttosto il tentativo di sentirne finalmente il fondamento. E il silenzio, quassù, non è vuoto. È pieno fino all’orlo.

I boschi autunnali intorno all'Eremo


martedì 4 novembre 2025

Il pulpito nascosto


A prima vista, la chiesa di Sant’Andrea a Pistoia può sembrare una di quelle piccole chiese un po' anonime che si incontrano girando per le strade del centro storico. Ma dentro custodisce un capolavoro assoluto della scultura gotica italiana: il pulpito di Giovanni Pisano, terminato verso il 1301.

Giovanni era figlio di Nicola Pisano, autore del celebre pulpito del Duomo di Pisa. Ma non volle restare nell’ombra paterna: intraprese un percorso autonomo, lasciandosi alle spalle l’equilibrio classico di Nicola per abbracciare una nuova sensibilità. La scultura gotica, di cui Giovanni è il massimo interprete in Italia, nasce proprio da questa tensione: non più figure rigide e simboliche, ma corpi vivi, che si muovono, si sfiorano, esprimono emozioni e dolore.

Crocifissione 

Snellì l’architettura, rese più acuti gli archi, fece emergere le figure dalla pietra, accentuò i moti e le tensioni. Questa vocazione gotica trova respiro nelle cinque lastre scolpite del pergamo: la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Strage degli Innocenti, la Crocifissione e il Giudizio Universale. Le scene, separate da grandi figure angolari scolpite a tutto tondo, sembrano animate da una vita propria. I corpi si agitano, i volti si contraggono, le pieghe delle vesti vibrano di pathos e di grazia.

Strage degli Innocenti 

Ma queste immagini non erano soltanto meraviglia estetica: avevano una funzione didattica precisa. In un’epoca in cui la maggior parte della popolazione era analfabeta, il pulpito diventava un libro di pietra. Ogni rilievo raccontava un episodio del Vangelo, traducendo in gesti e volti ciò che le parole della Scrittura annunciavano dall’altare. Il fedele, guardando quelle scene scolpite con forza teatrale, imparava a riconoscere il dolore della Passione, la tenerezza della Natività, la speranza della Redenzione. La scultura diventava così una forma di catechesi visiva, un ponte fra la parola e lo sguardo.

Giudizio Universale 

Il pulpito fu voluto dal plebano Arnoldo, che grazie ai finanziamenti di Andrea Vitelli e Tino Vitale poté affidare l’opera a uno dei più prestigiosi scultori del suo tempo. Non lo sappiamo da documenti, ma da un’iscrizione in versi latini che corre alla base dell’opera, come un’antica firma che racconta una storia di fede e d’arte.

All’epoca Sant’Andrea non era una chiesa qualsiasi: era la pieve cittadina, dotata del diritto di battezzare, e il suo parroco era la seconda figura più importante dopo il vescovo. Un luogo sacro e civico insieme, dove Pistoia scelse di lasciare un segno della propria grandezza.

Annunciazione e Natività 

Oggi, nella penombra di quella che appare una chiesa minore, il pulpito di Giovanni Pisano risplende come un miracolo di pietra. I suoi leoni sembrano ancora vegliare, e l’aquila in cima — simbolo dell’evangelista Giovanni — osserva dall’alto, ricordando che anche il marmo, nelle mani di un grande artista, può respirare.

giovedì 23 ottobre 2025

Il filo del cielo: dalla cintura di Afrodite alla Cintola della Vergine di Prato

La Madonna dona la sua cintura all'Apostolo Tommaso
Santa Fiora, Pieve di Flora e Lucilla, Andrea della Robbia, circa 1470
Molto prima che la Madonna consegnasse la sua Cintola all’apostolo Tommaso, l’umanità aveva già immaginato oggetti simili — segni lasciati dal divino come pegni di presenza. Il mito della cintura sacra attraversa i millenni, cambiando solo linguaggio: da strumento di potere o desiderio nelle religioni antiche, a simbolo di fede e grazia nel cristianesimo.


Nell’Iliade (XIV, 214–221), Afrodite scioglie dal petto la sua
kestos himas, la cintura incantata, e la porge a Era, che la userà per sedurre Zeus e distoglierlo dalla guerra di Troia. Il passo recita:
“E la dea sciolse da sotto il petto
la cintura ricamata, variegata, in cui si trovano
tutte le seduzioni: amore, desiderio, dolcezza di parole,
e l’incanto che ammorbidisce i cuori, dono di Afrodite.”

In quella cintura — “in cui tutto è racchiuso”, parafrasando il testo — risiede l’essenza stessa del potere divino: l’unione tra corpo e spirito, eros e armonia cosmica. È un oggetto femminile che fa da tramite fra la sfera celeste e quella terrena, capace di trasmettere forza vitale. Non a caso, molti studiosi (da Mircea Eliade a Károly Kerényi) hanno visto nella kestos himas un archetipo remoto di quella cintura mariana che, più di un millennio dopo, avrebbe unito cielo e terra in chiave cristiana.

Nel mondo antico il tema ritorna in mille varianti: la cintura di Ippolita, conquistata da Eracle come segno di dominio e iniziazione; il velo di Ino-Leucotea, donato a Ulisse come protezione divina; la fascia di Ishtar, simbolo del potere riproduttivo e cosmico della dea babilonese; e persino gli exuviae eroici, le armi o le ossa degli eroi che le città greche veneravano come contenitori della loro dynamis, la forza divina. In tutte queste storie, la logica è la stessa: un frammento materiale che custodisce la presenza del sacro, una pars pro toto del divino. La cintura, il velo o la reliquia diventano il tramite fisico di un legame che unisce gli dèi agli uomini.

Quando il cristianesimo si diffonde nel Mediterraneo, non cancella questa sensibilità: la sublima. La cintura di Maria è la risposta spirituale alla cintura di Afrodite. Dove la dea dell’amore offre un pegno di desiderio, la Vergine offre un pegno di fede. Dove l’una spegne la guerra con l’eros, l’altra placa il dubbio con la grazia. Il gesto è identico: un essere divino che, nell’atto di elevarsi o di agire sul mondo, lascia un segno del proprio corpo come promessa di unione. Il simbolo si trasforma, ma la struttura mitica resta intatta. In entrambi i casi, è la cintura come archetipo del contatto con il divino: ciò che lega, ciò che unisce, ciò che fa dell’invisibile qualcosa di percepibile.

Nella Pieve delle Sante Flora e Lucilla, a Santa Fiora, si trova una delle opere più sorprendenti dell’arte robbiana: una grande terracotta invetriata che raffigura la Madonna nell’atto di donare la propria cintura all’apostolo Tommaso. È un’immagine che, a prima vista, sembra appartenere alla devozione fiorentina o pratese del Quattrocento. Eppure si trova qui, sull’Amiata, ben lontano dalle grandi città. Una presenza tanto insolita quanto eloquente. 

L’iconografia della Madonna della Cintola nasce da una leggenda apocrifa antichissima, la cui stesura più antica sembra essere una versione in siriaco del Transitus Mariae, risalente al IV secolo, probabilmente di ambiente giudeo-cristiano palestinese. Questo testo racconta che al momento della sua assunzione al cielo, Maria apparve all’apostolo Tommaso — l’unico assente al momento della sua morte — e, per rassicurarlo, lasciò cadere verso di lui la propria cintura come segno tangibile della sua glorificazione. Quel gesto, di intensa umanità, divenne presto un simbolo potentissimo: la prova concreta del passaggio della Vergine dal mondo terreno a quello celeste. Un filo di stoffa che univa il visibile all’invisibile, un gesto di misericordia e di prova, ma anche di relazione. Un filo che legando Maria a Tommaso legava anche il cielo alla terra.

Proprio da questa leggenda nacque uno dei culti più radicati della Toscana: quello della Sacra Cintola di Prato. Secondo la tradizione, un mercante pratese, Michele Dagomari, la portò in patria nel XII secolo dopo un pellegrinaggio in Terra Santa. Alla sua morte, la reliquia fu affidata alla Pieve di Santo Stefano e divenne presto il cuore spirituale e identitario della città. Le ostensioni pubbliche della Cintola — ancora oggi celebrate — scandirono i momenti solenni della vita civica. Non era solo un oggetto di fede: era la bandiera sacra di un’intera comunità, una sorta di “sigillo divino” della città sul suo stesso destino.

Il prestigio di Prato crebbe a dismisura. La Cintola attirava pellegrini, mercanti, artisti e donazioni, trasformando la città in una piccola capitale della devozione mariana. Quando Donatello e Michelozzo scolpirono il celebre pulpito esterno del Duomo, da cui la reliquia veniva mostrata al popolo, resero visibile la funzione civile e politica di quel culto: l’arte come strumento di mediazione fra cielo e terra, ma anche fra fede e potere.

Peraltro la Cintola non era solo pratese. Esistevano ed esistono altre reliquie simili sparse nel mondo cristiano: al Monastero di Vatopedi sul Monte Athos, dove una cintura di lana di cammello è venerata come “Santa Zoni”; nella Chiesa di Santa Maria in Soonoro, a Homs, in Siria, centro della tradizione siriaco-ortodossa; nel Monastero di Trooditissa, a Cipro, dove la cintura è invocata come aiuto per la fertilità; nelle collegiate francesi di Le Puy-Notre-Dame e Quintin, legate ai ritorni crociati; nella Cattedrale di Tortosa, in Catalogna, dove la “Santa Cinta” è simbolo cittadino; e perfino, in epoca medievale, in Inghilterra, nelle abbazie di Somerset, prima che la Riforma cancellasse il culto. Sono tutte varianti dello stesso mito: la Vergine che lascia un segno tangibile della propria presenza nel mondo. Ogni luogo ne fece un simbolo di protezione e di identità. Ma il filo originario, almeno in ambito occidentale — tanto per restare nella metafora — parte proprio dalla Toscana e da Prato.

Ecco allora che la terracotta invetriata di Andrea della Robbia nella pieve di Santa Flora e Lucilla acquista un significato che va ben oltre la devozione locale. La famiglia Sforza-Conti di Santa Fiora, signori del borgo, aveva stretti legami con Firenze e ne condivideva i modelli artistici e religiosi. Commissionare un rilievo robbiano con la Madonna della Cintola significava aderire a un linguaggio figurativo fiorentino-pratese, a quella raffinata religiosità visiva che univa bellezza, fede e identità politica. In un certo senso, la Pieve delle Sante Flora e Lucilla si inseriva così nella stessa rete simbolica che da Prato e Firenze irradiava tutta la Toscana centrale.

Nel Medioevo, possedere una reliquia importante significava porsi al centro del mondo. Le reliquie generavano pellegrinaggi, i pellegrinaggi generavano economie, e le economie consolidavano poteri. La reliquia era insieme motore economico, garanzia teologica e segno civico. Prato, Siena, Pisa, Bari — tutte costruirono la propria identità sulla presenza di un corpo santo o di un oggetto miracoloso.

Il culto delle reliquie non nasce con il cristianesimo, ma rappresenta in esso una straordinaria trasformazione culturale di un impulso molto più antico: quello di dare corpo al sacro, di renderlo tangibile. Nel mondo pagano esistevano già oggetti di contatto con il divino, "reliquie" in senso lato. Ad esempio nel Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina il contatto col divino passava attraverso oggetti oracolari, offerte, sortes estratte a caso in una sorta di proto-lotteria sacra e pietre considerate “abitate” dalla divinità. Erano reperti di potenza, non tanto simboli quanto presenze fisiche del dio nel mondo. Analogamente, nei templi greci si veneravano resti eroici — ossa di eroi, armi, perfino pietre cadute dal cielo — e si riteneva che custodissero la dynamis, la forza divina. Quando gli Spartani o gli Ateniesi traslavano le ossa di un eroe nel proprio territorio, non era solo un gesto religioso, ma un atto politico: portavano dentro le mura il favore divino, esattamente come le città medievali facevano con le reliquie dei santi.

Il cristianesimo, arrivando in questo mondo saturo di simboli materiali, non eliminò quella sensibilità, la sublimò. Il corpo del martire, la veste della Vergine, la cintura di Maria — tutto diventava mediazione concreta del trascendente. Le reliquie erano il modo per dire: “Dio è davvero stato qui, in carne e ossa.” Questo filo di continuità spiega perché i santuari medievali funzionassero, in fondo, come i templi pagani: luoghi dove il fedele poteva “incontrare” la divinità nel mondo sensibile. L’esperienza diretta del sacro era ciò che contava: non il dogma, ma la presenza. Nel Rinascimento, quella stessa logica si tradusse nel linguaggio delle immagini. Le opere dei Della Robbia, con la loro materia lucente e pura, non erano solo decorazioni ma veri strumenti di devozione: la terracotta invetriata come reliquia visiva, destinata a perpetuare la memoria del miracolo.

La terracotta di Santa Fiora, dunque, non è soltanto una bella opera rinascimentale: è una finestra aperta sul cuore di una civiltà. Racconta come un borgo montano cercò di collegarsi, attraverso l’arte, a quella grande rete culturale che da Prato e Firenze irradiava simboli e modelli. Ma racconta anche qualcosa di più universale: il bisogno costante dell’uomo di trattenere il sacro nel mondo sensibile, di toccarlo, di farne esperienza.

Così la Madonna della Cintola, che porge la sua fascia a Tommaso, è l’immagine perfetta di questa tensione. Un gesto di misericordia e di prova, ma anche di relazione. Un filo che lega Maria a Tommaso, il cielo alla terra, e — nel suo piccolo — Prato a Santa Fiora, e Santa Fiora al resto del mondo.

martedì 7 ottobre 2025

Paesaggi di parole

Isola di Hvar
Le parole non vivono solo nei libri o sui nostri schermi: abitano lo spazio, si fanno pietra, metallo, pigmento. Da secoli ci osservano dai muri delle città, dalle lapidi, dalle pale d’altare, dalle cornici di un affresco. Sono tracce lasciate perché non fossero dimenticate, ma sono anche architetture visive, forme che scolpiscono l’aria tanto quanto il significato che veicolano.
Pala Strozzi, 1432-34
Quando ci fermiamo davanti a un’iscrizione, non leggiamo soltanto: camminiamo in un paesaggio. Le lettere sono colline e solchi, curve e orizzonti. La geometria di un carattere romano inciso nel marmo ha la stessa forza di una catena montuosa: linee che si stagliano contro il tempo. Le dorature delle lettere gotiche vibrano come acque al tramonto. Ogni parola incisa è un rilievo da esplorare.

Celerina, Engadina  

Questi “paesaggi di parole” ci dicono che il linguaggio non è mai astratto: ha corpo, peso, materia. È una geografia che si dispiega davanti a noi, invitandoci a entrare. Le iscrizioni ci mostrano la potenza originaria della scrittura: fissare, imprimere, rendere eterno ciò che rischia di svanire.

Cimitero di Monsummano Alto  

Eppure, accanto alla loro funzione di memoria, resta l’incanto estetico: il piacere puro delle forme, il ritmo delle lettere, il dialogo fra testo e supporto. Ogni iscrizione è un microcosmo in cui la parola non è soltanto da decifrare, ma da contemplare.

Montecassino  

Osservare questi paesaggi significa accettare di lasciarsi attraversare da voci lontane. Non sempre ne comprendiamo tutto il messaggio, ma intuiamo l’eco. Sono le tracce di chi ha voluto dire: “Io sono stato qui. Questo conta. Questo deve restare”.

Cattedrale di Pisa  

In un mondo dove la parola corre veloce e si dissolve nello spazio digitale, fermarsi davanti a una parola incisa è come respirare profondamente: ci ricorda che il linguaggio non è solo suono o informazione, ma anche forma, bellezza, materia. Un paesaggio da abitare.

Moustiers Sainte Marie, Provenza