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| Festa di Carnevale, 21 febbraio 1971 |
Ci sono immagini che non raccontano solo un istante, ma tutto un mondo. Questa – Carnevale 1971, festa grande nel “salone delle feste” di Valiano – è una di quelle. Mia mamma, le sue amiche, i bambini vestiti da cowboy, e dietro le loro spalle quel patchwork meravigliosamente improvvisato di manifesti pubblicitari: Piaggio, “chi Vespa mangia la mela”, colori pop che stridono contro il vecchio intonaco della cascina. È il contrasto che fa nascere il ricordo: un’Italia che stava diventando moderna, dentro una casa che moderna non era per nulla.
Dentro quelle stanze si tornò a vivere come in una piccola comunità. Gli uomini facevano legna, aggiustavano, giocavano a carte; le donne chiacchieravano, cucinavano, badavano ai figli; e poi c’erano le fatiche comuni – la raccolta delle olive, il vinsanto, l’odore di mosto e di legna umida che impregnava tutto. Ognuno portava un pezzetto di sé; in cambio, riceveva un luogo che diventava casa anche se casa non era.
Il grande lavoro, quello che per tutti segnò una svolta, fu il rinforzo del solaio con due longarine d’acciaio messe di traverso, come due binari. Sopra c’era il vecchio granaio, con le stuoie da vinsanto. Con noi, invece, diventò il “salone delle feste”: un nome un po’ altisonante per una stanza col pavimento imperfetto e le correnti d’aria, ma per noi bambini era il regno del divertimento, spesso teatro di quegli eventi misteriosi che accadevano dopo Carosello, quando noi stavamo già a letto. Ci si festeggiavano Capodanni, compleanni, perfino matrimoni… come quello in cui il fotografo – parente degli sposi – si accorse troppo tardi di aver “scattato senza pellicola”. Gli sposi dovettero rifare le foto la domenica dopo. Da soli. Una cosa che oggi farebbe trending su TikTok in dieci secondi.
E poi - con i proventi di una riffa - arrivò il jukebox “amatoriale”, in un trionfo di 45 giri che sputavano a tutto volume la colonna sonora di un’Italia giovane. Durò poco: una notte sparì, rubato insieme ad altre cose, in uno dei tanti furti che alla fine ci convinsero a lasciare la cascina. Ma per un po’, quel jukebox fu il cuore del salone. Nella foto lo si sente ancora, sotto pelle.
Ecco perché questa immagine colorizzata mi smuove tanto. Non è nostalgia semplice. È vedere le persone della mia infanzia nel pieno della loro energia, della loro bellezza quotidiana, di quell’incoscienza adulta che si ha solo tra i trenta e i quarant’anni. È sentire la voce di mia madre che ride, vedere la mano di mio babbo sporca di terra, avere la sensazione di appartenere a qualcosa di più grande della nostra famiglia: una piccola tribù, un microcosmo dove ognuno di noi aveva un posto.
Guardare questa foto oggi significa rendersi conto di quanto un luogo possa tenere insieme le vite. E che, in fondo, certi posti non si lasciano mai davvero. Rimangono attaccati, come quei manifesti pubblicitari che dovevano durare un carnevale e invece sono sopravvissuti, incollati nella memoria, mezzo secolo dopo.


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