venerdì 1 maggio 2015

"La gioia avvenire", una poesia di Franco Fortini

Nacho Criado, "Agentes Colaboradores" Madrid 2012 Parque del Retiro
Voglio riproporre qui questa poesia di Franco Fortiniintellettuale emblematico della nostra storia recente: la ritengo adatta al nostro tempo, sia in senso stagionale che in senso metaforico. 

Fortini affronta in questi versi la tematica della primavera e quella del cambiamento, visto come rivoluzione, come crisi inarrestabile del presente investito dal futuro e travolto dalle forze del mutamento, percepito come fonte di angoscia ma anche di gioia: la "gioia avvenire". 

La gioia avvenire

Potrebbe essere un fiume grandissimo
Una cavalcata di scalpiti un tumulto un furore
Una rabbia strappata uno stelo sbranato
Un urlo altissimo

Ma anche una minuscola erba per i ritorni
Il crollo d’una pigna bruciata nella fiamma
Una mano che sfiora al passaggio
O l’indecisione fissando senza vedere


Qualcosa comunque che non possiamo perdere
Anche se ogni altra cosa è perduta
E che perpetuamente celebreremo
Perché ogni cosa nasce da quella soltanto

Ma prima di giungervi

Prima la miseria profonda come la lebbra
E le maledizioni imbrogliate e la vera morte
Tu che credi dimenticare vanitoso
O mascherato di rivoluzione
La scuola della gioia è piena di pianto e sangue
Ma anche di eternità
E dalle bocche sparite dei santi
Come le siepi del marzo brillano le verità.


Dalla raccolta FOGLIO DI VIA E ALTRI VERSI
EINAUDI 1946-1967

sabato 18 aprile 2015

Dalla Croce del Pratomagno fino all'Uomo di Sasso

La Croce del Pratomagno
Il Pratomagno è un massiccio montuoso dell'alta Toscana che separa il Valdarno Superiore da quello Inferiore distaccandosi dalla catena appenninica principale in corrispondenza del Monte Falterona. Lungo approssimativamente trenta chilometri e largo dieci, è contraddistinto da una sequenza di cime tondeggianti dalla quota relativamente elevata - 1592 metri nel punto più alto - e dalla diffusa presenza di pascoli nella parte superiore che creano una copertura prativa quasi ininterrotta che si estende per diversi chilometri del crinale. A quote inferiori il massiccio è coperto prevalentemente da foreste di castagni, querce e faggi, con l'eccezione della zona di Vallombrosa, famosa per le sue abetaie.
Il crinale dalla Croce verso l'Uomo di Sasso
In corrispondenza del punto più alto del gruppo montuoso dal 2 settembre 1928 si erge una grande croce modulare in ferro, alta quasi 20 metri, che prende il nome di Croce del Pratomagno. Fu realizzata da due comitati casentinesi e valdarnesi in occasione del settimo centenario dalla morte di Francesco d'Assisi a seguito di una proposta fatta dal predicatore francescano Luigi da Pietrasanta coadiuvato da don Francesco Bordoni, parroco di Raggiolo. 

E' stata restaurata numerose volte - l'ultima nel 2013 - , con la creazione intorno al monumento di una "zona di rispetto" dotata di panchine e di pannelli esplicativi, dedicati a illustrare il panorama circolare davvero notevole che nelle giornate più serene permette alla vista di spaziare dalle cime più vicine dell'Appennino Settentrionale alle Alpi Apuane, al monte Cinto in Corsica, fino a raggiungere - a 250 km di distanza verso sud - la mole rocciosa del Corno Grande del Gran Sasso.
La Croce da sotto
Vista dal Monte Pianellaccio
Una delle passeggiate più panoramiche che si possano fare sul Pratomagno è certamente quella che partendo dalla strada sottostante alla Croce - in corrispondenza del sentiero CAI 21 che sale da Rocca Ricciarda - porta alla vetta dell'Uomo di Sasso, seguendo il sentiero di crinale 00 in tutti i suoi saliscendi. Andata e ritorno sono in tutto 12 km con circa 600 metri di dislivello non troppo faticosi, fatta eccezione per la ripida rampa iniziale che porta alla Croce.
L'Uomo di Sasso
L'Uomo di Sasso è una delle cime più alte del gruppo, con i suoi 1537 metri. Deve il suo nome o a una roccia dal profilo umano non bene identificata o più probabilmente a un cumulo di pietre di forma troncoconica, assimilabile per la forma a un "ometto" di sassi sul tipo di quelli usati per segnalare i sentieri ma di dimensioni assai maggiori, collocato quasi sulla cima a quota 1523 metri. 
Dettaglio delle pietre dell'Uomo di Sasso
In origine pare che il cumulo superasse l'altezza di 3 metri e fosse strutturato come una sorta di edificio conico di pietre. Danneggiato da ignoti nel 1972, crollò in parte per poi venire completamente distrutto dieci anni dopo, al momento dei lavori di scavo del metanodotto algerino. Ricostruito successivamente nello stesso luogo riutilizzando gli stessi materiali, ha un'altezza attuale di circa un paio di metri e un aspetto piuttosto disordinato. 

Vista la mole e il posizionamento della struttura che esiste da tempo immemorabile, è probabile che questa sia una traccia di un luogo di culto di origine antichissima, forse addirittura preromana, trasformatosi nei secoli in un semplice punto di riferimento usato dai pastori e da chi percorreva il crinale. Evidentemente anche gli antichi vedevano le cime delle montagne come luoghi in cui ci si poteva maggiormente sentire più vicini alla divinità.
La Croce del Pratomagno dal punto di partenza della passeggiata
Chi volesse ripercorrere i miei passi può scaricare QUI il tracciato gpx dell'itinerario: qui sotto la mappa del tracciato su tavoletta IGM al 25:000.
Cliccare sull'immagine per ingrandirla

domenica 5 aprile 2015

Ebb Tide


Ebb Tide è una canzone scritta nel 1953 da Carl Sigman insieme al compositore Robert Maxwell. Il titolo allude al periodo che intercorre tra l'alta marea (high tide) e la bassa marea (low tide) come al momento in cui l'amore si svela. E' stata portata al successo inizialmente da Frank Chacksfield e Vic Damone, ma ne esistono numerose versioni: tra le altre quella di Frank Sinatra e dei Platters. Qui di seguito il testo, esemplare nella sua semplicità: un sempreverde che ho voluto riproporre nell'interpretazione indimenticabile che ne diede Mina - ovviamente dal vivo - durante la trasmissione Studio Uno del 1966.

EBB TIDE

First the tide rushes in
Plants a kiss on the shore
Then rolls out to sea
And the sea is very still once more

So I rush to your side
Like the oncoming tide
With one burning thought
Will your arms open wide?

At last, we're face to face
And as we kiss through an embrace
I can tell, I can feel
You are love, you are real
Really mine

In the rain, in the dark, in the sun
Like the tide at its ebb
I'm at peace in the web
Of your arms


SONGWRITERS
MAXWELL, ROBERT/SIGMAN, CARL
PUBLISHED BY
LYRICS © EMI MUSIC PUBLISHING

sabato 4 aprile 2015

Rio a' Buti, chiare fresche e dolci acque a due passi da Prato

Una delle "bozze" del Rio a' Buti
C'è un libro molto interessante che parla della Calvana, della sua storia e del suo ambiente, bello sia da un punto di vista estetico che per il suo contenuto. S'intitola "Calvana Ritrovata" ed ha due autrici, Cinzia Bartolozzi e Annalisa Marchi, che lo hanno pubblicato nel 2006 per le edizioni Polistampa. Mi piace il taglio narrativo di quest'opera, ha un modo di raccontare che emoziona, riesce a far vivere i luoghi attraverso le parole. Proprio per questo mi permetto di citarne una pagina, a corredo di questa foto che ho scattato stamattina a una delle "bozze" del Rio a' Buti.
"Questa terra di Calvana, vuota e misteriosa per sua natura e per le grandi opere di estrazione, ricca di emozioni forti, di sapori selvaggi e suggestioni, incisa dai torrenti che trasportano acqua così calcarea da lasciare dietro di sé ammassi di formazioni spugnose che si legano alla vegetazione, è pronta ad offrire emozionanti episodi di scomparsa e ricomparsa delle acque che rimpollano, e ci regala anche lo spettacolo naturale del Rio a Buti. D'estate si presenta a secco nella parte più alta e talvolta anche in inverno, se le piogge scarseggiano. Ma basta scendere verso valle, verso Fonte Buia, che ci si para davanti l'episodio naturalistico improvviso dell'acqua che esce e scorre in superficie per poche decine di metri: fa grandi bozze, dove le salamandrine amano sguazzare, per poi sparire ancora e tornare fuori a Fonte Buia Inferiore, seguitando regolare la sua discesa verso la città. Nei giorni di grandi piogge, tra Fonte Buia e Fonte Buia Inferiore, si animano straordinarie cascate d'acqua. Lungo questo fosso, compreso tra lo sperone di roccia della Collina di San Leonardo, il Monte Cagnani, e il massiccio della Calvana che dalla Retaia, passando per il Cocolla, va a Cantagrilli, e che scende in una gola stretta e ripida, quasi simile a un orrido, prosperano i fichi. Nascono sulle scoscese sponde di roccia del rio, si sviluppano in vistose ed enormi chiome, fino a scendere quasi nel suo letto, dopo che le loro fronde di legno debole, crescendo e appesantendosi, si sono piegate o scosciate. Così il fosso in alcuni punti è lasciato quasi del tutto al buio, come trovandosi in un tunnel che anima ambienti in cui la luce, filtrata tra rami e foglie, si alterna all'ombra."

martedì 31 marzo 2015

Il tempo di Lucchio

Intreccio a bassorilievo, XII secolo, San Cassiano in Controne
Noi che non sappiamo più sostare,
noi che non sentiamo più la voce della terra,
sospendiamo i nostri sensi increduli,
fermiamo un attimo
questo frenetico agitarsi d’insetti
delle nostre vite,
tratteniamo il fiato e ascoltiamo
ancora
il mormorio dei campi e delle spighe,
nel silenzio cristallino dei metalli
giù, nel cuore igneo del mondo.
Le case di Lucchio
E' complicato descrivere un luogo come Lucchio. 

Paradossalmente al primo impatto sembra facile inquadrarlo, quasi da Dizionario dei Luoghi Comuni turistici del nostro tempo: un paese di montagna isolatissimo e semiabbandonato, diverso dagli altri solo perché dominato dai ruderi di un castello costruito in una posizione impressionante, appollaiato su di una rupe che strapiomba per quattrocento metri sulle acque ruggenti della Lima. 

Un pugno di case disabitate, fuori dal tempo, fuori dal mondo, spettacolari nella loro silenziosa solitudine. Che viene cercata dai turisti e dagli escursionisti contemporanei solo per un'ora - o poco più - di qualche annoiato pomeriggio di una domenica di non-shopping per scappare subito dopo, immemori e inconsapevoli, verso le luci del mondo urbanizzato. 

Pensando a Lucchio come a un posto "bello, ma..." e condensando in quel "ma" l'assenza imperdonabile di attrattive adeguate alle aspirazioni del cittadino turista ed esploratore, come qualche localino tipico pieno di cose genuine, o una sagra della castagna o del tortello di montagna.

Peraltro 
agli occhi di un osservatore superficiale Lucchio sembra davvero un fondale di teatro allestito appositamente per rappresentare lo spettacolo della "tipicità" montanara: una scenografia del come eravamo in cui recitano i personaggi del come siamo. Un luna-park di altri tempi messo su per colpire la fantasia dell'occasionale visitatore, attore e spettatore insieme di questa recita. Ma io direi che non si tratta di altri tempi, quanto piuttosto di un "altro tempo", un tempo che non sappiamo più sentire.
Il paese dal basso
Noi cittadini, immersi nella folla e nel traffico con l'occhio stabilmente attratto dagli schermi di computers e smartphones, abituati ai ritmi frettolosi di un pianeta affollato, non siamo più capaci di vivere il tempo di Lucchio. Viaggiatori superficiali e distratti, percepiamo solo pochi frammenti di presunto folclore - scambiandolo per vita vera - senza riuscire a capire davvero.

Perché - e giustamente - chi non sa non vede.

Anni fa - molti anni fa - lessi un romanzo di uno scrittore americano, Jack Finney, Time and Again (tradotto in italiano come Indietro nel Tempo), che trae spunto da una riflessione di Einstein sulla relatività del tempo: il "qui ed ora" sarebbe una percezione soggettiva, mentre le varie epoche coesisterebbero e sarebbero potenzialmente accessibili l'una con l'altra. 

Precisi luoghi, rimasti immutati tra le epoche, sarebbero dunque altrettanti "passaggi" in quanto coesistenti - identici - su diversi piani temporali. Per questo il protagonista del libro viaggia nel tempo senza l'ausilio di particolari macchinari, ma semplicemente recandosi in luoghi particolari, rimasti il più possibile inalterati, praticando una sorta di autoipnosi in cui riesce a convincersi di "vivere" l'epoca in cui vuole andare, imparando a percepire le cose che lo circondano non come anticaglie da museo ma come oggetti con una propria utilità, rapportandosi con la realtà come avrebbe fatto una persona di quell'epoca.
La strada che risale dal basso
Proprio mentre risalivo faticosamente le ripide strade del paese per raggiungere i ruderi della rocca pensavo a questo libro. A quanto Lucchio sembrasse proprio uno dei luoghi descritti da Jack Finney, fotogrammi di un passato che si è cristallizzato senza scomparire.

Era giusto dietro la coda dell'occhio, proprio di là dalla curva dell'acciottolato, appena oltre le imposte serrate di ogni finestra. Il passato con i suoi abitanti ammiccava e si faceva intravedere con le sue povere e semplici cose, per raccontare di un presente fatto di stagioni inesorabili, di fatiche indicibili, di continua lotta con la natura incombente allo stesso tempo madre e matrigna.  

Sentivo il passato non come qualcosa di trascorso ma come un diverso presente, ne percepivo gli odori, ne udivo i rumori attraverso la trama del tempo: i miei attimi diventavano altri attimi e il mio vissuto entrava in risonanza con quello di chi si era trovato a vivere in quei luoghi: e all'improvviso mi sentivo - indicibilmente - uno di loro, un uomo di confine, arrampicato su di una rupe sospesa tra passato e presente.
Sotto alla rocca
Perché vivere aggrappati a uno sperone roccioso proteso dalle creste della Penna di Lucchio fino in mezzo alla valle della Lima, perfetto per sorvegliare ma molto meno per passarci l'esistenza, non deve essere mai stato semplice. Fin dal giorno immemorabile in cui qualche comandante militare decise di costruire dapprima una torre e poi un fortilizio da cui controllare i viandanti che percorrevano la strada che conduceva verso i passi dell'Oppio e dell'Abetone, Lucchio è sempre stato un paese di confine, un luogo di passaggio.

E per quanto possa sembrare strano, per molti versi lo è ancora oggi: le sue ripide strade acciottolate portano ben più lontano di quello che sembra, se solo siamo disponibili a pagare il giusto dazio alla memoria, mettendo in gioco ciò che siamo e ciò che pensiamo di sapere di noi e di ciò che ci circonda.

sabato 21 marzo 2015

La Rocca di Cerbaia in Val di Bisenzio

Il ponte medievale sul Bisenzio che dà accesso alla rocca
Risalendo la val di Bisenzio in prossimità di Carmignanello la vista del viaggiatore viene inevitabilmente attirata dai notevoli ruderi di una fortificazione, posti in cima a una collina alta quasi 400 metri - duecento in più della strada - e strapiombante dal lato del fiume. Il castello è la rocca di Cerbaia, famosa sia per essere stata citata da Dante nella Divina Commedia quando racconta la vicenda di Alessandro e Napoleone degli Alberti, figli del conte Alberto - uno dei maggiori feudatari toscani dell'epoca - che si uccisero a vicenda per questioni di eredità intorno al 1280, che per una leggenda posteriore che vede sempre Dante Alighieri come protagonista. 

La rocca dal basso
Racconta la leggenda che il poeta ventenne, in viaggio da Firenze per Bologna, giunge ai piedi del castello in una sera nevosa dell'inverno del 1285. È buio, fa freddo, la destinazione è lontana: per questo il poeta chiede ospitalità al castellano, uno dei due fratelli Alberti. Il conte offensivamente gliela nega e lo lascia fuori, nella notte e nella neve. Fortunatamente Dante trova riparo poco più a valle, nella semplice casa di un mugnaio dimostratosi più generoso del suo padrone e può così ripartire la mattina dopo, riscaldato e rifocillato, verso la sua méta.
L'ingresso
Come tutti sanno - e anche in questo caso non conosciamo se si tratti di una diceria o di un fatto vero - Dante aveva un'ottima memoria, non dimenticava nulla. Così, molti anni dopo, memore del torto subìto, nella stesura finale della sua Commedia pone i due fratelli - omicidi tra loro e traditori dei parenti - nell'Inferno, confitti fino al collo nel ghiaccio della Caìna.

E' una narrazione suggestiva quanto errata: il racconto dell'ospitalità negata è frutto di pura fantasia - quasi una giustificazione a posteriori - teso probabilmente a dare una ragione al trattamento che Dante aveva riservato agli Alberti nella sua Commedia. Pare che di questa storia esistano varie versioni, tutte risalenti a un originale quattro/cinquecentesco, divulgato in origine da un cronista di fine Ottocento, Vittor Ugo Fedeli, notaio e segretario comunale a Vernio nonché storico locale per diletto. 

Dalle fonti storiche esistenti sembra che la leggenda oltre che errata per una questione puramente cronologica - il fratricidio avvenne cinque anni prima del presunto viaggio di Dante a Bologna - sia inverosimile anche perché i conti Alberti non hanno mai risieduto stabilmente nella rocca, che aveva una funzione prevalentemente militare e di controllo.

In realtà il duro giudizio di Dante su Napoleone ed Alessandro degli Alberti oltre che dall'evidenza di un reciproco fratricidio
nasce dalla volontà di condannare l'avidità di denaro e il mercantilismo come germi originari della corruzione che affliggeva l'oligarchia dell'epoca causandone il decadimento. 
Lo spazio interno del mastio con la torre pentagonale
Quanto alla Rocca, fu edificata con tutta probabilità nel corso dell'XI secolo, con un'architettura dalla modularità pentagonale che aveva preso a prestito un tema tipico delle fortificazioni "imperiali" dell'epoca, come ad esempio il Castello dell'Imperatore di Prato. Il pentagono inscritto entro un altro pentagono, nel caso specifico la torre pentagonale situata all'interno del mastio anch'esso pentagonale, con il suo percorso di accesso spiraleggiante, simboleggia un tema caro alle élites intellettuali dell'epoca, quello del labirinto monocursale, inteso come percorso che il cristiano deve compiere per arrivare alla redenzione.

L'edificio ha avuto diverse fasi successive di sviluppo, protrattesi per tutto il tempo del dominio albertesco, con varie ristrutturazioni e modifiche.
Probabilmente il secolo più importante nella vita di questa fortificazione fu il XIII. In questo periodo la costruzione arrivò a completamento e vi si svolsero anche alcuni eventi di una certa importanza storica, come l'incontro tra Adelaide degli Alberti e il suo futuro sposo - e signore della Marca Trevigiana - Ezzelino III da Romano. Una delle loro figlie, Cunizza, dalla vita sentimentale assai movimentata, citata da Dante nel Paradiso, vi fece testamento nel 1278 ed è probabile che sia stata sepolta nel cimitero del castello, che disponeva anche di una chiesa intitolata a San Martino.
La rocca vista dal crinale sovrastante
Anche dopo la vendita fatta al comune di Firenze nel 1361 da parte di Niccolò Aghinolfo degli Alberti, ultimo conte di Cerbaia, la fortificazione rimase operativa. Fu parzialmente abbandonata verso la metà del Quattrocento per rivivere un breve momento di gloria nel periodo del Sacco di Prato (1512), durante il quale un pratese che aveva diversi possedimenti nella zona, Novelluccio Novellucci, fu incaricato dalla Repubblica Fiorentina di mantenere "il fornimento" del castello.

Il Novellucci apportò nella circostanza diverse modifiche alle costruzioni, tutte però a carattere residenziale, probabilmente per consentire un idoneo acquartieramento agli armati che avrebbero dovuto sorvegliare la valle del Bisenzio in attesa delle truppe spagnole di Raimondo di Cardona, che però scelsero la parallela  - e più bassa - val di Marina per raggiungere la piana pratese e fiorentina. Dettaglio curioso, le modifiche murarie realizzate furono effettuate con l'uso di laterizio prodotto in loco con apposite fornaci, le prime in questa parte della val di Bisenzio.

Dopo quest'ultimo episodio il castello perse definitivamente importanza, entrando a far parte di quella vasta schiera di fortezze dismesse che punteggiano la nostra regione, romantiche rovine che molto spesso nascondono un passato tormentato.
La porta di ingresso della seconda cinta muraria
Come per altre rocche toscane, un segno di rinascita dal declino inesorabile che ha caratterizzato l'edificio negli ultimi secoli si è avuto nel 1999, anno in cui la famiglia tedesca Edelmann - ultima proprietaria del castello, che aveva acquistato nell'Ottocento dai Biagioli - ha deciso di cedere il rudere al comune di Cantagallo per 30.000 Euro. Il comune ha avviato una campagna di scavo e di restauro, fin qui condotta solo parzialmente, che ha però portato al recupero e alla stabilizzazione di una parte dei ruderi. Molto resta ancora da fare, speriamo che vengano trovate le risorse necessarie per valorizzare in modo adeguato un luogo così affascinante.
La pianta del castello, ricostruita dagli scavi archeologici:
CF1 - Torre centrale; CF2 - Palazzo; CF3 Terrazzamento;
CF4 Edificio di servizio; CF5 Muro di cinta del Cassero;
CF6 Seconda cinta muraria; CF7 Palazzo Nuovo;
CF8 Cisterna; CF10 Chiesa di San Martino.
Carta della zona (cliccare per ingrandire)
Chi fosse interessato a scaricare il tracciato GPS (formato KML) del sentiero che sale fino alla rocca (è il numero 48 del CAI, tracciato con i classici segni bianchi e rossi, prosegue dopo fino a Montecuccoli) può cliccare QUI. Andata e ritorno sono circa due chilometri per 200 metri di dislivello.

domenica 15 marzo 2015

Le Cascate dell'Acquacheta di San Benedetto in Alpe

"Come quel fiume c’ ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino,

che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,

rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto (...)"
Così Dante Alighieri ricorda la cascata dell'Acquacheta nel sedicesimo Canto dell'Inferno, dandole fama imperitura anche ben oltre le notevoli caratteristiche fisiche del salto d'acqua in questione, che precipita fragorosamente per circa 90 metri giù dal pianoro dei Romiti unendosi alle acque del Fosso di Cà del Vento per alimentare il corso del torrente omonimo, che insieme al Troncalosso forma - poco a monte di San Benedetto in Alpe - il fiume Montone, corso d'acqua romagnolo di circa 90 km. di lunghezza.

In realtà le cascate sono tre. Oltre alla maggiore, giustamente celebrata, ce n'è un'altra a pochissima distanza, formata dal Fosso di Cà del Vento che si getta in una profonda pozza scavata nell'arenaria e una immediatamente al di sotto della confluenza tra i due fossi, dal salto relativamente piccolo ma dalla notevole portata.

La prima delle tre cascate è costeggiata dal sentiero che si allarga poi in un belvedere aperto alla vista della cascata maggiore. L'ultima cascata, quella del Fosso di Cà del Vento, si trova pochi metri più avanti del belvedere, in corrispondenza del guado che permette di salire fino al prato dei Romiti, il luogo da cui la cascata più grande precipita nella valle. Di fianco al punto in cui l'acqua cade, le bancate di arenaria macigno che formano il versante si innalzano obliquamente fino a formare una sorta di sperone roccioso proteso nel vuoto per diversi metri da cui si ammira un vertiginoso panorama della valle.


Cliccare sull'immagine per vedere la sequenza
A completare il quadro, proprio sopra al pianoro dei Romiti e quindi alla cascata maggiore, ci sono i resti davvero suggestivi di un antico romitorio successivamente diventato casa colonica, probabilmente in origine una dipendenza cenobitica della vicina Abbazia di San Benedetto "in Alpe", fondata prima del Mille da San Romualdo e retta da un Abate residente fino al 1499 per poi venire soppressa da papa Alessandro VI Borgia, trasformata in parrocchia e passata all'amministrazione dell'Abbazia di Vallombrosa.

La spettacolarità dell'insieme è indiscutibile e cambia costantemente al variare della stagione, a seconda dello stato vegetativo del bosco e della portata di acqua dei torrenti. Costante è - soprattutto - il senso di attonita meraviglia che questo luogo lascia sempre dentro di noi.

Cliccare sull'immagine per ingrandire
Chi volesse seguire i nostri passi, può utilizzare la mappa (stampabile) del nostro itinerario visibile qui sopra. Abbiamo percorso - andata e ritorno - circa 12 km per 400 metri di dislivello. Chi è interessato a scaricare il tracciato GPS (formato GPX), può cliccare QUI.

martedì 3 marzo 2015

All'Eremo di Gamogna, un luminoso martedì di marzo

Eremo di Gamogna
"Immerso nel silenzio, l'Eremo ti regala un tempo nella bellezza della Creazione, un tempo con Dio per te"
Di tutti i luoghi remoti tutt'ora abitati dell'Appennino Tosco-Emiliano una menzione d'onore spetta sicuramente all'Eremo di San Barnaba a Gamogna, piccola struttura monastica gestita dalla Fraternità Monastica di Gerusalemme. Si trova ai piedi del monte omonimo, a circa 800 metri di altezza, nell'alta valle del torrente Acerreta, uno dei tributari del fiume Lamone. Raggiungerlo non è certamente alla portata di tutti: in questo secolo di trasporti onnipresenti e rapidi si trova a circa due ore di cammino dalla strada più vicina, e può capitare come a noi oggi di avere difficoltà nel percorrere il sentiero anche in una bella giornata, a causa dei danni portati dalla cattiva stagione e dalle intense nevicate.
Veduta dal sentiero
Arrivare all'Eremo di Gamogna è però un'esperienza indimenticabile: per certi versi è un vero viaggio nel tempo e soprattutto un itinerario dentro noi stessi. In quest'epoca superflua un luogo essenziale come questo colpisce al cuore; e viene spontaneo chiedersi di quante - e quali - cose abbiamo davvero bisogno per vivere pienamente la nostra vita.

L'interno della chiesa
Pare che la nascita di questo complesso monastico risalga a quasi mille anni fa, per la precisione al 1053, e sia dovuta all'iniziativa di San Pier Damiani, che promosse la vita eremitica e gli ideali monastici redigendo una Regola che sottolineava fortemente il "rigore dell'eremo" visto come cammino per la redenzione. Nel silenzio del chiostro, il monaco è chiamato a trascorrere una vita di preghiera, diurna e notturna, con prolungati ed austeri digiuni; deve esercitarsi in una generosa carità fraterna e in un'obbedienza al priore sempre pronta e disponibile. Pier Damiani qualificò la cella dell'eremo come «parlatorio dove Dio conversa con gli uomini».
La meridiana moderna situata dietro l'Eremo
L'esperienza dell'Eremo a Gamogna durò cinque secoli con vicende alterne: abbandonato varie volte, perfino raso al suolo da terremoti, fu sempre ricostruito e da un certo punto in poi venne abitato dai padri camaldolesi che già operavano in altri monasteri della zona. Nel 1532 fu trasformato in parrocchia e quindi vide scomparire la presenza monastica. Restò affidato a un parroco fino al 1957, quando l'ultimo parroco si ritirò. Da quel momento prevalse ancora il degrado fino al 1991, anno in cui ci fu il riscatto ad opera del sacerdote faentino don Antonio Samorì che ne promosse il restauro.
L'Eremo da dietro
Dal 1994 l'Eremo ospita nuovamente una comunità di suore, ed è tornato ad assolvere funzioni spirituali e di ospitalità religiosa; la regola di questa comunità è quella di vivere senza beni materiali una sorta di clausura circoscritta al monastero, vivendo in comunione lunghi tempi di preghiera e grandi silenzi, prendendo coscienza della bellezza del cosmico meccanismo in cui si trova incastonata la vita di ogni essere umano.

Colpisce agli occhi del visitatore occasionale la determinazione che porta queste persone a vivere così. Una scelta inattuale, molto distante dal mondo "moderno": un'immersione profonda nella realtà naturale della Creazione nella convinzione che solo questa - e non l'opera umana, ridotta in questi luoghi ai minimi termini - possa fare da degna cornice alla lode di Dio che il monaco deve perseguire incessantemente attraverso la propria vita per essere - attraverso la penitenza e la preghiera - al servizio di tutta l'umanità.

Io rispetto profondamente queste persone. Forse le invidio anche, per questa loro fede che riesce a dare un significato così intenso alla loro vita. Cito dalla loro pagina:
"In una società secolarizzata, ansiosa, senza un punto di riferimento duraturo, essere segno di contraddizione: credere nell'uomo, mostrare la sua gioia, testimoniare la sua speranza, vivere la carità e, se possibile, esprimere la sua fede."
Ubicazione dell'eremo rispetto a Marradi
Chi volesse seguire i nostri passi, può scaricare QUI il tracciato GPS (formato gpx) del nostro itinerario.

mercoledì 25 febbraio 2015

Del Paesaggio, Rainer Maria Rilke

Viandante sul mare di nebbia, Caspar David Friedrich, 1818
Molti anni fa, su di un numero di quella reincarnazione dell'Illustrazione Italiana che fu edita da Guanda nei primi anni Ottanta del Novecento, uscì la traduzione di un saggio di Rainer Maria Rilke che porta il titolo Del Paesaggio. Ne restai molto colpito: il tema mi interessava già allora, ma quello che mi piacque particolarmente fu la prosa, così scintillante e ben congegnata, una sinfonia di parole che mi lasciò ammaliato e mi convinse a leggere altri libri di questo autore.

In quella circostanza feci anche qualche ricerca: scoprii che quello che avevo letto era considerato un lavoro minore, poco pubblicato in Italia, scritto probabilmente nel 1902 e destinato a un volume su Worpswede, il luogo della Bassa Sassonia dove Rilke conobbe la futura moglie Clara Westhoff. A Worpswede, paese isolato e rurale al centro di una vasta torbiera chiamata Teufelmoor (palude del Diavolo), negli ultimi anni dell'Ottocento si era insediata una piccola colonia di artisti - la Künstlerkolonie Worpswede - che rivendicavano la loro indipendenza dalle grandi accademie e cercavano un'espressione artistica "incorrotta dal contatto con la civiltà moderna". Rilke ne fece parte, frequentando per diversi anni questo cenacolo e progettando un libro che ne raccontasse le vicissitudini.

Il libro non è mai stato completato: ne restano però diversi frammenti, il più significativo dei quali resta quello che lessi tanti anni fa e che vi propongo qui di seguito, che racconta nello stile inimitabile di Rilke l'evoluzione del concetto di paesaggio dall'età antica a quella moderna. Il testo è tratto dall'edizione Cederna del 1949 di cui ho reperito fortunosamente un esemplare; la traduzione - molto bella - è di Giorgio Zampa.

Del Paesaggio

Leonardo da Vinci, Monna Lisa (dettaglio)
Sappiamo tanto poco della pittura degli antichi; ma forse non è troppo azzardato supporre che essi vedevano gli uomini come più tardi i pittori hanno visto il paesaggio. Nelle figure dei vasi (questi ricordi indimenticabili di una grande arte del disegno) l’ambiente — casa o strada — è solo nominato, abbreviato quasi, dichiarato solo con l'iniziale; e invece sono tutto gli uomini nudi, sono come alberi che rechino frutta e ghirlande di frutta, come siepi in fiore, come primavere in cui cantino gli uccelli. 

Allora era il corpo — lo coltivavano come una terra, si adoperavano intorno ad esso come intorno a un raccolto, lo possedevano, come si possiede un buon podere — la bellezza da contemplare, l’immagine attraverso la quale passavano in ordine ritmico tutte le significazioni: dèi e animali e tutti i sensi della vita. 

L’uomo, sebbene al mondo da secoli, era ancora troppo nuovo a se stesso, troppo entusiasta di sé per guardare oltre il suo corpo o distoglierne lo sguardo. Il paesaggio era il cammino su cui egli procedeva, la pista su cui correva, tutti i luoghi di gioco e di danza nei quali si svolgeva la giornata dei greci; le valli in cui si raccoglieva l’esercito, i porti dai quali si salpava verso le avventure e nei quali si rientrava invecchiati e pieni di ricordi inauditi; i giorni di festa e le notti fastose che li seguivano, con un suono d’argento, le processioni in onore degli dèi e le cerimonie intorno all’altare..., questo era il paesaggio in cui si viveva.

Ma il mondo, deserto di dèi dalle umane sembianze, era estraneo, i contrafforti su cui non si levava alcuna visibile statua, le pendici sconosciute al pastore non erano neppure degni di menzione. Tutto era come un palcoscenico vuoto fino a quando l’uomo non sopravvenne, animando la scena con l’atteggiamento sereno o tragico del suo corpo. Tutto era in attesa di lui, e dove egli giungeva tutto si traeva indietro e gli cedeva spazio.

L’arte cristiana perdette questo rapporto con il corpo senza accostarsi veramente al paesaggio; uomini e cose erano in essa come lettere, ed essa formava lunghe frasi dipinte con un alfabeto di iniziali. Gli uomini erano spoglie, e corpi soltanto nell’inferno; il paesaggio poteva raramente essere la terra. Quasi sempre esso doveva, quando fosse ameno, significare il cielo; ove incutesse spavento e fosse inospitale e selvaggio, appariva come il luogo degli esiliati e dei perduti in eterno. 

Certo, era visibile - gli uomini si erano fatti esili e trasparenti - ma era proprio di quell’arte sentire il paesaggio come una cosa effimera, come una fila di tombe rivestite di verde sotto le quali è l’inferno, mentre sopra il cielo si apre nella sua immensità come l’unica, profonda realtà voluta da ogni essere. Ma poiché si dettero, a un tratto, tre luoghi, tre dimore di cui tanto si parlava - Cielo, Terra e Inferno -, era urgentemente necessario situarli, si dovevano vedere e rappresentare. Nei primi maestri italiani codesta rappresentazione, superato il suo scopo, raggiunse una grande efficacia — e basta ricordare le pitture del Camposanto di Pisa per sentire che la concezione del paesaggio era già diventata cosa fine a se stessa. 

Si pensava ancora di far conoscere un luogo, e nulla più; ma in quest’opera si misero tanta cordialità e abbandono, con tanta e così incantevole eloquenza d’innamorati si raccontò delle cose che gremivano la terra, la terra rinnegata e calunniata dagli uomini, che quella pittura ci appare oggi come un inno al creato, al quale i santi uniscono la loro voce. E tutte le cose che si vedevano erano nuove: vedere era continuo stupore, gioia d’infinite scoperte. Avvenne così che la lode della terra fu anche la lode del cielo, e che nel desiderio di ravvisare questo, si imparò a conoscere quella: perché la profonda pietà è come una pioggia: ricade sempre sulla terra da cui si è levata, ed è una benedizione sui campi.

Così, senza volerlo, si erano provati il calore, la felicità, lo splendore che possono emanare da un prato, da un ruscello, da un pendio fiorito, dagli alberi carichi di frutta posti gli uni accanto agli altri; e quando si dipingevano Madonne, si avvolgevano di questa ricchezza come di un mantello e si cingevano di essa come di una corona, in loro lode si spiegavano paesaggi come bandiere: perché non si sapeva allestire per esse nessuna festa che fosse più splendida, nessuna devozione si conosceva che somigliasse a questa: portare tutta la bellezza appena trovata e fonderla con esse. Così non fu più questione di un luogo, ormai, neppure del cielo: il paesaggio fu cantato come un inno a Maria che risuonasse con colori chiari e squillanti.

Il progresso era stato notevole: si dipingeva il paesaggio, e tuttavia non si guardava ad esso, ma a se stessi: il paesaggio era diventato pretesto per un sentimento umano, immagine di gioia, semplicità e devozione umane: era diventato arte. E già Leonardo lo ricevette come tale. Nei suoi quadri, i paesaggi sono espressioni dell’esperienza e saggezza più profonde, specchi azzurri in cui arcane leggi si contemplano assorte, lontananze immense come il futuro e come questo imperscrutabili. Non è per nulla un caso che Leonardo, il quale aveva prima dipinto figure umane come esperienze, come destini traverso i quali egli era passato solitario, sentisse anche il paesaggio come un mezzo per esprimere un’esperienza, una profondità e una tristezza indicibili. Quest’uomo, superiore a tanti ancora di là da venire, poté usare di tutte le arti senza limite: come in varie lingue, egli raccontò in esse la sua vita, i progressi e le lontananze della sua vita.

Nessuno ancora ha dipinto un paesaggio che, pure essendo un vero paesaggio, sia insieme voce e confessione come quello, profondo, che s’apre dietro Madonna Lisa. Come se tutto l’umano sia contenuto nella figura della donna infinitamente tranquilla, e tutto il resto, ciò che precede l’uomo e l’oltrepassa, sia in quell’enigmatico insieme di monti, alberi, ponti, cieli ed acque. Questo paesaggio non è un’immagine dei sensi, il pensiero di un uomo su un mondo immobile: è natura che nacque, mondo che divenne, estraneo all’uomo come la foresta inviolata di un’isola ancora da scoprire. 

Guardare al paesaggio come a qualche cosa di lontano e di estraneo, di remoto e di astratto che trova in sé la sua compiutezza — questo era necessario se esso, il paesaggio, voleva diventare mezzo e occasione per un’arte autonoma: doveva essere lontano e molto diverso da noi, per diventare nei confronti del nostro destino un paragone liberatore. Doveva essere quasi ostile nella sua sublime indifferenza per dare con i suoi oggetti un nuovo significato alla nostra vita.

E in tal senso procedette la formazione di quell’arte del paesaggio che Leonardo da Vinci, precorrendo i tempi, aveva già posseduto. Essa si elaborò lentamente, attraverso i secoli, nelle mani di solitari. Lunghissimo era il cammino da percorrere, perché difficile era disabituarsi tanto dal mondo da non guardarlo più con l’occhio prevenuto di chi vi è nato, attento a riferire tutto a sé e ai propri bisogni. Si sa quanto sia imperfetta la conoscenza delle cose tra cui viviamo, e come, spesso, debba venire qualcuno da lontano a dirci quello che ci circonda. 

Così, fu necessario allontanare le cose da sé per essere poi capaci di accostarle con modi più giusti e pacati, a rispettosa distanza e con minore confidenza. Si cominciò infatti a capire la natura quando non la si capì più: quando si capì che essa era l’altra parte, indifferente, incapace di accoglierci, — si era già fuori di essa, solitari, usciti da un mondo solitario. Questo era necessario, per essere artisti nei suoi confronti: non si doveva più sentirla contenutisticamente, poggiando sul senso che essa poteva avere per noi, ma oggettivamente, come una grande realtà esistente.

Un’identica forma di sensibilità era stata portata nei confronti della creatura umana, quando la si dipingeva in tutta la sua grandezza. Poi l'uomo era diventato vacillante e incerto, la sua immagine si dissolse in un seguito di metamorfosi e fu appena possibile coglierla. La natura era più grande e più costante: in essa ogni moto era più ampio, ogni riposo più semplice e solitario. Nacque nell'uomo il desiderio di parlare di sé impiegando i mezzi sublimi della natura come di qualcosa di altrettanto reale; così nacquero quelle pitture di paesaggio in cui non accade nulla.

Si dipinsero mari deserti, case bianche in giorni di pioggia, strade sulle quali nessuno cammina, acque indicibilmente solitarie. Sempre più scomparve il pathos; e tanto meglio si comprese questo linguaggio quanto più semplice fu il modo con cui lo si usò. Ci si sprofondò nella grande quiete delle cose, si sentì come la loro esistenza si svolgesse nella legge, senza attese e senza impazienze. Gli animali vi si aggiravano tranquilli, sopportando come quelle il giorno e la notte, ed erano pieni di leggi. E quando l’uomo vi fece la sua comparsa come pastore, come contadino o semplicemente come una figura rilevata contro il fondo del quadro, ogni superbia era da lui caduta, con la volontà di essere una cosa.

In questa evoluzione dell’arte del paesaggio verso una graduale trasformazione in paesaggio del mondo stesso è da vedere una lunga fase del progresso umano. Il contenuto di questi quadri, che scaturiva così naturalmente dalla contemplazione e dal lavoro, ci dice che un futuro ha avuto inizio nel nostro presente: l’uomo non è più il compagno che cammina in equilibrio tra i suoi simili, e neppure quello per cui esistono e sera e mattina e vicino e lontano; posto come una cosa tra le cose, è immensamente solo: tutto quanto vi ha di comune tra uomini e cose si è ritirato nella profondità comune donde traggono nutrimento le radici di ogni divenire.

Rainer Maria Rilke

martedì 17 febbraio 2015

La Mano Sinistra delle Tenebre - Ursula K. LeGuin

La luce è la mano sinistra delle tenebre,
E le tenebre la mano destra della luce.
Due sono uno, vita e morte, e giacciono
Insieme come amanti in kemmer,
Come mani giunte,
Come la meta e la via
.
Si dice che i romanzi di fantascienza invecchino con il passare degli anni e con l'avanzare della tecnologia. Questo libro di Ursula LeGuin, invece, affascina ancora per la sua capacità di descrivere e farci vivere un mondo così simile al nostro ma nello stesso tempo profondamente diverso.

La science fiction ambisce di mettere in scena l'uomo spostando la sua azione in contesti "alieni" sia per motivi di semplice intrattenimento letterario che per mettere in discussione aspetti del nostro essere e della nostra società che diamo per scontati. Il contesto in cui avviene l'azione può essere scientifico o tecnologico, l'ambiente può essere anche del tutto diverso dal mondo che ci circonda, ma spesso quello che accade è una semplice trasposizione di una vicenda letteraria - un giallo, una storia d'amore, un romanzo d'avventura - su di un fondale più o meno esotico che influenza ben poco la vicenda in sé.

Questo libro invece si basa su di un assunto semplice e al tempo stesso conturbante, e non mette in scena astronavi o tecnologie mirabolanti, non presenta teorie sconvolgenti sulla Vita, l'Universo e Tutto Quanto. Si limita ad osservare - e farci osservare - quanto potrebbe essere diversa una società in cui gli uomini, intesi come specie senziente, non avessero una sessualità ben definita ma fossero degli androgini che assumono un ruolo sessuale esplicito solo pochi giorni al mese.

La vicenda si svolge su di un pianeta stretto nella gelida morsa di una glaciazione perenne con pochi giorni all'anno di temperature sopportabili, come se anche il clima rispecchiasse la sessualità dei suoi abitanti. Pur avendo una grande capacità immaginativa l'autrice usa molti topoi della narrativa di avventura: la caduta in disgrazia del protagonista, il suo imprigionamento, la lunga fuga - descritta magistralmente - attraverso la calotta polare del pianeta.

Ma quello che rende questa storia davvero indimenticabile è la sensibilità della LeGuin, la sua capacità di farci immedesimare nel rapporto tra i due protagonisti, alieni l'uno all'altro nella sostanza dei loro sentimenti ma - ciò nonostante - capaci di superare le loro differenze, per ritrovarsi uniti da quel nocciolo di umanità che ci accomuna tutti.

Ursula K. LeGuin
LA MANO SINISTRA DELLE TENEBRE
Edizioni TEA
269 pagine, copertina paperback

martedì 3 febbraio 2015

Del gelso di casa Sasso Nero a Iavello

Il grande gelso di Casa Sasso Nero
Salendo per la strada che dall'abitato di Bagnolo si dipana tortuosamente attraverso i boschi fino a raggiungere la villa-fattoria di Iavello si incontrano diverse case coloniche, un tempo appartenenti alla villa in questione, adesso quasi tutte restaurate e trasformate in residenze di campagna per cittadini.

L'ambiente collinare ai piedi degli oltre novecento metri dei Faggi di Iavello, compreso tra i due torrenti Agna e Bagnolo, era infatti nei secoli passati assai più coltivato e popoloso di adesso. 

Giovanni Villani, mercante, storico e cronista fiorentino contemporaneo di Dante Alighieri, racconta con un tocco di involontario umorismo topografico che nel luogo ove oggi si trova la Fattoria di Iavello esistevano negli anni intorno al Mille la chiesa e il villaggio di San Tommaso sul Poggio di  Giove, i cui abitanti dovettero però emigrare nella piana a seguito di ripetuti saccheggi, dando origine a quel villaggio di Pratum che ha dato nome alla nostra città. 

Ma lo spopolamento fu solo temporaneo, i luoghi erano fertili e solatii: a "Giavello" toponimo  derivante dal tardo latino che significa "manipolo, fascio di spighe" fu dapprima edificato intorno al 1100 un fortilizio - sicuramente in legno - da parte dei conti Guidi: che lo cedettero ai primi del Trecento agli Strozzi, e poi ai Venturi, ai Martini Bonajuti, ai Da Filicaja, ai Pandolfini Covoni che ne fecero infine eredi per matrimonio - a metà Ottocento - gli attuali proprietari, un ramo dei principi Borghese di Roma. 

Il 28 novembre del 1325 la fortezza fu presa e distrutta dalle truppe di Castruccio Castracani, che assediavano anche il castello di Montemurlo, e poi ricostruita e trasformata più volte fino ad assumere l'aspetto attuale di villa signorile con fattoria, più isolata per posizione ma non diversa da tante altre del territorio.

Nel 1940 i Borghese arrivarono a attribuire alla tenuta di Iavello 20 poderi nei comuni di Montemurlo, Montale e Cantagallo, e l'estensione dei boschi appenninici gestiti dall'azienda raggiunse in quelle date quasi i 1000 ettari, per poi ridimensionarsi nel secondo dopoguerra con la crisi dell'agricoltura tradizionale. Negli anni Sessanta del Novecento 600 ettari della tenuta vennero ceduti al demanio, che li incluse nell'area protetta della foresta dell'Acquerino: molte altre case e terreni furono venduti a privati, e nell'insieme i campi e le coltivazioni si ritirarono per lasciare spazio a quella rinaturalizzazione che contraddistingue tutto il nostro Appennino.

Non diversamente da quelli di altre zone che conosciamo anche gli antichi poderi di Iavello sono rimasti vittime dell'inesorabile smembramento che è seguito alla perdita della loro funzione produttiva, col risultato che solo i terreni più prossimi agli edifici sono rimasti ad essi collegati, mentre il resto delle loro antiche pertinenze - uliveti, boschi, vigneti - sono diventati solo uno sfondo per allietare lo sguardo degli attuali residenti, che frequentano questi luoghi per lo più nei fine settimana o durante le ferie estive.

Ciò che resta dell'antico paesaggio agrario, massimamente oliveti e vigne, spesso coltivati in quei campi terrazzati che testimoniano silenziosamente il lavoro di generazioni di contadini, sono stati riadattati alle esigenze del cittadino che "gioca" a fare il coltivatore diretto, abbandonando le attività che richiedono una presenza costante e un forte impegno di manodopera a favore di quelle che possono - o si pensa che possano - essere praticate nel così detto "tempo libero".
Il gelso e la casa
In questo contesto la coltivazione del gelso è una delle attività che abbiamo perduto e che non fa parte di quelle "giocate" nel fine settimana dai cittadini in libera uscita. Collegata all'allevamento del baco da seta, la coltivazione di questa pianta originaria dell'Asia era diffusa in tutta la Toscana in forma più o meno dispersa, di solito come attività sussidiaria portata avanti dai contadini con quel sistema produttivo "misto" tipico del podere mezzadrile, che tendeva ad ottimizzare anche così l'impiego della numerosa manodopera familiare nel corso delle stagioni.

Dal gelso, oltre alle foglie - indispensabili per l'allevamento dei bachi da seta che se ne nutrono - si utilizzano i frutti dette "more". Maturano nel mese di giugno e vantano svariate proprietà curative nei confronti di febbre e affezioni dell'apparato respiratorio. Non ultima cosa, sono anche buone da mangiare e per aromatizzare liquori.

Il gelso della casa Sasso Nero è un esemplare imponente di questa specie. Penso che sia stato messo in loco al momento della costruzione della casa colonica nelle forme attuali, più o meno tra il XVII e il XVIII secolo, nel periodo in cui la proprietà della terra era della famiglia Martini Bonajuti. La sua età è quindi di circa 400 anni, e ciò lo pone di diritto tra i "monumenti verdi" della nostra zona: da conservare, tutelare e visitare, naturalmente con la dovuta reverenza di fronte a un essere vivente che ha attraversato indenne oceani di tempo per giungere fino a noi. E con un plus, se vogliamo: quello di rappresentare, per chi sappia vedere oltre l'apparenza, quella trasformazione che tutti noi stiamo vivendo.
Carta IGM al 25:000 della zona di Javello