sabato 29 novembre 2025

Quando il passato riprende colore

 
Il passato è in bianco e nero, il presente è a colori.

E forse è proprio per questo che le vecchie foto “voltate a colori” dall’IA ci mettono così a disagio: tolgono al passato la sua distanza di sicurezza e ce lo riportano sotto al naso, vivo, insistente.

In questa foto del luglio 1952 ci sono mia mamma e suo fratello Fiorenzo, in spiaggia a Viareggio. Lei ha 19 anni, lui qualcuno di più. Nello scatto originale sono due figure di sabbia e argento; appena il computer ci mette mano, però, la scena cambia all’improvviso: la pelle prende calore, il costume diventa nero lucido, il vestitino bianco si accende di piccoli disegni colorati, gli ombrelloni esplodono di righe blu, arancio, verdi. E loro, da “personaggi storici”, tornano di colpo persone vere.

Quello che mi colpisce è lo sguardo. Non guardano indietro, ma avanti. Non sanno niente di ciò che verrà: amori, figli, lavori, fatiche, malattie, dolori e gioie insperate. Hanno solo davanti un futuro che sembra infinito, come il mare dietro di loro. E noi, che questo futuro lo conosciamo già, restiamo a metà tra tenerezza e vertigine: vorremmo quasi avvertirli di qualcosa, ma non si può. Il tempo è testardo.

Settantatré anni dopo, quella giornata di mare è diventata un battito di ciglia. La tecnologia ci permette di colorarla, di avvicinarla, di illuderci per un istante che quella ragazza e quel giovane uomo siano ancora lì, pronti a fare un tuffo. In realtà non stiamo riportando in vita loro: stiamo riportando in vita la parte di noi che ha bisogno di sentirli vicini, di credere che tra la spiaggia del ’52 e noi, oggi, non ci sia in mezzo un abisso, ma solo una lunga onda che continua a tornare a riva.

Forse questo è il vero potere di queste “magie” digitali: non tanto il realismo del colore, quanto la possibilità di rivedere le nostre radici con occhi nuovi. Scoprire che il tempo passa, sì, ma certe presenze continuano a camminare accanto a noi, sorridenti, a piedi nudi sulla sabbia.

mercoledì 26 novembre 2025

Il Miserere di Gregorio Allegri, ovvero il canto delle tenebre

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Ci sono musiche che appartengono ai luoghi più di quanto appartengano ai loro compositori. 

Il Miserere di Gregorio Allegri, composto a Roma intorno al 1630, è una di queste: fragile, sospeso, costruito per vivere nell’ombra e per invitare chi lo ascolta a far parte della penombra. Non è una partitura “geniale” nel senso moderno del termine; è un organismo che respira con lo spazio che lo contiene. E lo spazio perfetto era – e resta – la Cappella Sistina durante l’Ufficio delle Tenebre del Mercoledì Santo.

Immaginare quella sera è sempre un piccolo viaggio: quindici candele sul candelabro triangolare, una che si spegne dopo l’altra, il chiaroscuro che avanza, i volti del Papa e dei Cardinali che emergono appena dalla penombra, gli affreschi di Michelangelo che sembrano galleggiare in un crepuscolo che non è naturale ma liturgico. In questo teatro sacro, il Miserere scivolava come un soffio: alternanza di canto piano e polifonia, un richiamo sottile che ancora oggi sembra arrivare da un punto preciso ma inafferrabile della cappella.

C’è un altro aspetto che oggi rischiamo di dimenticare: quanto questa musica dovesse apparire sovrannaturale a chi la ascoltava nel Seicento. Noi abbiamo orecchie allenate alla complessità: viviamo in un mondo in cui la musica è parte del panorama, dove anche le armonie più audaci passano ovunque, dalla radio dell’auto allo streaming del cellulare fino alla diffusione acustica dei centri commerciali. Ma un ascoltatore dell’epoca, seduto sotto gli affreschi della Sistina e immerso nella penombra del rito, percepiva il Miserere in un modo completamente diverso.

Era polifonia pura: voci che si rincorrevano, fioriture leggere come filigrana, linee che si intrecciavano e si separavano come se avessero un’intelligenza propria. E soprattutto, nessuno strumento. Nessun organo, nessuna viola da gamba, nessuna tiorba a fare da sostegno. Solo il fiato umano – addestrato per anni, disciplinato come un corpo unico – che riempiva lo spazio con note perfette, limpide, sospese.

Per molti, doveva sembrare di sentire gli angeli.

Perché non era una musica che “veniva eseguita”, era una musica che accadeva, che nasceva nell’aria, viveva per pochi minuti e poi si dissolveva nel buio come un’apparizione. Una cosa così raffinata, così matematica nel suo contrappunto e allo stesso tempo così emotiva nella resa, era un prodigio acustico: la prova tangibile che l’uomo, almeno per un istante, poteva sfiorare il divino.

E nel silenzio della Cappella Sistina, quando l’ultima cadenza si posava come un respiro trattenuto, la reazione doveva essere sempre la stessa: una frazione di secondo di incredulità, un istante in cui nessuno osava muoversi. Poi soltanto il buio, la candela che si spegneva e quella sensazione vertiginosa di aver ascoltato qualcosa che non apparteneva del tutto alla terra.

Gregorio Allegri 

Nel tardo Seicento, l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo – musicista competente e assai sensibile al prestigio – volle assolutamente il Miserere per la sua cappella imperiale di Vienna. Chiese a papa Innocenzo XI una copia. La ottenne. Tutto sembrava semplice… fino all’esecuzione viennese.

Quello che risuonò nel palazzo imperiale non era un capolavoro mistico: era un corale moscio. Un disastro. Un Miserere che sembrava uscito da una parrocchia annoiata della periferia boema.

Leopoldo, convinto di essere stato ingannato, perse le staffe: accusò il maestro di cappella della Sistina di avergli rifilato un altro Miserere, una specie di tarocco musicale ante litteram. E siccome ai sovrani piacciono i gesti teatrali, fece sapere al Papa di ritenersi truffato. Innocenzo XI, che non capiva molto di musica ma teneva moltissimo alla reputazione della sua cappella, si indignò al punto da cacciare il maestro senza ascoltare spiegazioni.

Il pover’uomo rimase per mesi nell’ombra, provando a dire che no, non aveva mandato alcun falso. A salvarlo fu un cardinale che si prese a cuore la sua causa e spiegò al Papa – con tatto e un pizzico di verità scomoda – che il Miserere non era replicabile fuori dalla Sistina. Non perché fosse “magico”, ma perché i cantori romani avevano una competenza tecnica fuori dal comune e, soprattutto, perché l’intero rito delle Tenebre era costruito per esaltare quel brano specifico. In altre parole: le stesse note, in un altro luogo e con altre voci, risultavano irriconoscibili.

Innocenzo XI, ancora scettico ma un po’ meno furente, si convinse e scrisse una lunga lettera di autodifesa a Leopoldo I, spiegando che non c’era stata alcuna truffa: era la natura stessa del brano a non sopportare il trasferimento.

L’imperatore allora tentò la via più pratica: “Se la partitura non basta, mandatemi almeno qualcuno dei vostri cantori.” Il Papa acconsentì, i musicisti prepararono le valigie… ma nel 1683 la guerra contro i turchi travolse ogni progetto. Leopoldo dovette abbandonare Vienna, e il Miserere restò dove aveva sempre voluto restare.

Un canto che rifiuta di essere posseduto. Un canto nato per le tenebre e custodito dalle tenebre. Forse il frammento più fragile – e più luminoso – di ciò che siamo, capace di emergere solo nel buio della Cappella Sistina, quando le candele si spengono e la musica sembra ricordarci che l’incanto, a volte, dura un soffio soltanto.

martedì 25 novembre 2025

Le geometrie della Badia Fiesolana

Decorazioni geometriche sulla facciata della Badia Fiesolana 

Se vi capita di passare davanti alla facciata della Badia Fiesolana, vale la pena fermarsi un attimo a guardare quelle decorazioni geometriche – cerchi, rosoni, stelle di marmo bianco e serpentino verde – che sembrano solo il vezzo ornamentale di una facciata rimasta incompleta. A prima vista paiono un esercizio di bravura degli scalpellini, e invece dentro quelle forme c’è un mondo intero.

Sono lavori dell’XI-XII secolo, nel pieno della stagione romanica toscana. Un’epoca in cui Firenze e Fiesole si divertivano a creare facciate che erano una specie di codice in pietra: ordine, perfezione, ritmo. Le forme vengono dalla tarda Roma imperiale – quegli intarsi geometrici non sono altro che una rielaborazione medievale delle tecniche dell’opus sectile. E il verde? Quel serpentino scuro delle cave del Monteferrato pratese, che oggi associamo a Firenze, nel mondo romano era materiale di lusso, da palazzi imperiali. Metterlo qui, su una badia, era un modo elegante per dire: “non siamo affatto periferia”.

Rimane impressionante la coerenza: i cerchi come simbolo della perfezione divina, le stelle come luce e creazione, gli intrecci come continuità e ritmo cosmico. E sotto a tutto, quel respiro romano che passa dal marmo antico alla fantasia medievale.

Poi arriva il Rinascimento, che fa il suo solito trucco da prestigiatore: guarda queste geometrie, finge di “tornare all’antico”, e in realtà ricompone tutto secondo una nuova logica di proporzioni e di ordine mentale. Brunelleschi, Alberti, Michelozzo… tutti riprendono i moduli dell’antichità, ma solo per creare qualcosa che gli antichi non avevano mai immaginato. Roma usata come specchio, Firenze come cervello.

E così, davanti alla Badia Fiesolana, ci si rende conto che il dialogo tra Medioevo, Roma imperiale e Rinascimento non è una bella teoria da manuale: è inciso qui, a colpi di scalpello, in un mosaico di pietre che continuano a raccontare la loro storia a chi ha voglia di ascoltarla.

lunedì 24 novembre 2025

Il vero volto di Vibia Sabina

Vibia Sabina 

Oggi nel piccolo museo archeologico che sta accanto al Teatro Romano di Fiesole mi sono ritrovato davanti a un volto che ha attraversato i secoli con una calma un po’ enigmatica: quello di Vibia Sabina, moglie dell’imperatore Adriano per quasi quarant'anni. Una donna elegante, riservata, con un matrimonio non proprio da romanzo rosa (pare che tra lei e Adriano ci fossero più cerimoniali che tenerezze…), ma che nella ritrattistica ufficiale appare sempre impeccabile, serena e perfetta.

Adriano dopo la morte la divinizzò, forse per riconoscenza, forse per decoro imperiale, forse per lavarsi la coscienza dopo una vita di ignoranze e tradimenti coniugali. Guardandola così, scolpita nel marmo bianco, sembra davvero una divinità pagana. In realtà, all’epoca era tutto tranne che bianca.

La statuaria romana – come quella greca – era infatti vivacemente colorata. Non “tinte pastello”, ma colori pieni, dettagliati, studiati per rendere vivi gli occhi, i capelli e perfino le sfumature della pelle. Per decenni abbiamo creduto all’estetica del “bianco puro” solo perché i pigmenti, col tempo, sono spariti. Un gigantesco equivoco culturale, insomma.

Gli studi degli ultimi anni – imaging multispettrale, microscopia, analisi dei residui di pigmento – hanno rivelato come dovevano apparire queste sculture in origine. Nel caso di Sabina, possiamo immaginare qualcosa del genere:

I suoi riccioli – quei volumi quasi architettonici che si arrampicano sulla sommità del capo – erano dipinti, perché le romane non si accontentavano del marmo: volevano i colori. Castani caldi, biondi ramati, persino riflessi dorati per far scintillare la pettinatura alla luce del sole. La sua acconciatura fu imitata dalle dame dell’élite romana, un po’ come quando una first lady lancia una moda senza volerlo… o forse proprio volendolo.

Gli occhi, che oggi ci appaiono vuoti, un tempo erano tutto tranne che inespressivi. Iridi e pupille venivano tracciate con pigmenti scuri, e nelle opere più pregiate si usavano addirittura paste vitree, in modo che lo sguardo avesse una lucentezza quasi inquietante, da persona viva. 

Le labbra erano ravvivate da un rosso pieno, di solito ottenuto col cinabro, niente di eccessivo ma abbastanza da dare al volto un’aria presente, umana. La pelle restava chiara, certo, perché il marmo era già una buona base, ma veniva velata da sfumature rosate sulle guance e intorno agli occhi, come un trucco leggero steso con mano esperta. E poi c’era quella fascia che teneva insieme la massa dei capelli: anche quella era colorata, spesso in tinte decise come il blu, il rosso o perfino l’oro, perché a Roma – soprattutto a corte – la sobrietà non era una virtù poi così gettonata.

L’aspetto complessivo? Molto più realistico e sorprendentemente “vivo”, ben lontano dal marmo pallido che siamo abituati a vedere.

Insomma, la Sabina che vediamo oggi è solo lo scheletro visivo di ciò che era. Quella di allora - a colori - era un personaggio pieno, vivo, costruito per colpire lo sguardo e raccontare un ruolo, un rango, una storia. E guardandola così, sapendo tutto questo, il marmo non sembra più freddo. Sembra solo che il tempo abbia spento le luci, e che finalmente possiamo rivederle accese, almeno nella nostra immaginazione.

sabato 15 novembre 2025

San Sebastiano, Benozzo Gozzoli, e la peste

Affresco Votivo di San Sebastiano, Benozzo Gozzoli

Nella chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano c’è un affresco che porta addosso le ferite – e la speranza – di un anno preciso: il 1464. La peste non era un’ombra astratta, era lì, feroce, e la città cercava protezione ovunque potesse. Proprio in quei mesi Benozzo Gozzoli stava lavorando nel coro della chiesa al grande ciclo con le Storie della vita di sant’Agostino, commissionato dal colto frate agostiniano Domenico Strambi. Ma all’improvvisa nuova esplosione del morbo, nel giugno di quell’anno, gli agostiniani lo fermano: lascia il coro, abbiamo bisogno di un’immagine che ci salvi.

Gozzoli, obbediente e velocissimo, dipinge così il grande San Sebastiano votivo a metà della navata centrale. È completato il 28 luglio 1464. Tempi strettissimi: la città non poteva permettersi esitazioni. Anche il Comune, l’anno prima, aveva deliberato un affresco analogo nella Collegiata: segno che la peste stava colpendo forte almeno dal 1462, e che il santo-protettore era diventato un’ossessione collettiva.

Il San Sebastiano di Benozzo non è quello tradizionale, nudo e trafitto: qui è vestito, solido, quasi un principe. Con il suo grande mantello ripara il popolo dalle frecce dell’ira divina, un motivo antico della tradizione umbra che il pittore trasforma in una scena di tenerezza e potenza insieme. Gozzoli immagina il santo come uno scudo umano, calato in mezzo alla gente di San Gimignano, che agli inizi degli anni Sessanta del Quattrocento aveva già visto morire amici e parenti.

Sopra, il cielo si apre in un turbine di angeli. Cristo mostra le piaghe, la Madonna scopre il seno: è la doppia intercessione tipica della tradizione toscana, un gesto semplice e struggente, quasi familiare, per ricordare che la misericordia passa anche attraverso simboli corporei e quotidiani. A sorreggere l’intera scena c’è il colore: quei blu e quei rossi che solo Gozzoli sapeva far brillare così, come se l’affresco fosse illuminato da dentro.

Sotto, nella predella, appare Cristo crocifisso tra san Nicola da Tolentino, la Vergine, Giovanni Evangelista e sant’Agostino. In ginocchio, discretissimo, c’è proprio lui: Fra Domenico Strambi, il committente, che affida alla pittura la speranza della città. Nei tondi laterali compaiono santi a raffica: Giuliano, Antonio Abate, Giovanni Battista, Domenico, Giusto, Agata. Una piccola corte celeste chiamata in rinforzo, non si sa mai. E poi la folla vera: uomini, donne, bambini, volti seri, teste chine. È San Gimignano stessa, quella reale, che guarda il santo sperando di scamparla.

Entrare oggi a Sant’Agostino e trovarsi davanti questo affresco è un’esperienza strana: senti ancora l’urgenza con cui è stato dipinto, la paura che ne ha guidato la mano, ma anche la fiducia testarda di una comunità che non voleva arrendersi. In mezzo a tutto quel terrore, Benozzo trova il modo di creare un’immagine che consola: un santo che non soffre, ma protegge. Un uomo che si mette tra te e la tempesta.

E San Gimignano, con le sue torri vigilanti, continua a custodire quella scena come un promemoria di quanto fragile – e straordinaria – sia sempre stata la vita umana.

giovedì 13 novembre 2025

"Guardati": Giuseppe Giusti e l'arte di diffidare













  

Ci sono testi che sembrano usciti dalla Toscana granducale come da un cassetto dimenticato. È il caso dei Proverbi Toscani che Giuseppe Giusti cominciò a raccogliere ben prima del 1853, quando ancora Canapone regnava e l’Italia unita era un’idea che fumava solo nelle teste più ardite. Giusti, satirico fino al midollo ma anche osservatore lucidissimo del suo popolo, aveva messo insieme negli anni una straordinaria raccolta di proverbi, modi di dire, sentenze che circolavano tra campagne, osterie, mercati, controlli di gabella e strade di terra tutte sconquassate.

La maggior parte di questi proverbi sono brevi come stilettate: un verso, un lampo, una punzecchiatura. A volte comici, a volte spietati, sempre tagliati con quella lama sottile che è la lingua toscana quando non ha voglia di far complimenti. Giusti li raccolse, li sistemò, li commentò qua e là e restituì una fotografia antropologica del popolo prima che la parola “antropologia” entrasse nei libri.

In mezzo a questa miniera di frasi asciutte e folgoranti, però, c’è un pezzo che non assomiglia a nessun altro. È una specie di decalogo… a 24 comandamenti: una lista serrata di ammonizioni, una cascata di “guardati da…” che procede come una cantilena e insieme come un manuale di autodifesa popolare.

È talmente assertivo da sembrare il prontuario ufficiale del buon senso granducale: non un proverbio, ma un inventario di pericoli umani, animali, sociali, morali e professionali.

E dentro ci trovi tutto:
  • il medico ammalato, che è già un paradosso vivente;
  • il matto attizzato, forza incontrollabile;
  • la femmina disperata, che rompe gli argini di ogni convenzione;
  • il cane che non abbaia, che non avvisa;
  • i giudici dall’opinione ballerina;
  • gli speziali con ricette dubbie;
  • i notai con il loro micidiale “eccetere”;
  • il fatale “far quistione di notte”, precetto che oggi dovrebbe essere appeso sopra ogni chat di gruppo e ogni post di social media.

E tra gli altri c’è lei, la puttana vecchia, avvertimento fulminante. Non moralismo, ma lucidità: la professionista navigata, che non si illude più, non sbaglia più, conosce le debolezze altrui come un contabile conosce i numeri. È Machiavelli in sottoveste, ed è proprio per questo che il proverbio ti dice di starne lontano.

Questo “decalogo” è un unicum nella raccolta: lungo, ritmato, implacabile, quasi una litania laica recitata per non farsi beccare impreparati dal mondo. E più lo guardi, più capisci che non c’è psicologia, non c’è sociologia, non c’è teoria. C’è solo la realtà, nuda e toscana, che sa riconoscere i caratteri pericolosi a cento metri di distanza.

Il Granducato non c’è più, Giusti ormai è solo polvere e inchiostro, le osterie nuove si chiamano “bistrot” e gli speziali hanno la faccia dei farmacisti da banco. Eppure questo elenco di ventiquattro avvertimenti continua a guardarti come uno che ne ha viste tante e non si fa fregare da un sorriso.

Forse è questo il punto: siamo moderni solo finché non ci troviamo davanti un medico malato, un notaio con l’eccetera, o una puttana vecchia che ci squadra da capo a piedi. A quel punto la modernità svanisce, e restiamo identici ai toscani del 1853: diffidenti, un po’ furbi, un po’ ingenui… e eternamente vulnerabili alle stesse vecchie trappole.

Il mondo cambia, sì.
Le persone molto meno.
E Giusti se la ride, da qualche parte.

mercoledì 12 novembre 2025

Il silenzio di Camaldoli

Le casette dei monaci 

Oggi sono stato all’Eremo di Camaldoli.

È un luogo che non sembra stare nel tempo in cui viviamo. Ci arrivi attraversando la foresta del Casentino, un bosco che non fa da sfondo: ti assorbe. L’aria è più scura, più silenziosa, come se si camminasse dentro un pensiero antico.

L'ingresso dell'Eremo 

L’Eremo nacque attorno all’anno Mille per volontà di san Romualdo, che sosteneva una cosa semplice e radicale: per incontrare Dio bisogna prima imparare a stare soli con se stessi. Non una solitudine triste, ma una solitudine piena, attenta, scavata.

Qui le “celle” non sono stanzette.

L'altare di San Romualdo, nella cella

Sono piccole case in pietra, ognuna con un minuscolo orto davanti. Ce ne sono venti, ma quasi mai nella storia sono state tutte occupate. Oggi i monaci sono pochi, circa nove, dai 35 ai 70 anni più o meno. Vivono ciascuno nella propria casetta, con lo stretto necessario: uno scaldabagno, una stufa a legna come nei secoli passati (e qui gli inverni non sono uno scherzo), una scrivania, un letto, la cappellina privata.

L'ingresso della cella di San Romualdo  

La vita è solitaria: si chiama eremitaggio, ed è diverso dalla clausura. La clausura è una comunità chiusa al mondo esterno, ma comunque comunità, cioè convivenza. L’eremitaggio, invece, è essere separati anche tra loro. Ci si incontra per la preghiera e per pochi momenti comuni, ma la porta della propria cella resta chiusa. Il silenzio non è un accessorio: è lo strumento.

Il letto di San Romualdo  

Le concessioni alla modernità sono minime, essenziali, mai invadenti: una piccola lavanderia con la lavatrice che usano a turno, un refettorio comune dove da qualche anno pranzano e cenano insieme, e una governante, che vive nella foresteria fuori dal recinto dell’Eremo. Non entra: passa il cibo, nient’altro. Per il resto, niente televisione, niente internet. Zero rumore. Zero distrazioni.

Badessa, la gatta dei monaci 

A mantenere il controllo dell’ordine e della misura c’è un Priore dalla disciplina ferma ma non ottusa. E a vigilare su tutto il complesso, un personaggio importante: Badessa, la gatta. Lei non fa voto di silenzio, ma di solito parla poco lo stesso. È la vera autorità morale, inutile negarlo.

La facciata della chiesa 

La chiesa dell’Eremo non è più quella originaria voluta da san Romualdo: andò distrutta in un incendio nel 1698. Quella attuale è una chiesa barocca, piena di stucchi, cornici, dorature — un contrasto quasi sorprendente rispetto all’essenzialità delle celle: come se il cuore fosse austero e la voce splendesse.

L’Eremo è in parte visitabile: una breve visita guidata di circa mezz’ora racconta ciò che questo luogo è oggi. Nel nostro caso, a condurla è stata una signora bravissima, capace di spiegare con semplicità perché una vita come questa, che a molti pare impossibile, per loro invece è ancora piena, viva, pensata.

L'interno barocco della chiesa 

Visitare l’Eremo significa sbattere contro una domanda che non sempre abbiamo voglia di farci: che cosa resta quando togli tutto? Quando non ci sono rumori, distrazioni, notifiche, discorsi, richieste?

E capisci che non si tratta di “fuga dal mondo”. È piuttosto il tentativo di sentirne finalmente il fondamento. E il silenzio, quassù, non è vuoto. È pieno fino all’orlo.

I boschi autunnali intorno all'Eremo


martedì 4 novembre 2025

Il pulpito nascosto


A prima vista, la chiesa di Sant’Andrea a Pistoia può sembrare una di quelle piccole chiese un po' anonime che si incontrano girando per le strade del centro storico. Ma dentro custodisce un capolavoro assoluto della scultura gotica italiana: il pulpito di Giovanni Pisano, terminato verso il 1301.

Giovanni era figlio di Nicola Pisano, autore del celebre pulpito del Duomo di Pisa. Ma non volle restare nell’ombra paterna: intraprese un percorso autonomo, lasciandosi alle spalle l’equilibrio classico di Nicola per abbracciare una nuova sensibilità. La scultura gotica, di cui Giovanni è il massimo interprete in Italia, nasce proprio da questa tensione: non più figure rigide e simboliche, ma corpi vivi, che si muovono, si sfiorano, esprimono emozioni e dolore.

Crocifissione 

Snellì l’architettura, rese più acuti gli archi, fece emergere le figure dalla pietra, accentuò i moti e le tensioni. Questa vocazione gotica trova respiro nelle cinque lastre scolpite del pergamo: la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Strage degli Innocenti, la Crocifissione e il Giudizio Universale. Le scene, separate da grandi figure angolari scolpite a tutto tondo, sembrano animate da una vita propria. I corpi si agitano, i volti si contraggono, le pieghe delle vesti vibrano di pathos e di grazia.

Strage degli Innocenti 

Ma queste immagini non erano soltanto meraviglia estetica: avevano una funzione didattica precisa. In un’epoca in cui la maggior parte della popolazione era analfabeta, il pulpito diventava un libro di pietra. Ogni rilievo raccontava un episodio del Vangelo, traducendo in gesti e volti ciò che le parole della Scrittura annunciavano dall’altare. Il fedele, guardando quelle scene scolpite con forza teatrale, imparava a riconoscere il dolore della Passione, la tenerezza della Natività, la speranza della Redenzione. La scultura diventava così una forma di catechesi visiva, un ponte fra la parola e lo sguardo.

Giudizio Universale 

Il pulpito fu voluto dal plebano Arnoldo, che grazie ai finanziamenti di Andrea Vitelli e Tino Vitale poté affidare l’opera a uno dei più prestigiosi scultori del suo tempo. Non lo sappiamo da documenti, ma da un’iscrizione in versi latini che corre alla base dell’opera, come un’antica firma che racconta una storia di fede e d’arte.

All’epoca Sant’Andrea non era una chiesa qualsiasi: era la pieve cittadina, dotata del diritto di battezzare, e il suo parroco era la seconda figura più importante dopo il vescovo. Un luogo sacro e civico insieme, dove Pistoia scelse di lasciare un segno della propria grandezza.

Annunciazione e Natività 

Oggi, nella penombra di quella che appare una chiesa minore, il pulpito di Giovanni Pisano risplende come un miracolo di pietra. I suoi leoni sembrano ancora vegliare, e l’aquila in cima — simbolo dell’evangelista Giovanni — osserva dall’alto, ricordando che anche il marmo, nelle mani di un grande artista, può respirare.