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| La Vedova Scaltra, al Politeama di Prato il 20 dicembre 2025 |
Eppure stasera – tra poche ore – avrei potuto evadere. Non fisicamente, certo. Ma sul palcoscenico, vestita da Conte di Bosco Nero, avrei potuto essere qualcun altro. Avrei potuto muovermi, parlare, agire come se quelle sbarre non esistessero. Come se fossi libera. Libera come un uomo, libera come un nobile.
L'entusiasmo mi rendeva quasi sciocca, lo sapevo. Una donna matura che tremava d'emozione per una commedia, come una bambina eccitata per un gioco. Ma quando hai vissuto tutta la vita in una gabbia, anche solo l'illusione di aprire la porta – anche solo per poco – ti fa sentire viva come mai prima. O forse, più esattamente, mi sentivo come una dannata in attesa del giudizio. Perché sapevo che quella evasione avrebbe avuto un prezzo.
Dalla finestra della mia cella potevo vedere la via sotto al convento di San Clemente. Era buia, illuminata solo da qualche lanterna tremolante, e la neve sporca di pochi giorni prima si intravedeva accumulata ai lati del lastricato, indurita dal gelo. L'inverno era rigido e sembrava non voler allentare la sua morsa. Il freddo entrava dalle fessure delle imposte, penetrava nelle ossa, si insinuava nel cuore.
Guardavo quella strada deserta e pensavo a tutte le vie che non avevo mai percorso, a tutti i luoghi dove non ero mai stata. Pensavo a Venezia, la città di Rosaura che Clodesinda avrebbe interpretato quella sera. Venezia che non avevo mai visto, con i suoi canali, le sue maschere, la sua libertà. Libertà. Quella parola mi bruciava dentro più del gelo di febbraio.
Se fossi stata libera, avrei potuto amare Clodesinda alla luce del sole. Avremmo potuto fuggire insieme, cambiare nome, vivere altrove come due donne sole, forse spacciandoci per sorelle o cugine. Ma invece eravamo qui, prigioniere di voti pronunciati contro la nostra volontà, costrette a nasconderci, a vivere nell'ombra, a rubare momenti di amore come ladre nella notte. Il gelo della sera mi penetrava dentro, raffreddava anche l'entusiasmo per lo spettacolo. O forse era solo paura. Paura di quello che stavamo per fare, di quello che avremmo rivelato.
Mi allontanai dalla finestra quando sentii bussare alla porta. Era Clodesinda, avvolta nel suo mantello scuro.
"È ora," disse. "Dobbiamo andare al magazzino."
Il magazzino era quello delle granaglie del vicino convento di San Domenico. I Padri Domenicani erano i nostri responsabili spirituali – o almeno, così si supponeva – e avevano messo a disposizione quello spazio ampio per la nostra rappresentazione. Era più capiente del refettorio, e soprattutto più vicino al loro convento, così che potessero controllarci meglio. O forse, pensavo con amara ironia, così che potessero partecipare più comodamente allo scandalo.
L'idea di questa rappresentazione era nata quasi per caso, come spesso accadono le cose che poi cambiano il destino. Padre Angiolo Niccolini, il nostro confessore e padre spirituale, era un domenicano che sotto l'austera tonaca nascondeva passioni ben poco monastiche. Si recava in incognito a Firenze, al teatro, dove aveva sviluppato una vera ossessione per le commedie di Carlo Goldoni. Questa sua debolezza era rimasta segreta fino a quando – come talvolta accadeva nei conventi con grande scandalo delle gerarchie ecclesiastiche – non era venuta alla luce la sua frequentazione con suor Maddalena Ricci, una delle converse più giovani.
Il Padre non si limitava a vedere suor Maddalena intra muros, fermandosi spesso a passare la notte con lei. Più di una volta l'aveva fatta vestire con abiti profani che portava di nascosto in convento, costumi teatrali con cui la ragazza doveva impersonare per lui i personaggi delle commedie goldoniane che tanto amava: Mirandolina, Rosaura, Giacinta, Corallina... La faceva recitare nel buio della sacrestia, o in qualche angolo nascosto del convento, sussurrando le battute come se stessero commettendo il peccato più dolce del mondo.
Quando noi monache scoprimmo questo segreto – e nei conventi i segreti durano poco – l'idea prese forma quasi naturalmente. Perché non mettere in scena una vera rappresentazione? Io, Suor Caterina – questo era il mio nome monastico, anche se dentro di me ero sempre rimasta Irene Bonamici – rivestivo la carica di Vicaria, praticamente la seconda autorità del convento dopo la Badessa. Tra i miei compiti c'era anche quello di istruire le converse, quindi avevo una certa influenza. La Badessa, Madonna Lucrezia Altoviti, era donna di carattere debole e poco interessata alla conduzione quotidiana del monastero, più dedita alle sue devozioni private che ai problemi pratici. Non fu difficile convincerla.
"Reverenda Madre," le dissi un giorno, "le monache hanno bisogno di un'attività che elevi lo spirito. Il teatro è forma d'arte sacra, quando è usato per scopi edificanti." Lei annuì distrattamente, già pensando ad altro.
Fu più complicato con Padre Niccolini. Dovevo fingermi scandalizzata dalla sua relazione con suor Maddalena, ma al tempo stesso fargli capire che conoscevo il suo segreto e che potevo usarlo. Gli proposi l'idea della rappresentazione teatrale come una sorta di... riparazione. Un modo per sublimare la sua passione profana in qualcosa di più accettabile. Lui fece finta di resistere, naturalmente. "Suor Caterina, è assolutamente improponibile. La Chiesa vieta esplicitamente alle monache di recitare."
"Eppure," risposi con un sorriso appena accennato, "voi stesso fate recitare suor Maddalena. E immagino che la gerarchia ecclesiastica non approverebbe nemmeno quello."
Il Padre arrossì, poi si schiarì la voce. "Quella è... una questione diversa."
"Diversa come?"
Ci fu un lungo silenzio. Poi finalmente cedette, o meglio, smise di fingere resistenza. "Quale testo avreste in mente?"
Sorridevo già quando risposi. Un legatore tipografo che veniva a riparare i nostri messali – un certo Bernardo che aveva bottega in città – mi aveva procurato qualche settimana prima, dietro mia richiesta, un volume che conteneva diverse commedie del Goldoni. L'avevo nascosto nella mia cella, leggendolo di notte alla luce di una candela.
"La Vedova Scaltra", dissi.
Gli occhi di Padre Niccolini si illuminarono immediatamente. La conosceva, ovviamente. L'aveva vista al teatro di Firenze, forse più di una volta. E in quel momento capii che era perduto – o meglio, che non aveva mai opposto vera resistenza. Si buttò nell'impresa con tutto se stesso, anzi, divenne nei mesi lui il promotore più entusiasta, procurando tessuti per i costumi, aiutandoci a trovare il magazzino delle granaglie come sede della rappresentazione, invitando personalmente confratelli da Pistoia e Siena.
Ci era voluto quasi un anno, ed adesso quella che era nata come una trasgressione privata – il Padre e la sua conversa che giocavano al teatro nel buio – sarebbe diventata uno scandalo pubblico. E io, Suor Caterina, Vicaria del convento, avevo orchestrato tutto. Non per il teatro in sé. O comunque, non solo per quello.
Uscimmo nel freddo della sera, avvolte nei mantelli, attraversando il breve tratto che separava San Clemente da San Domenico. La strada era gelida, scivolosa per i residui di neve e ghiaccio. Il nostro respiro formava nuvolette di vapore nell'aria. Intorno a noi, il buio era rotto solo dalle luci delle lucerne delle altre monache che si muovevano come lucciole imprigionate, puntini di luce tremolante in cerca di una libertà che quella sera avremmo almeno finto di possedere.
Quando entrammo, il contrasto fu stridente. Dentro faceva caldo – avevano acceso bracieri per riscaldare l'ambiente – e le molte candele illuminavano i fondali che suor Apollonia Nardi e suor Lucrezia Martini avevano dipinto con tanta cura: palazzi veneziani, salotti della Serenissima, balconi da cui affacciarsi per le scene d'amore. Quelle scene d'amore che io conoscevo fin troppo bene, ma che per la prima volta avremmo recitato davanti agli occhi del mondo.
Davanti agli occhi di Dio.
Clodesinda mi aiutò con il costume e il trucco mentre le altre monache si preparavano. Le sue dita tremavano nell'allacciare la giubba damascata che suor Caterina Dei aveva cucito per me.
"Irene," sussurrò, "hai paura?"
Paura. Che parola insufficiente. Ero terrorizzata. Non dei Padri Domenicani venuti da Pistoia, Siena e persino luoghi più distanti. Non dei nobili pratesi con le loro dame ingioiellate. Ero terrorizzata di me stessa, di quello che avrei fatto, di quello che volevamo fare.
"Dovremmo avere paura," risposi, guardandola negli occhi. Quegli occhi che dodici anni prima, quando lei aveva appena pronunciato i suoi voti, mi avevano guardata con tale innocente ammirazione. Quell'innocenza l'avevo corrotta io, io con le mie eresie, con le mie teorie elaborate attraverso lunghe notti di lettura e meditazione.
Iddio non è altro che la natura, pensai, ripetendo a me stessa le parole che avevo sussurrato tante volte a Clodesinda nelle nostre conversazioni notturne. Pertanto noi dobbiamo seguitare in ogni suo istinto, e la nostra perfezione è l'unione con Dio e siccome tutti partecipano della natura ch'è Dio ogni carnale unione tra gli uomini è una unione con Dio quindi questa è la maniera la più perfetta di unirsi a Dio.
Parole bellissime, che avevo costruito leggendo Bruno, Molinos, tutti quei filosofi che la Chiesa condannava ma che a me sembravano più vicini alla verità di qualsiasi teologo ortodosso. Parole in cui credevo davvero, con tutta l'anima. Ma erano anche parole che mi tormentavano. Perché se era vero – se davvero l'amore fisico era unione con Dio, se davvero seguire la natura era la nostra perfezione – allora perché dovevamo nasconderci? Perché vivere nell'ombra, come criminali, come peccatrici? Perché non potevo prendere Clodesinda per mano e andarmene, fuggire in qualche città lontana dove nessuno ci conoscesse, vivere il nostro amore alla luce del sole?
Ma sapevo la risposta. Perché eravamo donne. Perché eravamo monache. Perché il mondo – quel mondo fatto di uomini che parlavano in nome di Dio – non avrebbe mai tollerato la nostra libertà.
"Irene," disse Clodesinda prendendomi le mani, come se avesse letto i miei pensieri, "smetti di tormentarti. Credi in quello che mi hai insegnato, o no?"
"Credo..." iniziai, poi mi fermai. "Credo che sia vero. Ma credo anche che sia impossibile viverlo davvero. Non qui. Non così."
"Ma se è vero," insistette lei con quella determinazione che mi faceva impazzire e disperare allo stesso tempo, "allora quello che sentiamo non è peccato. È grazia. È Dio che si manifesta attraverso di noi."
Volevo crederle. Oh, quanto lo volevo. Ma mentre la guardavo – così giovane, così bella, così piena di fede nelle mie parole – mi chiedevo se non l'avessi semplicemente ingannata. Se tutto il mio elaborato ragionamento filosofico non fosse stato altro che una giustificazione elegante per il desiderio. Se non avessi usato Dio per legittimare quello che era, in fondo, solo fame carnale.
"Tu non sai cosa dici—"
"So esattamente cosa dico. E so quello in cui credo. Me lo hai insegnato tu, Irene. Ogni carnale unione è unione con Dio. E io voglio unirmi a Dio. Voglio unirmi a te."
Fu come una pugnalata. Lei, così convinta, così sicura delle mie eresie. Mentre io, che le avevo elaborate, che le avevo studiate per anni, ero piena di dubbi. Perché credere in quella filosofia significava anche accettare la gabbia in cui eravamo rinchiuse. Significava rinunciare alla fuga, al sogno di una vita diversa, di una libertà vera.
Se ogni unione era sacra, allora anche quella clandestina, rubata, nascosta poteva bastare. Ma io volevo di più. Volevo strade aperte, viaggi, Venezia, il mondo. Volevo Clodesinda non nell'ombra di una cella ma alla luce del giorno. E questo desiderio di libertà, questo rifiuto della gabbia, non contraddiceva forse la mia stessa filosofia? Se dovevamo seguire ogni istinto della natura, allora anche l'istinto di fuggire, di essere libere, era sacro. Ma come potevamo fuggire? Dove potevamo andare?
Suor Agnese Vannucci, che avrebbe fatto Arlecchino, ci interruppe: "Sono arrivati! Almeno sessanta persone! C'è persino il Padre Priore di San Domenico di Montepulciano!"
Il mio cuore accelerò. Quella sera avremmo fatto qualcosa di irreparabile. Non solo recitare la commedia del Goldoni – già di per sé uno scandalo per monache di stretta clausura. No. Avevamo pianificato qualcosa di molto più pericoloso. Quando la sera prima Clodesinda mi aveva guardata con quegli occhi pieni di fuoco e mi aveva detto: "Domani sera, voglio che sia vero. Voglio che tutti lo vedano. Voglio che sappiano," io avevo cercato di dissuaderla. Ma lei era stata irremovibile.
"Da anni viviamo nell'ombra, Irene. Da anni ci nascondiamo come criminali. Domani sera, per una volta, voglio essere libera."
"Ci distruggerai," avevo risposto.
"Siamo già distrutte," aveva replicato lei. "Almeno facciamolo per una buona ragione."
E ora il momento era arrivato. Attraverso una fessura nella tenda che faceva da sipario, vidi il pubblico che prendeva posto nel magazzino trasformato in teatro. I Padri Domenicani nelle prime file, austeri nei loro abiti neri. I nobili pratesi con le loro dame, curiosi e un po' scandalizzati già solo dall'idea di vedere monache recitare. Le candele moltiplicavano le ombre, creando un'atmosfera insieme festosa e inquietante.
Il sipario si aprì, le candele illuminarono il palcoscenico, e Clodesinda entrò in scena.
Dio mio, era magnifica. Il vestito di broccato verde smeraldo la faceva sembrare una dea veneziana, i suoi occhi brillavano, i suoi movimenti erano grazia pura. Era davvero Rosaura Lombardi, la vedova che tutti desideravano e nessuno poteva conquistare. Esattamente come Clodesinda Spighi nella vita reale: desiderata da me, posseduta da me, dannata da me.
La commedia prese vita. Suor Maddalena Guicciardini nel ruolo di Milord Runebif faceva ridere il pubblico, suor Francesca Doni era un perfetto Monsieur Le Bleau, suor Teresa Baldi - Don Alvaro -sfoggiava una prosopopea spagnola che strappava sorrisi persino ai Padri più austeri. Ma io vedevo solo Clodesinda. Ogni battuta che pronunciavo era vera. Quando declamavo versi d'amore come il Conte, erano i miei. Quando fingevo gelosia, la sentivo davvero nelle viscere. Quando guardavo Clodesinda sul palco, non vedevo Rosaura ma la donna che da dodici anni era il mio tormento e la mia gioia, il mio peccato e la mia preghiera.
Poi venne la scena finale. Rosaura doveva scegliere tra i suoi quattro pretendenti. E Clodesinda, magnifica nel suo ruolo, scelse me, il Conte di Bosco Nero, l'unico che le era rimasto fedele.
"Conte," disse Clodesinda, e la sua voce tremava impercettibilmente, "accettate la mia mano e il mio cuore?"
"Con tutta l'anima," risposi, e quelle parole erano vere come nessuna preghiera che avessi mai pronunciato.
Nel libro del Goldoni che avevo usato, la commedia si concludeva lì. Con parole, congratulazioni, battute finali. Ma io e Clodesinda avevamo deciso altro. Una modifica non concordata con nessuno, nemmeno con Padre Niccolini. Un'aggiunta che avevamo pianificato in segreto, nelle nostre conversazioni notturne. Ci avvicinammo. Il pubblico si aspettava che ci dessimo la mano, che ci inchinassimo l'uno all'altra, che ci congratulassimo con dignità. Invece ci baciammo.
Il bacio durò. Durò troppo. Le mie mani si posarono sui suoi fianchi, le sue si aggrapparono alla mia giubba, e per un momento infinito ci baciammo davvero. Con passione. Con disperazione. Con amore.
Quando ci separammo, negli occhi di Clodesinda vidi lacrime. Di gioia o di dolore? Forse entrambe. E vidi anche fede – fede assoluta in quello che le avevo insegnato, fede nell'idea che quel bacio fosse sacro, fosse Dio che si manifestava attraverso di noi. Ma io, guardandola, sentii solo il gelo. Lo stesso gelo della strada fuori, dell'inverno che non voleva finire. Il gelo del dubbio, della paura, della consapevolezza che forse avevo costruito un castello di parole per giustificare l'ingiustificabile.
Gli applausi furono esitanti, imbarazzati. Niente a che vedere con il trionfo che avevamo sperato. Suor Maddalena e suor Francesca recitarono le loro battute finali – Runebif e Le Bleau che si congratulavano col Conte, Don Alvaro che se ne andava indispettito – ma la magia si era rotta. Il pubblico era inquieto, confuso, turbato.
Quando ci inchinammo per l'ultima volta, i volti dei Padri Domenicani erano pietra. Alcune dame si schermavano dietro i ventagli, sussurrando. I nobili pratesi evitavano di guardarci direttamente. Lo scandalo era servito. Padre Girolamo da Montepulciano, si avvicinò alla Badessa con un'espressione che oscillava tra il divertimento forzato e il disagio.
"Reverenda Madre," disse il padre con voce controllata, rivolgendosi alla Badessa, "debbo ammettere che le vostre monache hanno molto talento scenico. Forse fin troppo talento. Viene da chiedersi se certe... interpretazioni... non siano più adatte a palcoscenici profani."
La battuta cadde in un silenzio imbarazzato tra gli ecclesiastici. Ma i laici e le dame, dopo un momento di esitazione, scoppiarono in risate e applausi. Alcune signore si avvicinavano già chiedendo quando ci sarebbe stata la prossima rappresentazione, quali altre commedie avremmo messo in scena. "È stato meraviglioso!" esclamava una nobildonna pratese agitando il ventaglio. "Così audace, così francese!"
Ma tra i Padri Domenicani l'atmosfera era ben diversa. Alcuni sussurravano tra loro, scuotendo la testa. "Si sono prese qualche licenza," diceva uno. "È teatro, dopo tutto. Un po' di enfasi è comprensibile." "Licenza?" ribatteva un altro con tono severo. "Quello che abbiamo visto ha superato ogni limite del decoro. Quelle due si sono... baciate. Come... come..." Non finì la frase, ma tutti capirono.
Fu allora che il Padre Generale dell'Ordine Domenicano, venuto appositamente da Firenze, si alzò in piedi. Il suo volto era una maschera di preoccupazione.
"Confratelli, signori, signore," disse con voce che cercava di sembrare leggera ma tradiva inquietudine, "è stata una serata... memorabile. Tuttavia spero vivamente che questo avvenimento non giunga alle orecchie di Sua Eccellenza il Vescovo de' Ricci. Come tutti sappiamo, il nostro vescovo è assai contrario a questo genere di rappresentazioni, specialmente quando coinvolgono religiose."
Un brivido percorse la sala. Il nome di Scipione de' Ricci bastava a gelare qualsiasi entusiasmo. Tutti conoscevano il suo zelo riformatore, la sua intransigenza, il suo desiderio di riportare ordine e disciplina nei conventi.
Le suore cominciarono a circolare con i cesti per raccogliere gli oboli per il convento. Fu un momento stranamente fuori posto, quasi grottesco. Le dame vi depositavano monete sorridendo ancora, complimentandosi per lo spettacolo. Ma i Padri Domenicani contribuivano con espressioni cupe, come se stessero pagando non per un intrattenimento ma per l'assoluzione da un peccato collettivo. Il tintinnio delle monete nel silenzio teso sembrava il rintocco di una campana funebre.
La serata finiva in modo agrodolce. Gli applausi dei laici echeggiavano ancora nell'aria, ma sotto di essi percepivo un altro suono: il sussurro cupo dei Padri, il loro disappunto, la loro paura. E soprattutto, quella frase del Padre Generale che continuava a rimbombarmi nella testa: "spero che non giunga alle orecchie del Vescovo de' Ricci". Ma sapevo – lo sapevamo tutte – che sarebbe arrivato alle sue orecchie. Come avrebbe potuto non farlo? Sessanta persone avevano assistito. Sessanta testimoni di quello che avevamo fatto.
Avevamo aperto una porta che non avremmo mai potuto richiudere. Per un attimo restammo sole, Clodesinda mi cercò. Ci nascondemmo dietro uno dei fondali dipinti. "Irene," sussurrò, e c'era paura nella sua voce ora. Paura vera, non l'eccitazione trasgressiva di prima. "Cosa abbiamo fatto?"
"Quello che volevi," risposi amaramente. "Ci siamo mostrate al mondo."
"Cosa ci succederà?"
La abbracciai, sentendo il suo corpo tremare contro il mio. "Non lo so. Ma qualunque cosa sia, l'affronteremo insieme."
"Hai detto che ogni unione carnale è unione con Dio," sussurrò lei. "Hai detto che seguire la natura è perfezione. Allora quello che abbiamo fatto non può essere peccato."
Hai detto, ripetei nella mia mente. Tu hai detto. Come se quelle parole fossero solo mie, come se io fossi la sola responsabile di quella filosofia che ci aveva portate fino a quel punto.
"Lo so cosa ho detto," risposi. "Ma forse... forse avrei dovuto dire anche altro."
"Cosa?"
"Che avremmo dovuto fuggire. Anni fa, quando ancora potevamo. Avremmo dovuto lasciare tutto e andarcene, trovare un posto dove vivere libere. Invece siamo rimaste qui, in questa gabbia, nascondendoci, rubando momenti di amore come ladre. E ora..."
"Ora cosa?"
"Ora è troppo tardi."
Clodesinda mi guardò negli occhi. "Non è mai troppo tardi. Possiamo ancora fuggire."
"E andare dove? Siamo due monache senza un soldo, senza protezione, senza famiglia che ci accolga. Due eretiche, due peccatrici. Chi ci darebbe rifugio?"
"Non lo so. Ma preferirei morire libera per strada che vivere prigioniera qui."
La guardai, e in quel momento capii che aveva più coraggio di me. Lei, che era più giovane, che aveva seguito le mie idee con fede cieca, era pronta a rischiare tutto per la libertà. Mentre io, che avevo elaborato quelle idee, che avevo passato anni a leggere e studiare, ero paralizzata dalla paura.
"Anche l'Inferno?" chiesi.
"Anche l'Inferno. Se posso viverlo con te."
Ma mentre la tenevo stretta, sapevo che l'Inferno era già qui. Non nelle fiamme eterne, ma in questo: amare qualcuno che hai condannato, desiderare qualcuno che hai corrotto, volere qualcuno che hai trascinato con te nella dannazione. E soprattutto, dubitare della filosofia stessa che avevi costruito per giustificare quell'amore.
Tornai nella mia cella quella notte attraversando di nuovo quella strada buia e gelida. La neve scricchiolava sotto i miei piedi. Il freddo mi penetrava nelle ossa, mi stringeva il cuore. Era lo stesso freddo che avevo sentito prima dello spettacolo, ma ora era peggio. Perché ora non era più solo inverno fuori, ma anche dentro.
Non dormii. Fissai il soffitto nell'oscurità, ripensando a tutto: ai dodici anni con Clodesinda, alle notti rubate, alle eresie sussurrate, alle tre abiure che avevamo fatto solo per poter continuare a peccare. E pensai al bacio di quella sera, a come era stato insieme la cosa più bella e più terribile della mia vita. Sapevo che sarebbero venuti a cercarci. Il Vescovo Scipione de' Ricci, di cui si diceva fosse un riformatore implacabile, avrebbe sicuramente saputo di quella sera. E sapevo anche, con una certezza che mi ghiacciava il sangue, qual era la punizione per donne come noi.
Lo Spedale di San Bonifazio a Firenze. Il manicomio. Dove rinchiudevano gli eretici, i pazzi, i dannati.
Portai le dita alle labbra, sentendo ancora il sapore del bacio di Clodesinda. Quel bacio che ci era costato tutto. Quel bacio che valeva tutto. E mentre l'alba cominciava a schiarire il cielo oltre la finestra della cella, mi chiesi ancora una volta: se Dio è la natura, se ogni carnale unione è unione con Dio, se seguire gli istinti è perfezione... perché questo amore ci condannava? O forse non era Dio a condannarci, ma gli uomini che parlavano in suo nome?
O forse ancora, sussurrò la voce del dubbio, forse era tutto falso. Forse avevo costruito un'eresia per giustificare il desiderio. Forse avevo tradito Dio, tradito Clodesinda, tradito me stessa. Non avevo risposte. Avevo solo domande, dubbi, tormenti. E Clodesinda. Sempre Clodesinda.
La mia condanna e la mia salvezza.
Il mio peccato e la mia preghiera.
Il mio Inferno e il mio Paradiso.
O forse, semplicemente, la mia gabbia.
Postscriptum
Tre mesi dopo quella sera del 20 febbraio, il Vescovo de' Ricci chiuse i conventi domenicani di Pistoia e Prato. Io e Clodesinda fummo interrogate, giudicate, condannate. Le nostre famiglie rifiutarono di riaccoglierci – due eretiche, due peccatrici, due donne che si amavano contro ogni legge divina e umana.
Fummo rinchiuse nello Spedale di San Bonifazio.
Ma anche lì, nelle celle dei pazzi, tra le grida e la disperazione, io e Clodesinda trovammo il modo di vederci. Di parlarci. Di toccarci, quando le guardie non guardavano.
Perché questo era il nostro destino: amarci nell'ombra, nasconderci, soffrire, essere condannate.
Ma amarci comunque.
Sempre.
Anche se non sapevo più se quell'amore era unione con Dio o solo un'illusione che ci aveva condannate entrambe.


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