sabato 10 maggio 2025

La poesia venne a cercarmi

Il Settimo Sigillo, foto di Bart Ramakers 
In un tempo come il nostro, in cui il rumore di fondo sembra inghiottire ogni silenzio e la prosa del mondo sembra aver vinto su ogni stupore, rileggere versi come questi di Pablo Neruda è come ricevere un soffio d’aria in una stanza che sta chiusa da troppo tempo.

La poesia non arriva con clamore, non irrompe come una certezza: “venne a cercarmi… non so da dove sia uscita, da inverno o fiume”. È un’apparizione, una chiamata misteriosa che non chiede spiegazioni ma ascolto. Ed è proprio in questa sua natura sfuggente e irriducibile che risiede la sua forza: ci strappa all’indifferenza, risveglia quello che credevamo sopito, ci ricorda che siamo parte di qualcosa di più grande e segreto.

Neruda racconta la scoperta della poesia come una trasformazione: il mondo si dischiude, la realtà si accende di presenze invisibili, il cielo si sgrana come una costellazione appena nata. È la scoperta della bellezza come necessità, come svelamento di senso nel caos. Non è un rifugio, ma un atto di resistenza contro il vuoto e il male che nel vuoto si nasconde.

In questo “minimo essere” che ruota con le stelle c’è ciascuno di noi, ogni volta che permettiamo alla poesia – e più in generale alla bellezza – di toccarci, di rivelarci che non tutto è perduto, che la vita resta degna anche nelle sue oscurità.

Forse è davvero questa la salvezza di cui parlava Dostoevskij: non una redenzione astratta, ma la capacità di vedere ancora il cielo spalancarsi sopra di noi. E sentirci, per un attimo, parte pura dell’abisso. Vivi. Umani.

 

La Poesia

Accadde in quell’età... La poesia
venne a cercarmi. Non so da dove
sia uscita, da inverno o fiume.
Non so come né quando,
no, non erano voci, non erano
parole né silenzio,
ma da una strada mi chiamava,
dai rami della notte,
bruscamente fra gli altri,
fra violente fiamme
o ritornando solo,
era lì senza volto
e mi toccava.

Non sapevo che dire, la mia bocca
non sapeva nominare,
i miei occhi erano ciechi,
e qualcosa batteva nel mio cuore,
febbre o ali perdute,
e mi feci da solo,
decifrando
quella bruciatura,
e scrissi la prima riga incerta,
vaga, senza corpo, pura
sciocchezza,
pura saggezza
di chi non sa nulla,
e vidi all’improvviso
il cielo
sgranato
e aperto,
pianeti,
piantagioni palpitanti,
ombra ferita,
crivellata
da frecce, fuoco e fiori,
la notte travolgente, l’universo.

Ed io, minimo essere,
ebbro del grande vuoto
costellato,
a somiglianza, a immagine
del mistero,
mi sentii parte pura
dell’abisso,
ruotai con le stelle,
il mio cuore si sparpagliò nel vento.

Pablo Neruda, Memoriale di Isla Negra, 1964

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