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| Calenzano, piazza del Castello |
Quando pensiamo alla nostra esistenza ignoriamo quasi sempre un fatto elementare, quasi ovvio eppure vertiginoso: la maggior parte delle cose non la faremo mai.
Ci sono frasi che non pronunceremo, città che resteranno fuori dalla nostra mappa, porte che non proveremo ad aprire, specchi che non rimanderanno mai la nostra immagine. E c’è perfino qualcuno — o qualcosa — a cui forse abbiamo già detto un addio senza saperlo, con un silenzio più eloquente di mille parole. Questi non sono drammi cosmici, ma confini minuscoli, cuciti nella stoffa delle piccole azioni. Eppure proprio lì, in quelle omissioni, si intravede la forma della nostra vita.
Jorge Luis Borges, con la sua solita capacità di guardare il mondo come un labirinto di possibilità, l’ha detto molto meglio di chiunque: nella poesia “Limiti”, scritta negli anni maturi, confessa di aver compreso troppo tardi che ogni strada percorsa ne escludeva un’infinità. Ricorda un libro che non aprirà mai più, un volto che non rivedrà, un luogo che non attraverserà un’altra volta. Lo dice con quella sua malinconia senza piagnistei, quasi chirurgica; è la consapevolezza che ogni gesto è già un congedo, che viviamo di prime volte senza accorgerci delle ultime.
A modo suo, Borges ci sbatte davanti una verità che preferiamo non guardare: non siamo creature infinitamente disponibili, ma mappe incomplete. Ed è proprio lì, in ciò che manca, che si disegna chi siamo davvero.
LimitiMusica: "WALK" di Ludovico Einaudi
(Traduzione di Domenico Porzio)
Di queste vie che scavano il ponente,
Una certo (non so quale) ho percorso
Ormai l’ultima volta, indifferente
E senza sospettarlo, sottomesso
A Chi prefigge onnipotenti norme
E una misura rigida e segreta
Alle ombre, ai fantasmi ed alle forme
Che tessono e che disfano la vita.
Se per tutto c’è termine e c’è regola
E ultima volta e per sempre ed oblio
Chi potrà dirci a chi, in questa casa,
Senza saperlo abbiamo detto addio?
Fa grigio il vetro la notte morente;
Della pila di libri che una tronca
Ombra allunga sul tavolo impreciso
Ce n’è qualcuno che non leggeremo.
C’è al Sud più di un portone consumato
Coi suoi vasi di pietra e i fichi d’India,
Che al mio passo nostalgico è vietato
Come se fosse una litografia.
Hai richiuso per sempre qualche porta
E c’è uno specchio che t’attende invano,
E quel crocicchio che ti sembra aperto
È vegliato dal quadrifronte Giano.
Fra tutti i tuoi ricordi, ce n’è uno
Che s’è perduto irreparabilmente;
Non ti vedranno più scendere alla fonte
Il bianco sole né la gialla luna.
Non riandrà la tua voce quel che il persa
Disse in suo idioma d’uccelli e di rose,
Quando al tramonto di luce dispersa
Vorresti dire memorande cose.
E l’incessante Rodano ed il lago,
Tutto l’ieri sul quale oggi mi chino?
Sarà perduto come lo è Cartago
Che con fuoco e con sale arse il latino.
Credo udire nell’alba un frettoloso
Rumore, come gente che va via:
È quello che m’ha amato e obliato;
Già spazio, tempo, Borges mi abbandonano.
Jorge Luis Borges


