giovedì 23 ottobre 2025

Il filo del cielo: dalla cintura di Afrodite alla Cintola della Vergine di Prato

La Madonna dona la sua cintura all'Apostolo Tommaso
Santa Fiora, Pieve di Flora e Lucilla, Andrea della Robbia, circa 1470
Molto prima che la Madonna consegnasse la sua Cintola all’apostolo Tommaso, l’umanità aveva già immaginato oggetti simili — segni lasciati dal divino come pegni di presenza. Il mito della cintura sacra attraversa i millenni, cambiando solo linguaggio: da strumento di potere o desiderio nelle religioni antiche, a simbolo di fede e grazia nel cristianesimo.


Nell’Iliade (XIV, 214–221), Afrodite scioglie dal petto la sua
kestos himas, la cintura incantata, e la porge a Era, che la userà per sedurre Zeus e distoglierlo dalla guerra di Troia. Il passo recita:
“E la dea sciolse da sotto il petto
la cintura ricamata, variegata, in cui si trovano
tutte le seduzioni: amore, desiderio, dolcezza di parole,
e l’incanto che ammorbidisce i cuori, dono di Afrodite.”

In quella cintura — “in cui tutto è racchiuso”, parafrasando il testo — risiede l’essenza stessa del potere divino: l’unione tra corpo e spirito, eros e armonia cosmica. È un oggetto femminile che fa da tramite fra la sfera celeste e quella terrena, capace di trasmettere forza vitale. Non a caso, molti studiosi (da Mircea Eliade a Károly Kerényi) hanno visto nella kestos himas un archetipo remoto di quella cintura mariana che, più di un millennio dopo, avrebbe unito cielo e terra in chiave cristiana.

Nel mondo antico il tema ritorna in mille varianti: la cintura di Ippolita, conquistata da Eracle come segno di dominio e iniziazione; il velo di Ino-Leucotea, donato a Ulisse come protezione divina; la fascia di Ishtar, simbolo del potere riproduttivo e cosmico della dea babilonese; e persino gli exuviae eroici, le armi o le ossa degli eroi che le città greche veneravano come contenitori della loro dynamis, la forza divina. In tutte queste storie, la logica è la stessa: un frammento materiale che custodisce la presenza del sacro, una pars pro toto del divino. La cintura, il velo o la reliquia diventano il tramite fisico di un legame che unisce gli dèi agli uomini.

Quando il cristianesimo si diffonde nel Mediterraneo, non cancella questa sensibilità: la sublima. La cintura di Maria è la risposta spirituale alla cintura di Afrodite. Dove la dea dell’amore offre un pegno di desiderio, la Vergine offre un pegno di fede. Dove l’una spegne la guerra con l’eros, l’altra placa il dubbio con la grazia. Il gesto è identico: un essere divino che, nell’atto di elevarsi o di agire sul mondo, lascia un segno del proprio corpo come promessa di unione. Il simbolo si trasforma, ma la struttura mitica resta intatta. In entrambi i casi, è la cintura come archetipo del contatto con il divino: ciò che lega, ciò che unisce, ciò che fa dell’invisibile qualcosa di percepibile.

Nella Pieve delle Sante Flora e Lucilla, a Santa Fiora, si trova una delle opere più sorprendenti dell’arte robbiana: una grande terracotta invetriata che raffigura la Madonna nell’atto di donare la propria cintura all’apostolo Tommaso. È un’immagine che, a prima vista, sembra appartenere alla devozione fiorentina o pratese del Quattrocento. Eppure si trova qui, sull’Amiata, ben lontano dalle grandi città. Una presenza tanto insolita quanto eloquente. 

L’iconografia della Madonna della Cintola nasce da una leggenda apocrifa antichissima, la cui stesura più antica sembra essere una versione in siriaco del Transitus Mariae, risalente al IV secolo, probabilmente di ambiente giudeo-cristiano palestinese. Questo testo racconta che al momento della sua assunzione al cielo, Maria apparve all’apostolo Tommaso — l’unico assente al momento della sua morte — e, per rassicurarlo, lasciò cadere verso di lui la propria cintura come segno tangibile della sua glorificazione. Quel gesto, di intensa umanità, divenne presto un simbolo potentissimo: la prova concreta del passaggio della Vergine dal mondo terreno a quello celeste. Un filo di stoffa che univa il visibile all’invisibile, un gesto di misericordia e di prova, ma anche di relazione. Un filo che legando Maria a Tommaso legava anche il cielo alla terra.

Proprio da questa leggenda nacque uno dei culti più radicati della Toscana: quello della Sacra Cintola di Prato. Secondo la tradizione, un mercante pratese, Michele Dagomari, la portò in patria nel XII secolo dopo un pellegrinaggio in Terra Santa. Alla sua morte, la reliquia fu affidata alla Pieve di Santo Stefano e divenne presto il cuore spirituale e identitario della città. Le ostensioni pubbliche della Cintola — ancora oggi celebrate — scandirono i momenti solenni della vita civica. Non era solo un oggetto di fede: era la bandiera sacra di un’intera comunità, una sorta di “sigillo divino” della città sul suo stesso destino.

Il prestigio di Prato crebbe a dismisura. La Cintola attirava pellegrini, mercanti, artisti e donazioni, trasformando la città in una piccola capitale della devozione mariana. Quando Donatello e Michelozzo scolpirono il celebre pulpito esterno del Duomo, da cui la reliquia veniva mostrata al popolo, resero visibile la funzione civile e politica di quel culto: l’arte come strumento di mediazione fra cielo e terra, ma anche fra fede e potere.

Peraltro la Cintola non era solo pratese. Esistevano ed esistono altre reliquie simili sparse nel mondo cristiano: al Monastero di Vatopedi sul Monte Athos, dove una cintura di lana di cammello è venerata come “Santa Zoni”; nella Chiesa di Santa Maria in Soonoro, a Homs, in Siria, centro della tradizione siriaco-ortodossa; nel Monastero di Trooditissa, a Cipro, dove la cintura è invocata come aiuto per la fertilità; nelle collegiate francesi di Le Puy-Notre-Dame e Quintin, legate ai ritorni crociati; nella Cattedrale di Tortosa, in Catalogna, dove la “Santa Cinta” è simbolo cittadino; e perfino, in epoca medievale, in Inghilterra, nelle abbazie di Somerset, prima che la Riforma cancellasse il culto. Sono tutte varianti dello stesso mito: la Vergine che lascia un segno tangibile della propria presenza nel mondo. Ogni luogo ne fece un simbolo di protezione e di identità. Ma il filo originario, almeno in ambito occidentale — tanto per restare nella metafora — parte proprio dalla Toscana e da Prato.

Ecco allora che la terracotta invetriata di Andrea della Robbia nella pieve di Santa Flora e Lucilla acquista un significato che va ben oltre la devozione locale. La famiglia Sforza-Conti di Santa Fiora, signori del borgo, aveva stretti legami con Firenze e ne condivideva i modelli artistici e religiosi. Commissionare un rilievo robbiano con la Madonna della Cintola significava aderire a un linguaggio figurativo fiorentino-pratese, a quella raffinata religiosità visiva che univa bellezza, fede e identità politica. In un certo senso, la Pieve delle Sante Flora e Lucilla si inseriva così nella stessa rete simbolica che da Prato e Firenze irradiava tutta la Toscana centrale.

Nel Medioevo, possedere una reliquia importante significava porsi al centro del mondo. Le reliquie generavano pellegrinaggi, i pellegrinaggi generavano economie, e le economie consolidavano poteri. La reliquia era insieme motore economico, garanzia teologica e segno civico. Prato, Siena, Pisa, Bari — tutte costruirono la propria identità sulla presenza di un corpo santo o di un oggetto miracoloso.

Il culto delle reliquie non nasce con il cristianesimo, ma rappresenta in esso una straordinaria trasformazione culturale di un impulso molto più antico: quello di dare corpo al sacro, di renderlo tangibile. Nel mondo pagano esistevano già oggetti di contatto con il divino, "reliquie" in senso lato. Ad esempio nel Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina il contatto col divino passava attraverso oggetti oracolari, offerte, sortes estratte a caso in una sorta di proto-lotteria sacra e pietre considerate “abitate” dalla divinità. Erano reperti di potenza, non tanto simboli quanto presenze fisiche del dio nel mondo. Analogamente, nei templi greci si veneravano resti eroici — ossa di eroi, armi, perfino pietre cadute dal cielo — e si riteneva che custodissero la dynamis, la forza divina. Quando gli Spartani o gli Ateniesi traslavano le ossa di un eroe nel proprio territorio, non era solo un gesto religioso, ma un atto politico: portavano dentro le mura il favore divino, esattamente come le città medievali facevano con le reliquie dei santi.

Il cristianesimo, arrivando in questo mondo saturo di simboli materiali, non eliminò quella sensibilità, la sublimò. Il corpo del martire, la veste della Vergine, la cintura di Maria — tutto diventava mediazione concreta del trascendente. Le reliquie erano il modo per dire: “Dio è davvero stato qui, in carne e ossa.” Questo filo di continuità spiega perché i santuari medievali funzionassero, in fondo, come i templi pagani: luoghi dove il fedele poteva “incontrare” la divinità nel mondo sensibile. L’esperienza diretta del sacro era ciò che contava: non il dogma, ma la presenza. Nel Rinascimento, quella stessa logica si tradusse nel linguaggio delle immagini. Le opere dei Della Robbia, con la loro materia lucente e pura, non erano solo decorazioni ma veri strumenti di devozione: la terracotta invetriata come reliquia visiva, destinata a perpetuare la memoria del miracolo.

La terracotta di Santa Fiora, dunque, non è soltanto una bella opera rinascimentale: è una finestra aperta sul cuore di una civiltà. Racconta come un borgo montano cercò di collegarsi, attraverso l’arte, a quella grande rete culturale che da Prato e Firenze irradiava simboli e modelli. Ma racconta anche qualcosa di più universale: il bisogno costante dell’uomo di trattenere il sacro nel mondo sensibile, di toccarlo, di farne esperienza.

Così la Madonna della Cintola, che porge la sua fascia a Tommaso, è l’immagine perfetta di questa tensione. Un gesto di misericordia e di prova, ma anche di relazione. Un filo che lega Maria a Tommaso, il cielo alla terra, e — nel suo piccolo — Prato a Santa Fiora, e Santa Fiora al resto del mondo.

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