sabato 16 marzo 2024

Il PIL del Granduca Ferdinando I

Ferdinando I de' Medici in veste da cardinale, Alessandro Allori, 1587

"Tutta la gloria e la ricchezza che c'è, si trova in città, ed è nelle mani di pochi, ai quali son convogliati tutti i prodotti della campagna. Quanto agli artigiani, non possono fare molto di più che vivere, perché di loro appena uno in un'intera città si arricchisce mai; e la vita dei poveri contadini è tale che se non fossero di natura orgogliosi pur nella loro estrema miseria, uno straniero sarebbe mosso a compiangerli."(Robert Dallington, 1596)
All'alba del XVII secolo Prato faceva parte dei "Felicissimi Stati del Serenissimo Granduca" Ferdinando I de' Medici, passato alla Storia in primis per essere asceso al trono granducale dopo aver fatto avvelenare con l'arsenico suo fratello Francesco e la moglie di secondo letto Bianca Cappello nella villa di Poggio a Caiano, e in secundis per aver rafforzato il governo mediceo dopo la sua ascesa al trono, riorganizzando l'economia degli Stati toscani in senso più liberista sulla scorta delle esperienze politiche e diplomatiche che aveva acquisito nella sua lunga carriera di cardinale, fra le altre cose a lungo incaricato dell'amministrazione della città di Roma e della gestione delle finanze della Chiesa.

Detto in poche parole, l'atteggiamento di Ferdinando in economia fu meno paternalista del suo predecessore, il fratello Francesco: sotto il suo regno ci fu una maggiore apertura verso il mercato e una razionalizzazione dell'imposizione fiscale, nel tentativo di rispondere alle esigenze di una società che stava cambiando. Le imposte rappresentavano infatti una fonte primaria di entrate per la famiglia regnante, che le utilizzava per finanziare le spese di governo, l'esercito, le opere pubbliche e il mecenatismo. 
Cristo nella casa di Maria e Marta, Francesco Bassano 1577
Questo però non significava che venissero pagate di buon grado né che i sudditi si sentissero particolarmente ben governati dal loro signore. Lo stesso Dallington nel 1596 annota infatti che
"...appare che il granduca ha due rendite con le quali si arricchisce, cioè grandi imposte e grandi risparmi (perché il risparmio è una gran rendita). Resterebbero altre due cose per farlo assolutamente ricco: l'amore dei suoi sudditi, e la loro ricchezza privata; perché la ricchezza dei sudditi è ricchezza anche del re, e dove il popolo è ricco il principe non è povero. Ma di certo non c'è né l'una né l'altra."

Le tasse a cui era soggetto un suddito dei Felicissimi Stati si potevano suddividere allora come oggi in imposte dirette, ovvero:
  • Tassa sul catasto: gravava sui beni immobili, come terreni e case, sia per la compravendita che per l'affitto nonché per la successione ereditaria, e variava dall'8% al 10% dei valori in questione.
  • Tassa sul sale: un monopolio statale che garantiva un'entrata considerevole.
  • Tassa sulla testa o testatico: applicata a tutti i cittadini, indipendentemente dal loro reddito, e anche applicata ai capi di bestiame, sia sotto forma di quota forfettaria che di tassa su ciascun capo.
  • Tasse su specifiche attività: ad esempio sulla dote della moglie al momento del matrimonio, sull'esercizio del meretricio (ogni cortigiana doveva pagare una lira - ovvero un ottavo di scudo d'oro - al mese) e sugli Ebrei (2 scudi d'oro all'anno).
e imposte indirette:
  • Dazio doganale: prelevato sulle merci importate ed esportate.
  • Gabelle: tasse su specifici beni di consumo, come pane, vino, carne e tabacco e anche su attività come condanne e cause legali.
  • Tasse sull'esercizio di particolari attività, come ad esempio locande e alberghi, e una tantum - e detta matricola - sull'impianto di attività commerciali di vendita.

Il sistema fiscale mediceo era da molti considerato iniquo, in quanto gravava maggiormente sulle classi meno abbienti. La tassa sul catasto, ad esempio, era spesso viziata da disparità e favoritismi verso i ceti più elevati. Inoltre, le numerose gabelle rendevano i beni di prima necessità più costosi per le famiglie povere.
Pianta di Prato di Odoardo Warren, 1740
Nell'insieme si valuta che le tasse riscosse dal granduca ammontassero tra il 30 e il 40%, e va annotato che gli obblighi del governo mediceo erano di gran lunga inferiori da quelli assunti dalle moderne amministrazioni, soprattutto in tema di istruzione, sanità e previdenza.

Anche e soprattutto nei confronti delle comunità come Prato, ovvero delle amministrazioni comunali che mantenevano una quota di autonomia impositiva e le cui entrate andavano a formare un Ceppo da cui si attingeva per le esigenze locali, il granduca aveva stabilito di avocare a sé tutti gli avanzi di bilancio, togliendoli al tesoro comunitario che quindi veniva a mancare di autonomia di gestione e che si doveva rivolgere al governo centrale per tutte quelle spese che non fossero correnti.
Scudo d'oro di Ferdinando I
Un ulteriore elemento che creava numerosi problemi era quello della tassazione del clero, che godeva di esenzione fiscale per i beni ecclesiastici e per le rendite derivanti da attività spirituali. Tuttavia, erano previste alcune imposte specifiche sul clero, come la tassa del sussidio e la tassa decennale. Inoltre, il clero poteva essere soggetto a imposte straordinarie in caso di necessità finanziarie dello Stato, come ad esempio nel 1561, quando Cosimo I richiese un contributo per finanziare la guerra contro Siena. Nell'insieme, però, i beni della Chiesa nella Toscana medicea erano largamente improduttivi a fini erariali: i privilegi fiscali sarebbero stati infatti mantenuti fin quasi all'alba della Rivoluzione Francese.

Gli ecclesiastici, oltretutto, erano anche molto numerosi: in una città come Prato, che a fine Cinquecento contava complessivamente - tra città e contado - circa 16.000 abitanti, i religiosi erano 2.000, il 12,5%, che vivevano tutti a spese della comunità laica. Era come se nella Prato di oggi si contassero 25.000 tra preti, frati e monache.
Bilancino da cambiavalute del XVII secolo
In questa situazione non ci si meraviglia se la maggior parte della popolazione appariva povera oltre il verosimile. Racconta sempre Dallington che alla Fiera di Prato dell'8 settembre 1596
"Vennero quel giorno devotamente (a trovare me, non il Sacro Cingolo) due miei amici inglesi; osservammo (...) che eran venute nel luogo del mercato circa 18 o 20 mila persone per vedere la reliquia, di cui la metà portava cappelli di paglia, e un quarto era a gambe scoperte; per cui sappiamo che non è tutto oro in Italia, anche se molti viaggiatori che dànno solo un'occhiata alla bellezza delle città e alle facciate dipinte delle case, pensano che sia il solo paradiso in Europa."

Mi sono chiesto se fosse possibile valutare dai documenti in nostro possesso l'effettiva ricchezza dello Stato Toscano in quello scorcio di tempo tra Cinquecento e Seicento in cui ebbe luogo il governo di Ferdinando I, e in che termini potessero essere confrontati tra loro due Paesi così diversi come l'Inghilterra elisabettiana di Dallington e lo Stato mediceo. 

Facendo vari calcoli ho ricavato una sorta di PIL - Prodotto Interno Lordo - dei due Stati che sebbene sia solo un'approssimazione dà però qualche utile elemento di confronto che ci permette di paragonare, sia pure a grandi linee, un'economia moderna con quella di due Stati preindustriali. 

Partiamo dai dati odierni, che appaiono sideralmente lontani da quelli di fine Cinquecento: la Toscana nel 2023 ha avuto un PIL di 113,8 miliardi di Euro, la Gran Bretagna un PIL di 3.212 miliardi di Euro. Gli abitanti al 2023 sono 3.656.000 per la Toscana e 56.489.000 per la Gran Bretagna, il PIL pro capite è di 31.127 Euro per la Toscana e 56.861 Euro per la Gran Bretagna.

Monete di Ferdinando I de' Medici 
Alla fine del Cinquecento la Toscana aveva un PIL valutabile in circa 20-25 milioni di scudi d'oro; l'Inghilterra elisabettiana era sullo stesso ordine di grandezza della Toscana, con un PIL di 24-30  milioni di scudi d'oro. Per dare un'idea di queste grandezze in Euro, possiamo usare un coefficiente di conversione di 100, che porterebbe a un PIL di 2-2,5 miliardi di Euro per la Toscana e 2,4-3 miliardi per l'Inghilterra. 

Malgrado la differenza di estensione dei due Stati, la ricchezza del Granducato era quindi molto maggiore in quanto la popolazione toscana era di gran lunga inferiore a quella inglese: 880.000 abitanti in Toscana contro 4.500.000 in Inghilterra. Facendo la stessa operazione che abbiamo fatto sopra ne viene un PIL pro capite di 2.273/2.841 Euro per la Toscana a fronte di 533/666 Euro per l'Inghilterra.

Una notevole disparità che fa capire per quale motivo Sir Robert Dallington fosse stato mandato in avanscoperta dalla Corona inglese. Per quanto poverissima in termini moderni, la Toscana di fine Cinquecento era ricca in termini relativi, se paragonata a molte altre nazioni europee del tempo, e poteva essere presa ad esempio: ma questa ricchezza era molto mal distribuita, tra privilegi ecclesiastici e nobiliari e inefficienze di ogni genere. 

Della ricchezza prodotta dallo Stato una parte finiva nelle casse del granduca ed era da lui liberamente usata sia per le sue necessità personali che per quelle della sua politica. Partendo dagli assunti precedenti, ho calcolato che le entrate di Ferdinando I oscillassero annualmente tra un minimo di 1 milione di scudi e un massimo di 3 milioni, corrispondenti a 100-300 milioni di euro attuali. Grandi somme, che nel panorama piuttosto misero dell'Europa dell'epoca fecero guadagnare al sovrano toscano il titolo piuttosto inconsueto di "Re di denari" testimoniando se non altro la sua abilità di amministratore.

Per concludere questa piccola indagine invito a riflettere su cosa sarebbe potuto diventare l'Italia di fine Cinquecento - fatta di molti Stati dello stesso livello della Toscana - se avesse avuto un destino unitario. Probabilmente saremmo stati protagonisti in Europa a lungo, ancora dopo il periodo del Rinascimento: e da queste vicende di tanti secoli fa invito a valutare quella più vicina dell'Europa di oggi, che continua pur tra incertezze ed errori a testimoniare come l'unione faccia la forza, e la divisione porti solo al decadimento, morale ed economico.